Niente da fare. Hai voglia a sollecitare riflessioni non partigiane, sperare in articoli non fondati su pre-giudizi dettati da interessi editoriali più o meno espliciti. Tranne rare eccezioni, la stampa mainstream di casa nostra ha un approccio manicheo sulla questione israeliana: la si esalta o la si demonizza. Ma non la si approfondisce.
Quell’accusa infamante
Globalist ha scelto una strada diversa. Quella di raccontare Israele attraverso le riflessioni delle firme più autorevoli del suo giornalismo. Con una premessa necessaria in tempi in cui chi si permette di avanzare delle critiche su determinate scelte politiche compiute da chi governa lo Stato ebraico, viene subito tacciato di antisemitismo Chi scrive ha iniziato a occuparsi d’Israele e del conflitto israelo-palestinese nel lontano dicembre 1987, prima come inviato di Rinascita e poi de l’Unità. Non ho più tenuto il conto delle volte in cui i “pasdaran” d’Israele sempre e comunque mi hanno attaccato tirando fuori questa vergognosa accusa. Un trattamento che ho condiviso, e di questo mi onore, con maestri del giornalismo italiani, grandi inviati di guerra come sono stati gli scomparsi Sandro Viola, Mimmo Candito, Giancarlo Lannutti, e come sono ancora Bernardo Valli, Alberto Negri, Ugo Tramballi. Antonio Ferrari.
Ma quanto ad esercizio critico, tutti noi dovremmo andare a scuola dei giornalisti israeliani, di firme storiche come Zvi Bar’el, Anshel Pfeffer, Nahum Barnea, Amira Hass, Gideon Levy, e l’elenco potrebbe proseguire a lungo. Una cosa è certa: molti dei loro articoli non avrebbero avuto spazio nei media mainstream di casa nostra: troppo critici, e se pubblicati di certo si sarebbe scatenata l’ira dei “leoni da tastiera” pronti a brandire l’accusa di antisemitismo.
Globalist va controcorrente, e ha scelto di condurre i lettori dentro la questione israeliana, in vista delle elezioni del 23 marzo, le quarte in due anni, con l’aiuto, decisivo, delle firme di cui sopra. Come Zvi Bar’el, scrittore e firma storica di Haaretz.
Israele, processo allo Stato
Scrive Bar’el “Lunedì, lo Stato d’Israele è stato processato. È apparso in tribunale come imputato, di fronte al ‘procuratore capo’ Benjamin Netanyahu. L’accusa è seria e persino spaventosa. È sospettato di aver cercato di incastrare un primo ministro in carica, di aver violato le leggi sulle prove, di aver falsificato e travisato un atto d’accusa e di aver complottato per intervenire in un’elezione nazionale in un modo che potrebbe minare i diritti costituzionali del procuratore e le sue possibilità di essere eletto. Il primo ministro ha aggiunto altri capi d’accusa, che pur non facendo parte dell’accusa formale contro lo Stato, potrebbero avere una grande influenza sui risultati del suo processo. Ha menzionato il suo rifiuto di vaccinarsi, le sue violazioni selvagge dell’isolamento, la pressione irragionevole degli imprenditori e le centinaia di migliaia di disoccupati, come parte di una campagna elettorale che lo prende direttamente di mira. Le prove non sono in discussione. I suoi partner di governo, quella quinta colonna che lui, nella sua generosità, si è preso in seno, si sono rivelati degli assassini che sono pronti ad uccidere migliaia di persone solo per indebolire la sua capacità di gestire il paese. Se non fosse per loro, quelli che si affrettano ad aprire negozi per fargli un dispetto, il paese sarebbe in condizioni migliori e i suoi cittadini sarebbero felici. Lo Stato che lo ha costretto a rinunciare all’immunità quando si è rifiutato di legiferare la ‘legge francese’, è responsabile del vergognoso spettacolo di un primo ministro in carica che deve subire un processo. Lo Stato stesso sta così rovinando il proprio buon nome, e danneggia direttamente la sua reputazione e la sua sicurezza. Se lo Stato fosse veramente interessato a eliminare ciò che chiama ‘corruzione’, non avrebbe aspettato così tanto a perseguirlo e avrebbe aggiunto al mucchio dei casi l’affare del sottomarino e i presunti profitti impropri che il primo ministro ha tratto dalle azioni che avrebbe ricevuto in regalo.
Se lo Stato fosse stato davvero serio nelle sue intenzioni, non gli avrebbe permesso di correre in tre elezioni, sprecare miliardi di shekel per l’elettorato, ritardare l’approvazione del bilancio statale e pagare tangenti ai suoi cittadini. Come mai si è improvvisamente svegliato, in vista della quarta elezione? Cos’è questo se non una continua giustizia ritardata? Ancora peggio, con il suo comportamento negligente, lo Stato ha fatto capire al primo ministro che le sue azioni non erano violazioni della legge, e ora, per sottrarsi alla colpa e alla responsabilità, gli piomba addosso e lo incolpa di tutti i suoi mali. Il suo obiettivo è trasparente: sta cercando un capro espiatorio. Ora sosterrà anche che un primo ministro impegnato nel suo processo non può gestire il paese. Questo Stato crudele vuole uccidere e anche ereditare. Qualsiasi altro primo ministro starebbe sicuramente tremando per questa persecuzione e sarebbe fuggito in un posto sicuro. Quale primo ministro accetterebbe di continuare a servire un paese che lo perseguita, che cerca di vendicarsi di lui e della sua famiglia, che prova piacere nel tarparlo e piumarlo? Un paese che in questo modo ripaga il leader che gli porta la pace con gli Stati arabi, che ottiene milioni di vaccini per i suoi cittadini quando i leader di altri paesi illuminati che parlano inglese e francese scroccano siringhe come drogati, e che ogni pochi mesi regala miliardi di shekel a tutta la popolazione, non è degno di un tale leader. Ma Netanyahu è un diverso, raro tipo di primo ministro. Non cerca un guadagno personale o politico. Mosè ha forse abbandonato la sua missione quando il popolo gli ha voltato le spalle? Certo che no. Ha semplicemente sostituito il popolo. È vero, ci sono voluti 40 anni, ma se è questo che serve, allora non c’è scelta. Un paese giusto avrebbe già rassegnato tutte le sue cariche, e i cittadini onesti chiederebbero perdono per l’ingiustizia fatta all’uomo. Ma siccome questo non è previsto, non c’è altra scelta che continuare a perseguire lo Stato – che certamente farà appello e scalcerà e urlerà fino a quando non ci sarà un verdetto finale. Gli resta solo un’ancora di salvezza, un ultimo atto di carità che può fare per se stesso e che esprimerebbe un vero pentimento: Votare per Netanyahu il 23 marzo, e sperare che accetti di rimanere al timone”.
Così Zvi Barel. Un articolo pungente, scritto divinamente, sul filo di un paradosso che dà conto di una tragedia democratica in atto.
Scrive Sergio Della Pergola, il più grande demografo israeliano – e oggi la demografia è la scienza che più aiuta a capire le strategie della politica – nella sua prefazione al bel libro di Enrico Catassi, Alfredo De Girolamo, Daniel Reichel Il signor Netanyahu. Israele, due anni di politica tra elezioni, instabilità e pandemia (Edizioni ETS): “Netanyahu dovrà essere giudicato per quello che ha causato all’interno della società israeliana ancor più che per le grandi tematiche di natura internazionale e difensiva. La sua politica delle identità condotta senza remore ha diviso e aizzato le une contro le altre le diverse componenti del paese. Il suo edonismo e l’ossessiva ricerca d’immagine lo hanno condotto in tribunale a rispondere ad accuse di corruzione, frode e abuso in atti d’ufficio. Il suo ruolo di accentratore assoluto nella gestione del coronavirus ne hanno fatto il responsabile ultimativo di qualunque potrà essere l’esito a più lungo termine della crisi sanitaria, della conseguente recessione economica, e finalmente del destino della democrazia israeliana”. Così stanno le cose. “Dopo Netanyahu il diluvio? – conclude la sua ricca prefazione Della Pergola , che insegna Demografia all’Università Ebraica di Gerusalemme – . Certo Israele dovrà prepararsi un giorno, vicino o lontano, a vivere senza la presenza onnipresente e controversa di king Bibi. Dopo il periodo di cordoglio, di smarrimento, e infine di riadattamento, spetterà agli elettori compiere la scelta di un modello di democrazia, anzi di uno stato d’Israele che non potrà continuare a seguire indefinitamente le piste tracciate in questi ultimi anni da Benjamin Nertanyahu. L’inevitabile motto per il dopo-Bibi sarà: rifondazione israeliana”.