Bruno Giordano: "Vi racconto il mio Diego Armando Maradona"
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Bruno Giordano: "Vi racconto il mio Diego Armando Maradona"

Un brano tratto dal libro di Giancarlo Governi "Bruno Giordano  Una vita sulle montagne russe" Fazi Editore

Bruno Giordano e Diego Armando Maradona
Bruno Giordano e Diego Armando Maradona
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Giancarlo Governi Modifica articolo

25 Novembre 2020 - 17.45


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Bruno Giordano racconta Maradona tratto dal libro di Giancarlo Governi “Bruno Giordano  Una vita sulle montagne russe” Fazi Editore

 

Il presidente del Napoli ha annunciato al mondo pallonaro l’acquisto del grande Maradona, per una cifra astronomica. I napoletani sentono che i tempi stanno cambiando e che una nuova stagione, portatrice di vittorie e di supremazia, sta per iniziare. Tutto il resto – il degrado urbano, la disoccupazione, la camorra – non conta: ora ci penserà Maradona. Anzi, Diego Armando, come lo chiamano già familiarmente.

Lo avevamo visto ai campionati del mondo di due anni prima, nella partita contro l’Argentina. Lo avevamo ammirato per pochi minuti perché Gentile, il nostro roccioso difensore che non andava tanto per il sottile, lo aveva messo subito fuori combattimento. Poco sportivamente avevamo tirato un sospiro di sollievo perché quel piccolo ragazzo riccioluto, con le sue finte, i suoi scatti, le sue accelerazioni improvvise, faceva veramente paura.

Ora i napoletani non credevano ai loro occhi, neppure quando da un elicottero atterrato sul terreno dello stadio San Paolo pieno fino all’inverosimile lo videro discendere in tuta, come si addice ad un atleta sia pure in vacanza, per salutare la folla dei tifosi e delle autorità schierate sul campo. Allo stadio San Paolo ci sono 80.000 napoletani che hanno pagato mille lire a testa per assistere all’apparizione. 

Mentre Diego Armando saluta i napoletani in delirio fa la sua comparsa in scena, ovviamente, un pallone che finisce tra i piedi del Divino, il quale si esibisce in un palleggio interminabile: sinistro, destro, testa, sinistro, destro, testa, persino collo, spalla sinistra e spalla destra. Mentre il pubblico conta i tocchi in coro. Nell’ultimo tocco il pallone finisce in tribuna dove si accende una enorme rissa per il possesso. Inizia, quel pomeriggio, un quinquennio di gioie e dolori, di vittorie e di accuse infamanti, di esaltazione e di fughe che porrà Napoli e il Napoli al centro del mondo del calcio. Un periodo in cui Napoli otterrà il suo riscatto con una impresa passata alla storia e che non si è più ripetuta. E io ne farò parte, chiamato proprio dal Divino Diego.

Il feeling fra Napoli e Maradona si realizzò immediatamente, tanto che Diego si sentì subito un napoletano di elezione. “Voglio diventare l’idolo dei ragazzi di Napoli, perché loro sono come ero io a Buenos Aires” disse e fu così.

Maradona lo avevo conosciuto allo stadio Olimpico 7 anni prima. Si giocava Italia-Argentina, una bella partita amichevole finita in parità. Diego alla fine della partita si avvicinò e mi salutò. 

“Tu sei il famoso Giordano” mi disse… “Sei bravo” aggiunse e poi “magari un giorno ci capiterà di giocare insieme, chissà”. Io mi misi a ridere “famoso sei tu” gli dissi. Quando ebbi l’incidente di Ascoli Diego mi mandò un telegramma di incoraggiamento che terminava con un “vedrai che tornerai più forte di prima e un bel giorno giocheremo pure insieme”.

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In quella partita Diego si era comportato da par suo incantando gli spettatori e suscitando l’ammirazione anche di noi giocatori avversari. L’unico che non si era divertito era Tardelli che aveva il compito di marcarlo e che era ricorso molto spesso alle maniere forti, anche scorrette. Diego prendeva il fallo, si massaggiava un po’ la gamba colpita, si rialzava e riprendeva a giocare. Tardelli, che  aveva capito di avere esagerato,  alla fine della partita gli si avvicinò gli dette la mano e gli chiese scusa. Diego lo guardò con aria interrogativa “… e di cosa?” gli rispose.

Avevo seguito tutta la sua carriera, anche perché si parlava molto di lui, in Argentina e poi nel Barcellona, fino al clamoroso trasferimento a Napoli. Pensai a lui alla fine di quello sciagurato campionato che sarebbe stato l’ultimo con la maglia della Lazio, quando me ne stavo avvilito a leccarmi le ferite, dopo che avevo rotto con Giorgio che mi voleva mandare a giocare nella Roma e mi aveva additato ai tifosi come il maggiore responsabile del fallimento della società, oramai imminente.

Chissà se Diego si ricorderà di me, mi chiedevo. In realtà il primo anno a Napoli non aveva portato grandi risultati: erano arrivati settimi a dimostrazione che non bastano i grandi campioni senza una squadra intorno. Ero immerso in questi pensieri quando mi arrivò assolutamente inaspettata la telefonata di Sbardella.

“Bruno, che fai? Sei sempre capace di dare calci al pallone?”

“ Io sarei capace, però ho perso il pallone… non so quale prendere a calci”

“Te l’ho trovato io il pallone giusto…”

“Sei tornato a fare il direttore sportivo della Lazio?”

“Alla Lazio finché c’è Giorgio le porte per me sono chiuse… anche per te mi pare…”

“Capirai dopo che mi voleva mandare alla Roma… alla Roma vacci tu, gli ho detto”

“Ti piacerebbe giocare nel Napoli, con Maradona, dì la verità, ti piacerebbe, eh?”

“A Napoli ci vado a piedi…”

“No, tranquillo… non devi andare a piedi da nessuna parte, basta che vieni oggi pomeriggio a casa mia, ti faccio incontrare Italo Allodi che viene apposta per te”

Uno degli uomini più importanti del calcio italiano, colui che aveva fatto grande l’Inter di Moratti e di Herrera, che aveva diretto la Juventus degli anni Settanta e che poi aveva organizzato i corsi per allenatori a Coverciano, veniva a Roma per parlare con me. Non stavo più nella pelle e la mia gioia esplose proprio nel momento in cui stavo vedendo buio pesto nel mio futuro.

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Allodi mi tratta con grande affabilità e mi spara subito una frase che mi stende, tanta è l’emozione: “Diego mi ha detto: dottor Allodi, vada a Roma e mi porti Giordano. Io ho bisogno di un giocatore come lui, uno che sa dare del tu al pallone, abile nel palleggio, nel tiro e anche nell’assist… sei tu il giocatore che Diego mi ha ordinato di portare a Napoli”

“E io sarò felice di giocare accanto a Diego…” riesco appena a balbettare questa frase banale che il dottor Allodi mi invita a seguirlo nello studio di Sbardella. 

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 “Ora non ci rimane che telefonare a Diego”” dice Allodi.

Gli avvenimenti della giornata mi hanno lasciato spaesato e mi trovo a domandare un “Diego chi?” che lascia basito Allodi, il quale mi ribatte con aria ironica: “Per noi esiste un solo Diego!”

“Maradona?!” rispondo io. 

“Diego Armando Maradona, il divino…” chiude la conversazione Allodi mentre sta componendo un numero sul disco del telefono. Avviene tutto in un attimo e io mi ritrovo con la cornetta del telefono in mano, dalla quale arriva la voce di Maradona. “Ce ne hai messo di tempo, senza di te l’anno scorso siamo arrivati settimi. Ora non abbiamo più scusanti dobbiamo vincere…”

Balbetto qualche frase di circostanza, tipo sono contento sono onorato, che Diego chiude la conversazione con una frase che mi suona come un peso morale sulla mia testa e sulle mie gambe. “Bruno” dice Diego “tutta una città ci sta aspettando, noi saremo due scugnizzi napoletani che non sono nati a Napoli ma che da Napoli sono stati adottati come figli suoi”.

Fu l’inizio di una avventura che durò tre anni che furono il periodo più esaltante della mia vita sportiva. Un periodo dove finalmente assaporai il gusto della vittoria, dove vissi in una città meravigliosa a cui demmo gioia e a cui facemmo dimenticare tutti i problemi. Qualcuno disse che eravamo stati la loro droga, quello che Carlo Marx chiamava l’”oppio dei popoli” riferendosi alla religione. Ma noi i problemi sociali, economici non li potevamo risolvere, ai napoletani, con il pallone, potevamo dare soltanto gioia e noi quella abbiamo dato. Sono anni quelli che a Napoli non dimenticheranno mai, il cui ricordo le vecchie generazioni continueranno a trasmettere alle nuove generazioni che continueranno a rivivere nel ricordo di Diego Armando Maradona, di Bruno Giordano, di Carnevale e di Careca, la mitica MaGiCa!

In quegli anni ho vissuto come in un sogno, una vita ad alta tensione. Ho visto cose che voi umani non potete immaginare… potrei dire parafrasando le parole del replicante morente di Blade Runner. Ho visto cose che chi non c’era non può nemmeno immaginare. Ho visto 40.000 tifosi napoletani che ci seguivano in ogni parte d’Italia, tutti con la parrucca di Maradona, ballando con accompagno di tamburelle, triccheballacche, putipù e scetavajasse. La canzone preferita era ‘O surdato ‘nnammurato, ma ne cantavano molte altre, qualcuno ne ha censite più di 40, la maggior parte parodie di canzoni famose ma diverse anche scritte apposta da musicisti famosi come Pino Daniele e Fausto Cigliano. Le parole dicevano “Maradona è meglio ‘e Pelè ammo fatto ‘nu mazzo tanto pe potello ave’”  oppure “Oi mamma mamma mamma, sai perché mi batte il corazon… ho visto a Maradona”. Questo esercito allegro e chiassoso invadeva gli stadi e le città, che raggiungevano con ogni mezzo (auto, pulman, treno), poi si radunavano in un posto stabilito e tutti insieme si recavano allo stadio ballando e cantando. E’ rimasta famosa la trasferta a Verona contro la Hellas, una squadra in quegli anni fortissima, che aveva vinto lo scudetto pochi anni prima. I tifosi dell’Hellas, in contraddizione con il loro nome che vuol dire Grecia e si rifà alla patria delle Olimpiadi, si distinguevano per i loro atteggiamenti razzisti e offensivi soprattutto nei confronti dei meridionali e sui napoletani considerati i più meridionali di tutti, tanto è vero che negli anni Sessanta i meridionali emigrati nelle città del Nord per lavorare nelle fabbriche, venivano chiamati, con disprezzo, “Napoli” anche se erano per la maggior parte calabresi e siciliani. Quel giorno nel prepartita, a stadio già pieno, i tifosi veronesi si produssero nel loro peggio con insulti e slogan tipo “Napoli colera… Forza Vesuvio, lavali con la lava….ecc”, con una curva strapiena di napoletani che recepiva quegli insulti in uno strano e insolito silenzio, che meravigliava anche noi giocatori. 

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Un giornalista presente alla stadio fece un resoconto dettagliato degli striscioni apparsi nella curva degli ultras veronesi: “Vesuvio lavali col fuoco”, oppure “Napoletani, stessa fine degli ebrei” e ancora “Napoli colera la vergogna dell’Italia intera”. Il tutto scandito dal suono dei tamburi che ritmavano un’affermazione indiscutibile che si alzava dalla Curva veronese: “Noi non siamo napoletani”.

Possibile che non reagiscano, dicevamo… sicuramente stanno preparando qualcosa, pensavamo. Questo atteggiamento non è normale. E infatti appena entrammo in campo nella curva nostra srotolarono un enorme striscione che recitava a caratteri cubitali: “Giulietta è ‘na zoccola”.

I napoletani avevano risposto al becero razzismo dei veronesi con la leggerezza dell’ironia, patrimonio genetico, possiamo dire, di un popolo che, anche nei momenti bui, ha saputo sempre risolvere con uno sberleffo. Un popolo che ha ereditato i cromosomi da Totò, dai De Filippo, da Scarpetta, da Viviani ed anche da Pulcinella.

 

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