Un vantaggio di almeno 15 punti per Luis Arce (candidato del Movimento al socialismo) su Carlos Meda, ex presidente centrista dal 2003 al 2005 (Comunidad Ciudadana), con un’affluenza alle urne dell’87 per cento. Eletti pure 36 senatori e 130 deputati. Con il 53 per cento per Arce risulta inutile un turno di ballottaggio. E’ questo il risultato delle elezioni boliviane. La situazione torna dunque alla normalità a un anno di distanza dal golpe che aveva costretto Evo Morales a espatriare. Si arresta forse la tendenza di svolta a destra dell’America Latina (elezioni in Brasile, Cile eccetera) dopo un ventennio nel quale il vento soffiava in tutt’altra direzione mutando il quadro politico di quella parte di mondo.
I nostri giornali si occupano poco e male di America Latina. In Bolivia si fronteggiavano due linee strategiche: maggiore integrazione regionale e lotta alle disuguaglianze o ulteriori privatizzazioni, indebitamento e inserimento subalterno nell’economia internazionale grazie all’export di litio, oro nero boliviano. (le auto elettriche del futuro usano batterie di questo tipo). Poco o nulla anche su queste elezioni, mentre si fecero titoloni sulla sconfitta e la fuga da La Paz di Morales che trovò asilo a Buenos Aires. Gli organismi internazionali si affrettarono a legittimare quanto accaduto sulla base di presunti brogli del presidente uscente che fece certamente l’errore di imporre la sua presentazione per la quarta volta alle elezioni presidenziali forzando le regole istituzionali poi travolte da esercito e polizia che si schierarono con i golpisti. Una tenace resistenza popolare ha finalmente costretto alla nuova prova elettorale dei giorni scorsi.
La Bolivia è inoltre arrivata alle elezioni con una crisi di legittimità delle sue istituzioni, aggravate dalla cattiva gestione del Covid 19 da parte di Jeanine Áñez, presidente ad interim (140 mila contagi, 8.500 morti). In questo quadro, la sinistra ha scelto di candidare Luis Arce, economista che è stato ministro dell’Economia di Morales fin dal 2006 e autore delle politiche statali redistributive dello Stato. Come vice, in un ticket rivelatosi vincente, si è scelto David Choquehuanca, ministro degli Esteri e stretto collaboratore di Morales.
C’era comunque un interrogativo alla vigilia di queste elezioni: in America Latina siamo alla fine di un ciclo progressista? Si sta tornando al dominio di governi conservatori un po’ liberisti e un po’ populisti? Novità progressiste si erano infatti concentrate nello scorso ventennio in America Latina con caratteristiche che non avevano precedenti nella storia del continente americano. Con poche eccezioni (Messico – ma poi è arrivata la presidenza non reazionaria di Andrés Manuel López Obrador nel 2018 – e Colombia), i risultati delle elezioni registravano lo spostamento a sinistra dell’orientamento dei singoli paesi. Anche sul fronte dei movimenti sociali (a iniziare da quello “indigenista”) si assisteva a un positivo protagonismo.
La politica però spesso procede per cicli. Mentre nell’ultimo ventennio la sinistra variamente intesa arretrava in Europa, in America Latina mieteva successi come mai prima era avvenuto. L’ex sindacalista Lula vinceva le elezioni presidenziali in Brasile nel 2002, seguiva Nestor Kirchner in Argentina, poi Hugo Chávez in Venezuela, Evo Morales nel 2005 in Bolivia, Rafael Correa in Ecuador, José Mujica in Uruguay. Tornava alla presidenza Michelle Bachelet in Cile e perfino il Paraguay conosceva una stagione progressista mentre si avviavano trattative di pace tra governi e guerriglie in San Salvador, Guatemala e Colombia. Prendeva corpo di conseguenza una spinta verso l’unità latinoamericana. A favorire questa stagione provvedevano una crisi economica a iniziare dal 2008 quasi inesistente rispetto a Europa e Stati uniti, l’allentamento della tradizionale pressione politica di Washington (le presidenze di Barack Obama), l’incrinarsi degli esperimenti neoliberisti, la richiesta di una alternanza nelle leadership, il bisogno di pacificazione dopo anni di dittature militari e repressione.
Da qualche tempo si ha tuttavia l’impressione che il ciclo del cambiamento si stia esaurendo, almeno nelle forme che abbiamo conosciuto fin qui. Prima la vittoria dei peronisti di destra in Argentina con Mauricio Macri (i peronisti di sinistra sono poi tornati al governo), poi il golpe istituzionale in Brasile che ha portato all’impeachment contro la presidente Dilma Roussef e all’arresto dell’ex presidente Lula, poi ancora le notizie che giungono dal Venezuela in ginocchio per la cattiva economia e la crisi del chavismo. Destra e potentati economici fanno il loro mestiere, sarebbe tuttavia un errore pensare che non ci siano debolezze e contraddizioni nel seno stesso delle esperienze progressiste.
Le responsabilità non sono solo “esterne”. Il chavismo bolivariano, dopo la morte di Chávez, ha perso smalto e progetto essendo sempre più accerchiato dai suoi nemici. In Brasile, la corruzione si è insinuata nelle file del Partito dei lavoratori e in alcuni settori dello stesso governo di Lula che dopo notevoli successi economici arrancava di fronte alle richieste sociali di una inedita classe media. In Bolivia, l’ostinazione di Morales a ricandidarsi per la quarta volta come presidente ha favorito un anno fa la destra. Mentre avvenivano questi fatti, si logorava il modello di sviluppo interamente incentrato sugli idrocarburi. Pure in Brasile e Venezuela non si sono create alternative al cosiddetto “capitalismo estrattivo”. Sono infine ritornati al pettine i tradizionali problemi dell’America Latina: debolezza dei partiti e della democrazia, difficoltà delle alternanze al governo, composizione sociale non strutturata, nuova classe media non rappresentata, destra sempre in agguato, economia dipendente dagli Stati uniti, populismi di destra e di sinistra in agguato.
La vittoria di Arce in Bolivia può rappresentare una controtendenza riaprendo il confronto nella sinistra latinoamericana e non solo. Le ribellioni sociali dei mesi scorsi in Cile, Colombia ed Ecuador sono l’indice di una ulteriore controtendenza possibile.