Il peggio del peggio si chiama Amy Coney Barrett Classe 1972, neo giudice alla Corte suprema (la terza nomina di Trump)è nata a New Orleans, in Louisiana, scuola cattolica femminile (la St. Mary’s Dominican High School), poi Rhodes College (massimo dei voti e lode, 1994) e Notre Dame University (summa cum laude, 1997). Ha svolto la pratica con due stelle del diritto americano: prima nel 1997-1998 come assistente del giudice Laurence Silberman (una figura molto importante del diritto e della politica degli Stati Uniti, insignito da Ronald Reagan nel 1984 della Presidential Medal of Freedom, la massima onorificenza civile in America) e poi nel 1998-1999 con il giudice Antonin Scalia, scomparso nel 2016, il più importante degli interpreti “originalisti” della Costituzione americana. Poi comincia la carriera accademica, prima come fellow alla George Washington University e poi titolare di cattedra all’università Notre Dame. Seguono articoli, opinioni, un appello contro l’Obamacare nel 2012. All’indomani della conferma alla Corte d’Appello del settimo circuito (il 31 ottobre del 2017, con 55 sì e 43 no), il New York Times rivelò che Barrett era iscritta all’organizzazione “People of Praise”, una sorta di gruppo “dove i membri giurano fedeltà gli uni agli altri” e dove si insegna “che il marito è il padrone delle mogli e l’autorità in famiglia”. Nel 2013 dichiarò che “la vita inizia con il concepimento”.
Ritiene che anche le sentenze della Corte Suprema possano essere rovesciate. Non si è mai espressa a favore della totale cancellazione del diritto all’aborto ma ha sottolineato la necessità di imporre restrizioni su quelli tardivi. Come giudice d’appello ha privilegiato la linea dura sull’immigrazione, appoggiando l’amministrazione Trump, ad esempio, nel voler negare il permesso di residenza (la green card) a chi chiede assistenza pubblica.
Una delle verità politiche meno note tra gli americani, ma ben presente a Washington è che la corsa alla Casa Bianca non si decide solo negli Stati chiave, ma dentro il palazzo dalle colonne corinzie tra First Street e Constitution Avenue: la Corte Suprema degli Stati Uniti.
Vent’anni fa furono i giudici a mettere fine alla battaglia all’ultimo voto tra George W. Bush e Al Gore su chi avesse conquistato la Florida. Il 3 novembre potrebbe ripresentarsi una situazione simile: nel caso di vittoria di misura, la parola tornerebbe di nuovi ai giudici della Corte. Questo avviene perché, rispetto a molte costituzioni occidentali, quella americana non contiene molti riferimenti alle elezioni. Il vuoto normativo ha finito per dare ai tribunali un ruolo chiave. E’ stata la Corte Suprema, per esempio, a riconoscere la validità di una legge approvata in North Dakota che stabiliva l’obbligo per gli elettori di presentare un documento con indicato l’indirizzo civico di residenza, penalizzando in questo modo i nativi americani che vivono nelle riserve. La maggior parte delle dispute si sono risolte con uno scarto minimo, come il 5 a 4 dello scontro Bush-Gore. Quando i democratici accusarono il giudice conservatore, l’italoamericano Antonin Scalia, di aver manipolato l’elezione del 43 presidente, lui rispose con un secco: “Fatevene una ragione”.
Negli ultimi anni la polarizzazione presente nel Paese ha finito per cambiare il panorama. La presenza di una maggioranza conservatrice, con la scelta di Barrett ora è ulteriormente rafforzata. La composizione della Corte da oggi vede sei giudici conservatori (Amy Coney Barrett, Samuel Alito, Neil Gorsuch, Brett Kavanaugh, Clarence Thomas e il giudice capo John Roberts) e tre liberal (Stephen Breyer, Elena Kagan e Sonia Sotomayor). Ovviamente i sei giudici conservatori sono stati nominati da presidenti repubblicani, i tre liberal da democratici. L’ultima parola spetta alla Corte e la prima decisione che potrebbe toccare al collegio che ora accoglierà Barrett è la più importante: chi sarà il nuovo presidente degli Stati Uniti.