Perché la Turchia di Erdogan è peggio del Cile di Pinochet e dell'Argentina di Videla
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Perché la Turchia di Erdogan è peggio del Cile di Pinochet e dell'Argentina di Videla

Amnesty International ha documentato lo sfregio di diritti umani, sociali, civili, la repressione contro i giornalisti indipendenti, l’uso ricattatorio dei migranti la repressione brutale minoranze, a cominciare dai curdi. 

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Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

25 Novembre 2020 - 15.28


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Prendete il tempo necessario. Leggetelo a “tappe”. Ma fino in fondo. Perché è una lettura istruttiva. Che dice cosa sia diventata la Turchia sotto il regime islamonazionalista di Recep Tayyp Erdogan. Uno Stato di polizia che fa impallidire il Cile di Pinochet o l’Argentina di Videla. 

Amnesty International ha documentato con la consueta precisione lo sfregio di diritti umani, sociali, civili operato dal regime di Erdogan. Ha documentato la repressione contro i giornalisti indipendenti, l’uso ricattatorio, verso l’Europa, dei migranti, la repressione brutale delle minoranze, a cominciare dai curdi. 

Questo è quanto emerge dal rapporto 2019-2020 di AI sui diritti umani nel mondo. 

È continuata per tutto l’anno la repressione contro ogni dissenso, reale o percepito, nonostante la fine dello stato d’emergenza durato due anni, proclamato a luglio 2018.

Migliaia di persone sono rimaste in custodia cautelare per periodi dalla durata punitiva, spesso in assenza di prove sostanziali che avessero commesso un qualche reato riconosciuto dal diritto internazionale.

I diritti alla libertà d’espressione e riunione pacifica sono stati fortemente limitati e le persone considerate critiche nei confronti dell’attuale governo, in particolare giornalisti, attivisti politici e difensori dei diritti umani, sono state detenute o hanno dovuto affrontare accuse penali inventate.

Le autorità hanno continuato a vietare arbitrariamente le manifestazioni e a fare ricorso all’uso eccessivo e non necessario della forza per disperdere dimostranti pacifici.

Sono emerse ancora denunce credibili di tortura e sparizione forzata.

La Turchia ha respinto con la forza i rifugiati siriani, sebbene abbia continuato a ospitare il più alto numero di rifugiati rispetto a ogni altro paese al mondo.

Contesto

Tra gennaio e maggio, migliaia di prigionieri si sono uniti allo sciopero della fame intrapreso da Leyla Güven, per chiedere alle autorità di consentire al leader dell’ala armata del Partito dei lavoratori del Kurdistan (Partiya Karkeren Kurdistan – Pkk), Abdullah Öcalan, di ricevere le visite dei familiari e dei suoi avvocati. Coloro che hanno aderito allo sciopero e altri che hanno intrapreso iniziative di solidarietà a sostegno di questa azione sono stati criminalizzati e molti di loro sono incorsi in azioni giudiziarie ai sensi di disposizioni antiterrorismo.

I risultati delle elezioni municipali di Istanbul, tenutesi a marzo, sono stati annullati con motivazioni pretestuose su decisione del consiglio elettorale supremo, in seguito alla vittoria del candidato del principale partito d’opposizione, il Partito popolare repubblicano (Cumhuriyet Halk Partisi – Chp). Alla ripetizione del voto, a giugno, il candidato ha vinto di nuovo, aumentando addirittura la sua percentuale di consensi.

I sindaci di 32 municipalità eletti nelle liste del partito di sinistra radicato tra i curdi, il Partito democratico popolare (Halkların Demokratik Partisi – Hdp), sono stati destituiti con motivazioni pretestuose e sostituiti da dipendenti pubblici non eletti. Il governo ha giustificato la loro rimozione citando lo svolgimento di indagini e procedimenti giudiziari in materia di terrorismo. A fine anno, 18 di loro erano ancora in custodia cautelare.

Il 19 ottobre, la Turchia ha lanciato un’offensiva militare contro le forze curde nel nord-est della Siria (Operazione sorgente di pace), con il dichiarato obiettivo di stabilire una “zona sicura” di 32 chilometri lungo il confine. L’operazione, condotta dall’esercito turco affiancato da gruppi armati siriani alleati, è a tutti gli effetti terminata il 22 ottobre, in un contesto di documentati crimini di guerra.

Nell’ultimo trimestre dell’anno, il parlamento ha approvato un pacchetto di riforme dell’apparato giudiziario. Queste tuttavia non affrontavano in alcun modo le carenze strutturali di una magistratura estremamente influenzata da pressioni politiche né ponevano fine all’iniquità dei processi e alle azioni penali e condanne politicamente motivate.

Libertà d’espressione

Le autorità hanno continuato a fare ricorso a indagini e azioni penali ai sensi di leggi antiterrorismo e a periodi di custodia cautelare punitivi, in assenza di prove di un qualche illecito, allo scopo di ridurre al silenzio ogni dissenso, reale o percepito.

I tribunali hanno oscurato contenuti online e hanno avviato indagini penali contro centinaia di utenti dei social network. Ad agosto è entrata in vigore una nuova norma che ha introdotto l’obbligo per le piattaforme online di ottenere il rilascio di una licenza da parte del Consiglio supremo per le comunicazioni radiotelevisive (Radyo ve televizyon üst kurulu – Rtük).

I contenuti delle piattaforme sarebbero stati monitorati dall’Rtük, ampliando i suoi poteri di censura sui contenuti online. Almeno 839 account di vari social network erano sotto indagine per la presunta “condivisione di contenuti di rilievo penale”, in relazione all’Operazione sorgente di pace. Centinaia di persone sono state sottoposte a fermo di polizia e, in almeno 24 casi, rinviate in custodia cautelare.

Giornalisti

Decine di giornalisti e altri operatori dell’informazione erano ancora in carcere, o in custodia cautelare o per scontare una condanna. Alcuni di quelli che erano stati indagati e perseguiti penalmente ai sensi di leggi antiterrorismo sono stati giudicati colpevoli e condannati a vari anni di reclusione; durante le udienze, le loro pacifiche attività giornalistiche sono state dipinte come prove di attività criminali.

Il 5 luglio, la Corte suprema d’appello ha ribaltato la condanna emessa da un tribunale di primo grado contro i giornalisti Ahmet Altan e Nazlı Ilıcak per “tentato sovvertimento dell’ordine costituzionale”. A novembre, in seguito a un secondo processo, sono stati giudicati colpevoli di “consapevole e volontario fiancheggiamento di un’organizzazione terroristica, senza farne parte” e condannati rispettivamente a 10 anni e sei mesi e a otto anni e nove mesi. Entrambi sono stati rilasciati il 4 novembre in attesa dell’esito di un appello. Tuttavia, Ahmet Altan è stato riarrestato il 12 novembre, in seguito a un ricorso presentato dalla pubblica accusa contro il suo rilascio. A fine anno rimaneva detenuto nel carcere di Silivri.

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Anche i giornalisti che coprivano manifestazioni di protesta hanno subìto intimidazioni. La giornalista Zeynep Kuray e il suo collega İrfan Tunççelik sono stati sottoposti a fermo di polizia il 10 maggio 2019, mentre coprivano le proteste che si svolgevano a Istanbul per esprimere solidarietà con i prigionieri in sciopero della fame. Sono stati rilasciati su cauzione il 13 maggio, in attesa dell’esito di un’indagine penale. Hakan Demir, direttore dei servizi digitali del quotidiano Birgün, e Fatih Gökhan Diler, caporedattore del notiziario online Diken, sono stati arrestati il 10 ottobre in relazione alla pubblicazione di articoli riguardanti l’Operazione sorgente di pace, che non contenevano un linguaggio che incitasse alla violenza o altro contenuto che potesse essere considerato di rilievo penale. Entrambi sono stati rilasciati lo stesso giorno e nei loro confronti è stato disposto un divieto di viaggio all’estero, in attesa del completamento di un’indagine penale. Il 27 ottobre, l’avvocata ed editorialista Nurcan Kaya è stata arrestata all’aeroporto di Istanbul, in relazione a un’indagine avviata nei suoi confronti per “istigazione al conflitto sociale o all’odio”, per un tweet in cui aveva criticato l’Operazione sorgente di pace. È stata rilasciata il giorno stesso ma nei suoi confronti è stato successivamente disposto un divieto di viaggio all’estero, in attesa dell’esito dell’indagine.

Difensori dei diritti umani

Decine di difensori dei diritti umani sono incorsi in indagini e azioni penali e sono stati trattenuti in custodia di polizia o incarcerati a causa del loro lavoro a favore dei diritti umani. Il processo degli 11 difensori dei diritti umani nel caso Büyükada, tra i quali c’erano l’ex presidente, l’ex direttrice e diversi membri di Amnesty International Turchia, così come promotori dei diritti delle donne e della parità, è proseguito durante l’anno sulla base di accuse prive di fondamento di “appartenenza a un’organizzazione terroristica”. Se fossero dichiarati colpevoli, rischierebbero condanne fino a 15 anni di carcere.

L’esponente della società civile Osman Kavala e altre 15 note figure della società civile dovevano rispondere di accuse come “tentativo di rovesciare il governo o di impedirne il funzionamento”, per il loro presunto ruolo di “guida” nelle proteste di Gezi Park del 2013. Se giudicati colpevoli, rischierebbero di essere condannati all’ergastolo senza possibilità di uscita anticipata. Il 10 dicembre, la Corte europea dei diritti umani ha stabilito che la detenzione preprocessuale prolungata di Osman Kavala non si basava su un ragionevole sospetto ed era stata messa in atto con il secondo fine di ridurlo al silenzio, e ha chiesto il suo immediato rilascio. A fine anno, era detenuto nel carcere di massima sicurezza di Silivri ormai da oltre due anni. A giugno, il suo coimputato, Yiğit Aksakoğlu, è stato rilasciato su cauzione durante la prima udienza del processo a suo carico, dopo avere trascorso sette mesi in prigione.

L’avvocata per i diritti umani Eren Keskin continuava a rischiare il carcere, in seguito ad almeno 140 azioni penali distinte intentate nei suoi confronti, in relazione al suo ruolo simbolico di caporedattrice del giornale curdo Özgür Gündem, ormai chiuso. A ottobre, dopo una perquisizione nella sua abitazione, è stata interrogata dal reparto antiterrorismo della direzione per la pubblica sicurezza di Istanbul, per avere condiviso sui social network contenuti critici verso l’Operazione sorgente di pace.

Politici e attivisti

A luglio, una Corte costituzionale ha annullato i verdetti contro 10 accademici che erano stati ritenuti colpevoli di “fabbricazione di propaganda in favore di un’organizzazione terroristica”, per avere sottoscritto una petizione in favore della pace nel 2016, che criticava i periodi indefiniti di coprifuoco e le operazioni di sicurezza nella Turchia sudorientale.

La decisione ha determinato il proscioglimento di altre centinaia di imputati sotto processo per avere sostenuto la petizione, mentre altri hanno continuato a dover rispondere delle accuse, nonostante la sentenza della Corte costituzionale che aveva stabilito che le imputazioni violavano il diritto alla libertà d’espressione.

A settembre, il dottor Bülent Şık, ingegnere alimentare tra gli accademici licenziati dalle autorità, è stato giudicato colpevole di “divulgazione di informazioni riservate” e condannato a 15 mesi di reclusione, per avere pubblicato una serie di articoli sulla presenza di pesticidi cancerogeni e altri residui chimici tossici nella produzione agroalimentare e nelle risorse idriche. A fine anno era in corso un appello contro il verdetto.

I due ex presidenti del Partito democratico popolare (Halkların Demokratik Partisi – Hdp), Selahattin Demirtas e Figen Yüksekdağ, sono rimasti in carcere, dopo essere stati giudicati colpevoli di imputazioni in materia di terrorismo che, in assenza di prove fondate, si erano in larga parte basate sui loro discorsi pubblici.

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Venti sindaci eletti in altrettante municipalità nelle liste dell’Hdp, che erano stati sostituiti da amministratori fiduciari del governo, sono stati rinviati in custodia cautelare subito dopo le elezioni comunali di marzo. A fine anno, 18 di loro erano ancora detenuti in custodia cautelare. A settembre, Canan Kaftancıoğlu, presidente provinciale della sezione di Istanbul del principale partito d’opposizione Chp, è stata condannata a nove anni e otto mesi di carcere per “offesa al presidente”, “offesa a un funzionario pubblico nell’espletamento del suo dovere”, “istigazione al conflitto sociale e all’odio” e “propaganda in favore di un’organizzazione terroristica”.

Libertà di riunione

In varie città del paese sono stati vietati in blocco tutti i raduni pubblici senza alcun criterio di valutazione caso per caso della necessità e della proporzionalità di tali misure. La polizia è intervenuta con violenza per disperdere alcune proteste pacifiche e ha arrestato decine di manifestanti che sono incorsi in indagini penali e azioni giudiziarie, per accuse come “propaganda in favore di un’organizzazione terroristica”, “partecipazione a un raduno illegale” e “resistenza alla polizia”.

Diversi governatori provinciali hanno continuato a fare ricorso ai poteri straordinari conferiti loro da una legge introdotta dopo la fine dello stato di emergenza per limitare il diritto di riunione pacifica.

Ad aprile è stato finalmente revocato, con un’ordinanza di tribunale, il divieto totale e a tempo indeterminato su tutti gli eventi della comunità Lgbti, emanato dal governatorato di Ankara a novembre 2017. In seguito, gli eventi Lgbti sono stati vietati dalle autorità con decisioni assunte caso per caso. La marcia del Gay Pride organizzata a maggio dall’Università tecnica del Medio Oriente (Middle East Technical University – Metu) di Ankara è stata vietata dalla direzione dell’ateneo e dispersa dalla polizia con un uso non necessario ed eccessivo della forza. Altri divieti generici sono stati emanati a giugno 2019 dai governatorati di Izmir, Antalya e Mersin, per impedire lo svolgimento degli eventi organizzati nell’ambito della settimana del Pride. La marcia del Pride di Istanbul è stata vietata per il quinto anno consecutivo.

A marzo, le autorità hanno vietato la marcia organizzata a Istanbul in occasione della Giornata internazionale della donna, poco prima che questa avesse inizio. La polizia è intervenuta facendo uso di gas lacrimogeni e altra forza eccessiva per disperdere migliaia di persone che stavano partecipando pacificamente all’evento.

A novembre, la polizia di Istanbul ha attaccato centinaia di donne che si erano radunate per manifestare in occasione della Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, sparando candelotti lacrimogeni e proiettili di plastica; a Izmir, le autorità hanno aperto un’indagine penale contro 25 partecipanti alla protesta del collettivo Las Tesis.

A dicembre, la polizia ha disperso una protesta di Las Tesis a Istanbul, con un uso eccessivo della forza e arrestando sei partecipanti, poi rilasciate il giorno dopo; la polizia di Antalya ha impedito a un centinaio di donne di partecipare a una protesta di Las Tesis.

Le autorità hanno emanato divieti totali contro i raduni organizzati in segno di solidarietà con coloro che avevano intrapreso lo sciopero della fame, tra novembre 2018 e maggio 20198, e con coloro che avevano protestato contro la destituzione dei sindaci eletti e contro l’Operazione sorgente di pace.

I raduni pacifici organizzati dal collettivo delle Madri del sabato, un gruppo che dalla metà degli anni Novanta tiene una veglia settimanale in piazza Galatasaray in ricordo delle vittime di sparizione forzata, sono rimasti vietati ai sensi di un’ordinanza emanata ad agosto 2018, quando furono dispersi con un uso non necessario ed eccessivo della forza.

È anche rimasta in vigore un’ordinanza che vietava in blocco qualsiasi forma di protesta nella piazza. Gli studenti universitari che partecipavano a proteste pacifiche hanno continuato a rischiare di incorrere in azioni penali. Tra questi, c’erano 30 studenti dell’università di Boğaziçi, che avevano protestato pacificamente contro l’intervento militare della Turchia ad Afrin, in Siria, e quattro studenti della Metu, che durante una cerimonia di laurea avevano srotolato uno striscione che ritraeva una caricatura del presidenteErdogan ; a fine anno, entrambi i procedimenti giudiziari, avviati nel 2018, erano ancora in corso. Diciotto studenti e un membro del personale accademico della Metu sono incorsi in una causa giudiziaria ai sensi della legge sui raduni e le manifestazioni, per la loro presunta partecipazione alla marcia del Gay Pride di maggio, che le autorità avevano vietato.

Diritto al lavoro e libertà di movimento

Più di 115.000 dei 129.411 dipendenti pubblici, tra cui docenti universitari, militari, poliziotti, insegnanti e medici, che erano stati arbitrariamente licenziati con il decreto d’emergenza emanato all’indomani del tentato colpo di stato del 2016, sono rimasti esclusi dal pubblico impiego e senza passaporto. Privati delle loro fonti di reddito, molti lavoratori e i loro familiari erano ridotti sul lastrico e subivano un forte stigma sociale, poiché i decreti esecutivi li avevano associati a “organizzazioni terroristiche”.

Una commissione d’inchiesta, istituita per riesaminare i licenziamenti prima che i ricorsi riuscissero ad approdare alla fase giudiziaria, ha esaminato 98.300 delle 126.300 pratiche presentate, respingendone 88.700.

Una legge adottata nel 2018 (legge n. 7145) che permetteva di prorogare per altri tre anni l’allontanamento dal pubblico impiego sulla base delle stesse vaghe motivazioni di presunti legami con “organizzazioni terroristiche”, durante l’anno è stata utilizzata dal consiglio dei giudici e dei procuratori per licenziare almeno 16 giudici e sette procuratori, compromettendo ulteriormente l’indipendenza e l’integrità del sistema giudiziario.

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A fine anno, diversi casi di licenziamento dal pubblico impiego erano ancora in attesa di un pronunciamento da parte della Corte europea dei diritti umani. Tra questi citiamo Hamit Pişkin, un dipendente pubblico licenziato dal posto di lavoro, e il licenziamento di tre docenti universitari, Alphan Telek, Edgar Şar e Zeynep Kıvılcım, i cui passaporti erano stati annullati dalle autorità e che erano stati esclusi dal pubblico impiego per avere firmato una petizione che criticava le operazioni di sicurezza condotte nella Turchia sudorientale.

Tortura e altri maltrattamenti

Sono emerse nuove accuse attendibili di tortura e altri maltrattamenti. A Urfa, nella Turchia orientale, uomini e donne, arrestati a maggio in seguito a uno scontro armato tra le forze di sicurezza e l’ala armata del Pkk, hanno denunciato, tramite i loro avvocati, di essere stati torturati anche con scosse elettriche ai genitali. Gli avvocati hanno denunciato che alcuni ex funzionari del ministero degli Affari esteri, arrestati a maggio dalla direzione della pubblica sicurezza di Ankara, con l’accusa di “appartenenza a un’organizzazione terroristica, aggravata da falso e contraffazione a scopi terroristici”, erano stati denudati e minacciati di essere stuprati con i manganelli. In entrambi i casi gli avvocati hanno denunciato che i loro assistiti non avevano avuto accesso a un consulto privato con un medico.

Sparizioni forzate

Sei uomini, accusati di legami con il movimento Fethullah Gülen, dei quali non si avevano più notizie da febbraio e che erano ritenuti possibili vittime di sparizione forzata, sono stati ritrovati in custodia di polizia cinque mesi dopo la loro scomparsa. Le autorità non hanno rilasciato dichiarazioni pubbliche né fornito informazioni alle famiglie per spiegare le circostanze in cui era avvenuta la loro scomparsa o come cinque di loro fossero finiti nel quartier generale del reparto antiterrorismo della polizia di Ankara, mentre il sesto si trovasse nella centrale della polizia di Antalya, a mesi dalla loro scomparsa. Secondo quanto affermato dalle famiglie, i sei uomini avevano perso peso e apparivano pallidi e nervosi. A quanto pare non hanno rivelato che cosa fosse accaduto loro durante i mesi della scomparsa. Dopo essere rimasti fino a 12 giorni in custodia di polizia, sono stati tutti rinviati in custodia cautelare per accuse di terrorismo, dopo la convalida del fermo in tribunale all’insaputa dei loro avvocati e delle famiglie. A fine anno era ancora ignota la sorte di un settimo uomo, Yusuf Bilge Tunç, scomparso ad agosto in circostanze analoghe e del quale non si sono più avute notizie.

Rifugiati e richiedenti asilo

La Turchia ha continuato a ospitare il più alto numero di rifugiati rispetto a ogni altro paese al mondo, con oltre 3,6 milioni di rifugiati dalla Siria e circa 400.000 rifugiati e richiedenti asilo in fuga da altri paesi.

Nel 2019, tuttavia, i rifugiati siriani hanno incontrato crescenti difficoltà nel contesto di una sempre più profonda polarizzazione politica e dell’aggravarsi della situazione economica nel paese, che hanno contribuito a un clima di maggiore ostilità e intolleranza da parte dell’opinione pubblica verso la popolazione siriana.

È rimasta operativa la Dichiarazione stipulata nel 2016 tra Eu e Turchia, che prevedeva un contributo di fondi europei destinati a sostenere l’accoglienza dei rifugiati da parte della Turchia in cambio, tra le altre cose, dell’impegno della Turchia a collaborare, impedendo a rifugiati e richiedenti di raggiungere i paesi dell’Ue.

Al 30 settembre, erano stati trasferiti fondi per circa 2,57 miliardi di euro dei sei miliardi che erano stati promessi.

Tra luglio e ottobre, le autorità turche hanno rimpatriato forzatamente e illegalmente nel nord-ovest della Siria almeno 20 siriani, esponendoli al rischio reale di gravi violazioni dei diritti umani.

In assenza di dati ufficiali, non è stato possibile stimare il numero di persone rimpatriate con la forza ma sulla base delle testimonianze raccolte da Amnesty International, i rimpatri hanno colpito in quest’arco di tempo decine di persone per volta, il che fa ritenere che siano state in totale varie centinaia. Dalle segnalazioni ricevute, la polizia turca ha percosso, minacciato o fuorviato con l’inganno i siriani per costringerli a firmare moduli di “rimpatrio volontario”. Ciò è accaduto prima dell’incursione militare turca nel nord-est della Siria di ottobre. Le accuse di refoulement di siriani sono state ufficialmente respinte dalle autorità, che insistevano ad affermare che 315.000 siriani erano ritornati nel loro paese “volontariamente”.

Migranti e richiedenti asilo hanno rischiato di essere arrestati arbitrariamente o sottoposti a refoulement negli aeroporti turchi, dove non hanno avuto accesso alle procedure d’asilo o ad altra assistenza. A maggio, un richiedente asilo palestinese proveniente dalla Siria è stato trattenuto arbitrariamente per settimane nel nuovo aeroporto di Istanbul e le autorità hanno tentato di espellerlo in Libano, con il rischio di farlo finire nuovamente in Siria attraverso un meccanismo di refoulement a catena.

Ci fermiamo qui. Basta e avanza per comprendere che aria tiri in Erdoganistan.

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