Morire di Covid o di fame: il terribile dilemma nell'inferno di Gaza
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Morire di Covid o di fame: il terribile dilemma nell'inferno di Gaza

La Striscia di Gaza ha subito un numero record di casi di coronavirus ogni giorno, e il ministero della Salute del governo di Hamas, ha dichiarato che sabato ci sono stati 891 nuovi casi nell'ultimo giorno.

Covid a Gaza
Covid a Gaza
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Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

22 Novembre 2020 - 16.45


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Morire di Covid o morire di fame. E’ l’inferno di Gaza. Una prigione a cielo aperto, isolata dal mondo per l’assedio israeliano che dura da oltre tredici anni. E ora anche una prigione “infetta”.  La Striscia di Gaza ha subito un numero record di nuovi casi di coronavirus ogni giorno, e il ministero della Salute di Gaza del governo di Hamas,  ha dichiarato che sabato ci sono stati 891 nuovi casi nell’ultimo giorno.

Il numero di casi è salito a 5.036, con 332 in ospedale e 78 in gravi condizioni, e i decessi sono saliti a 62, la maggior parte negli ultimi due mesi. Il ministero non pubblica i dati sul numero di pazienti che utilizzano i ventilatori, ma secondo stime non ufficiali, tra il 40 e il 50 per cento dei ventilatori è utilizzato.

“Stiamo raggiungendo una situazione critica e non c’è dubbio che la Striscia avrà bisogno di un intervento esterno sul fronte medico e umanitario”, ha detto ad Haaretz un membro del sistema sanitario di Gaza. La fonte ha aggiunto che gli operatori sanitari  e i politici non erano d’accordo su questioni chiave, mentre le autorità erano in ritardo nell’imporre un blocco. Nel frattempo, la stragrande maggioranza dei residenti di Gaza viveva con un reddito di poche decine di shekel al giorno, quindi un isolamento significherebbe una fame diffusa. “Immaginate che un padre di sette o otto figli non possa permettersi nemmeno le maschere per i suoi figli, e le maschere costino uno shekel a testa”, dice.

Senza speranza

Il Centro Al Mezan per i diritti umani di Gaza ha riferito che migliaia di lavoratori giornalieri della Striscia hanno perso il lavoro negli ultimi mesi a causa del peggioramento dell’economia, e che l’80 per cento delle famiglie riceve aiuti per poter sfamare i propri figli. I funzionari della sicurezza di Gaza stanno cercando di imporre restrizioni per impedire gli incontri, soprattutto la sera. Cercano anche di assicurare che le persone indossino le maschere nei grandi centri commerciali, ma durante il giorno la maggior parte dei cittadini di Gaza non indossa maschere. 

Inferno in terra

La situazione nella Striscia è molto grave, sia a causa dell’embargo imposto da Israele fin dal 2007, sia per i conflitti combattuti negli ultimi anni tra le forze israeliane e i gruppi palestinesi. La chiusura della centrale elettrica sta peggiorando ulteriormente le cose, soprattutto in un momento in cui questi territori stavano già soffrendo frequenti e diffusi blackout. Mohammed Thabet, uno dei portavoce della compagnia di distribuzione dell’elettricità di Gaza, ha detto all’Associated Press che “molti servizi rischiano il collasso, se la crisi non verrà risolta», mentre il ministro della Salute della Striscia ha parlato di «pericolose conseguenze per i pazienti che si trovano nei reparti di terapia intensiva”. Oggi le uniche linee che forniscono elettricità nella Striscia sono quelle che partono da Israele. Il 97% di tutta l’acqua di Gaza non è adatta al consumo umano, secondo l’Oms (Organizzazione mondiale della sanità), il che pone un interrogativo estremamente urgente: come potrebbero gli ospedali di Gaza affrontare l’epidemia di Coronavirus quando, in alcuni casi, l’acqua pulita non è nemmeno disponibile allo Al-Shifa, l’ospedale più grande di Gaza?  Anche nei casi in cui l’acqua è disponibile, i medici, gli infermieri ed il personale sanitario non sono in grado di sterilizzare le mani a causa della pessima qualità di quest’ultima.  Il gel disinfettante per le mani è sempre stato quasi introvabile; le norme igieniche basilari sono spesso disattese per cause di forza maggiore; l’elevatissima densità di popolazione e le abitudini sociali quali ad esempio le frequenti strette di mano rendono Gaza un luogo nel quale il virus si diffonderebbe in maniera incontrollata nel giro di un paio di settimane.

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 Il sovraffollamento degli ospedali, la carenza di macchinari per la ventilazione meccanica e di posti letto in terapia intensiva, l’inquinamento e le conseguenti patologie che affliggono una gran parte della popolazione gazawa che risulta malata ed immunodepressa, porterebbero ad una mortalità esponenzialmente più elevata rispetto al resto del mondo. A questo si aggiunge un sistema fognario del tutto inadeguato con oltre un terzo delle famiglie che non è connesso al sistema delle acque reflue. Una situazione di carenza idrica di cui fanno le spese soprattutto donne e bambini, che in molti casi sono costretti a lavarsi, bere e cucinare con acqua contaminata e si trovano esposti così al rischio di diarrea, vomito e disidratazione. 

Gli effetti del blocco israeliano nella vita di tutti i giorni: commercio praticamente inesistente, famiglie divise e persone che non possono muoversi per curarsi, studiare o lavorare. Siamo all’annientamento di una popolazione: oltre il 65% degli studenti delle scuole gestite dall’Unrwa (l’Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi)  a Gaza non riescono a trovare lavoro a causa delle dure condizioni di vita, dell’aumento della povertà e dei tassi di disoccupazione. 

Bambini, le prime vittime

In un documentato report, Save the Children, chiede a Israele di interrompere subito il blocco di Gaza, dove quasi la metà della popolazione non ha lavoro e l’80% sopravvive solo grazie agli aiuti umanitari, e chiede alle autorità palestinesi e israeliane di fornire i servizi di base indispensabili agli abitanti dell’area. I 13 anni di isolamento hanno ridotto progressivamente la disponibilità di energia elettrica per le case che ora si limita a due ore al giorno o è totalmente assente per troppe persone. La mancanza di energia elettrica sta penalizzando un’infrastruttura già paralizzata dal blocco e dal conflitto, costringendo a frequenti e lunghe sospensioni del trattamento delle acque reflue che hanno causato l’inquinamento e la contaminazione di più del 96% delle falde acquifere, non sono più utilizzabili dall’uomo, e del 60% del mare di fronte a Gaza. Ogni giorno si riversano infatti nel mare 108 milioni di litri di acque reflue non trattate, l’equivalente del contenuto di 40 piscine olimpioniche. “I bambini di Gaza sono tristemente prigionieri del conflitto più politicizzato del mondo e la comunità internazionale non ha saputo reagire adeguatamente alle loro sofferenze. L’occupazione da parte di Israele e le divisioni nella leadership palestinese stanno rendendo la vita impossibile. Se hai 10 anni e vivi a Gaza hai già subito tre terribili escalation del conflitto. I bambini di Gaza hanno già sofferto 13 anni di blocco e di minacce continue a causa del conflitto. Vivere senza accesso ai servizi indispensabili come l’elettricità ha conseguenze gravi sulla loro salute mentale e sulle loro famiglie. Stiamo assistendo ogni giorno ad un aumento del livello di ansia e aggressività,” rimarca Jennifer Moorehead, Direttore di Save the Children nei Territori Palestinesi Occupati.  

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 La mancanza di energia elettrica ha un grave impatto sulla vita dei bambini di Gaza, che non possono avere accesso ad acqua potabile sufficiente o nutrirsi di cibi freschi, essere assistiti dai servizi sanitari e di emergenza quando servono o mantenere un livello minimo di igiene per mancanza di acqua corrente. Non possono dormire sufficientemente durante la notte per il troppo caldo ed essere quindi riposati per studiare a scuola, o fare i compiti o giocare a causa dell’oscurità. “Qui è diverso dagli altri paesi che hanno l’energia elettrica per tutto il giorno, la nostra vita non è come la loro. Il mio sogno più grande è poter essere come gli altri bambini che vivono in pace, in sicurezza e hanno l’elettricità,” dice agli operatori di Save the Children Rania che ha 13 anni e vive a Gaza. 

Rania e i bambini di Gaza hanno conosciuto solo la guerra. E le sue conseguenze che segnano l’esistenza fin dalla più giovane età. Il primo dato emerso da uno studio dell’Unicef successivo alla guerra di Gaza dell’estate 2014, indica che il 97% dei minori interpellati aveva visto cadaveri o corpi feriti, e che il 47% di questi aveva assistito direttamente all’uccisione di persone. I sintomi rilevati durante lo studio includevano: continui incubi e flashback; paura di uscire in pubblico, di rimanere soli, o di dormire con le finestre chiuse, nonostante il freddo; più nello specifico, i disturbi fisici più frequenti erano disturbi del sonno, dolori corporei, digrigno dei denti, alterazioni dell’appetito, pianto continuo, stordimento e stati confusionali; quelli emotivi includevano rabbia, nervosismo eccessivo, difficoltà di concentrazione e affaticamento mentale, insicurezza e senso di colpa, paura della morte, della solitudine e dei suoni forti. La conseguenza più diffusa era il Disturbo post-traumatico da stress (Dpts), ovvero l’insieme dei disagi psicologici che possono essere una possibile risposta dell’individuo a eventi traumatici o violenti. Si tratta di sintomi frequenti in qualunque territorio martoriato da una guerra ma, nel caso dei bambini di Gaza, la situazione diventa ancora più insostenibile, sia per l’alta percentuale di minorenni nella Striscia (circa la metà della popolazione, in un territorio tra i più popolati al mondo, con 4.365 persone per chilometro quadrato), sia perché Gaza è una striscia di terra, isolata e circondata da Israele e dal mare perennemente sorvegliato dalla marina dello Stato ebraico.  

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Fuga nella morte

Le guerre, l’assedio israeliano e lo scisma politico hanno apparentemente normalizzato la morte, dice Samah Jaber, direttore dell’unità di salute mentale del Ministero della Salute palestinese. La morte è diventata così naturale agli occhi di molti che ora vale più della vita stessa, che ha perso ogni valore, ha detto Jaber in un rapporto di Al Jazeera del 9 luglio sull’ondata di suicidi che sta investendo Gaza, e che riguarda soprattutto i giovani.

Nelle ultime settimane, diverse persone che in passato avevano tentato il suicidio hanno raccontato ai giornalisti le loro motivazioni: difficoltà economiche causate dalla perdita di un reddito regolare, l’accumulo di debiti, pegni e persino l’arresto per essere rimasto indietro con i pagamenti bancari.

La Banca Mondiale prevede che il 64% delle famiglie di Gaza vivrà al di sotto della soglia di povertà (rispetto al 53% prima della pandemia). Anche la disoccupazione (42 per cento nell’enclave alla fine del 2019) dovrebbe aumentare. Tra i giovani, ha già da tempo superato il 50 per cento.

Alcune delle organizzazioni non governative che lavorano nel settore sanitario a Gaza hanno scelto di non essere coinvolte nella recente discussione sui suicidi, per non dare l’impressione che ci sia stato un aumento significativo del loro numero. Il suicidio è ancora considerato tabù e socialmente vergognoso nella società musulmana palestinese.

Diversi siti di notizie hanno pubblicato le statistiche dei suicidi e dei tentativi di suicidio nella Striscia di Gaza negli ultimi anni. Secondo Al-Araby Al-Jadeed, nel 2015, su 553 tentativi di suicidio, 10 si sono conclusi con la morte; nel 2016, sono stati 16 su 626 tentativi. Le cifre per il 2017 sono state 566 e 23; per il 2018, 504 e 20; e nel 2019 ci sono stati 133 tentativi, di cui 22 “riusciti”. Come già notato, nei primi sette mesi di quest’anno, 12 palestinesi della Striscia si sono suicidati, e l’87 per cento di loro aveva meno di 30 anni. Poco più della metà dei tentativi di suicidio sono stati compiuti da donne, ma tra le persone che si sono suicidate, gli uomini sono la maggioranza.

Questa è la “normalità” a Gaza. Una tragedia che si consuma nel silenzio della comunità internazionale. Un silenzio assordante. Colpevole. Un silenzio di morte.

(ha collaborato Hosama Hamdan)

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