“Sono sempre stata convinta che esista una terza via tra la resa e una pratica militarista: è la via della rivolta popolare non violenta, della disobbedienza civile, di campagne come quella Bds di boicottaggio dei prodotti proveniente dalle colonie israeliane insediate nei territori palestinesi occupati. . E la terza via è anche quella dell’Intifada del diritto e della legalità che stiamo conducendo in tutti quei organismi internazionali nei quale siamo presenti. Ed è una strategia che sta dando i suoi primi, importanti frutti”.
L’Intifada del diritto
L’Intifada del diritto e della legalità raccontata a Globalist da una delle figure più rappresentative e conosciute a livello internazionale della dirigenza palestinese: Hanan Ashrawi, parlamentare, più volte ministra dell’Autorità nazionale palestinese (Anp), la prima donna ad aver ricoperto il ruolo di portavoce della Lega araba.
Ashrawi fa riferimento in particolare alla decisione presa da una camera istruttoria della Corte penale internazionale de L’Aia di dare via libera al procuratore generale per un’inchiesta sui presunti crimini di guerra commessi da Israele nella Striscia di Gaza, a Gerusalemme Est e in Cisgiordania.
“La decisione assunta dalla Cpi – annota Ashrawi, oggi membro del bureau dell’Olp (Organizzazione per la liberazione della Palestina) – ha una valenza politica, oltre che giuridica, notevole. Nei 54 anni di occupazione, Israele si è sempre sentito al di sopra della legalità internazionale, comportandosi come se avesse garantita una sorta di immunità internazionale per i crimini commessi, come potenza occupante, nei Territori palestinesi occupati. E questo nonostante decine e decine di rapporti delle Agenzie Onu, delle più importanti organizzazioni per i diritti umani che hanno documentato quei crimini. Crimini commessi contro la popolazione civile palestinese, in spregio del diritto internazionale e di quello umanitario, venendo meno anche agli obblighi delineati dalla stessa Convenzione di Ginevra sulla guerra..
“Il diritto di difesa invocato da Israele per legittimare ogni azione distruttiva – prosegue Ashrawi – non giustifica minimamente, tanto meno legittima, le punizioni collettive contro la popolazione civile, l’esproprio forzato di terre appartenenti ai palestinesi, la pulizia etnica operata a Gerusalemme Est, la colonizzazione dei Territori, l’istituzione di fatto di un sistema di apartheid in Cisgiordania. Quella che stiamo sviluppando è una strategia della legalità contro uno stato, Israele, che dell’illegalità ha fatto la norma del suo agire quotidiano”.
E a Globalist, che l’ha raggiunta telefonicamente nel suo ufficio a Ramallah – Hanan Ashrawi anticipa i nuovi passi dell’Intifada del diritto e della legalità : “Avanzeremo le nostre istanze a Ginevra, al Consiglio per i diritti umani delle Nazioni e chiederemo all’Unesco di proteggere il patrimonio archeologico palestinese vandalizzato dai coloni. Parallelamente, proseguirà la nostra campa internazionale per il riconoscimento dello Stato di Palestina entro i confini definiti dalle risoluzioni Onu 242 e 338. Lo ribadisco con forza: oggi il modo più incisivo per arrivare ad una pace fondata sulla soluzione a ‘due Stati’, è quello di riconoscere lo Stato di Palestina. Un appello che rivolgo anche al nuovo Governo italiano e al suo presidente”.
Vista da Israele
Molto interessante,, sull’argomento, è lo scritto per Haaretz di Victor Kattan. Il professor Kattan è Senior Research Fellow presso la School of Law dell’Università di Nottingham. In precedenza è stato Senior Research Fellow presso il Middle East Institute dell’Università Nazionale di Singapore. È autore di From Coexistence to Conquest: International Law and the Origins of the Arab-Israeli Conflict” (Pluto Press 2009) e, con il defunto Peter Sluglett, di Violent Radical Movements in the Arab World: The Ideology and Politics of Non-State Actors” (Bloomsbury 2019).
“La strategia legale dei palestinesi, che ha proceduto a casaccio per più di un decennio, sembra aver ottenuto una significativa vittoria dal via libera dato al procuratore della Corte penale internazionale da una camera preliminare per avviare un’indagine su potenziali crimini di guerra e contro l’umanità commessi dalle forze armate di Israele a Gerusalemme Est, in Cisgiordania e a Gaza. È arrivata sulla scia di una serie di tentativi falliti di perseguire alti ufficiali israeliani nei tribunali di Regno Unito, Belgio e Spagna, per crimini di guerra secondo il principio della giurisdizione universale.
La Cpi era l’ultimo ricorso alla giustizia per la Palestina. Se la camera avesse deciso diversamente, molti dei crimini documentati dai gruppi per i diritti umani israeliani e palestinesi nel corso di molti anni avrebbero continuato a non essere giudicati e impuniti. La decisione della Cpi è stata giustamente salutata come una grande conquista dal primo ministro palestinese Mohammad Shtayyeh e da numerosi gruppi per i diritti umani; tuttavia il vero lavoro legale è appena iniziato. Dato che Israele non è parte dello Statuto di Roma, non è obbligato a cooperare con la Cpi. Pertanto, la risposta di altri Stati alla decisione della camera è importante. Se questi Stati dovessero rifiutarsi di cooperare con il procuratore, Israele avrà poco da temere. I commenti del ministro degli Esteri tedesco indicano che Israele sta ottenendo esattamente questo tipo di sostegno politico, e da paesi potenti.
Alcuni di loro potrebbero considerare di proteggere i sospetti israeliani dall’azione della Cpi, avvertendoli di un imminente mandato d’arresto, o semplicemente ignorandolo, anche se ciò creerebbe una crisi giudiziaria tra questi Stati e la Corte. C’è un precedente: nel 2015, il Sudafrica ha lasciato che il presidente sudanese Omar al-Bashir volasse verso casa, sfidando un ordine del tribunale che gli imponeva di rimanere per ottemperare ad un mandato d’arresto per accuse di genocidio e crimini di guerra.
Non sorprende che, anticipando i recenti sviluppi, Israele abbia investito notevoli risorse per delegittimare un’indagine della Cpi, creando anche un sito web governativo dedicato a questo scopo, con commenti di Stati amici e professori di diritto. L’obiettivo è quello di screditare qualsiasi indagine prima che inizi. Ma scavando più a fondo, possiamo vedere che rimangono seri ostacoli al successo di qualsiasi indagine. E non solo per quanto riguarda i crimini israeliani, ma anche per quanto riguarda i crimini commessi dai gruppi palestinesi, principalmente Hamas e Jihad islamica, che saranno anche oggetto di un’indagine. La verità è che il frutto più basso per il nuovo procuratore, l’avvocato britannico Karim Khan, che attualmente dirige il team investigativo speciale delle Nazioni Unite sui crimini dell’Isis in Iraq, e sostituisce Fatou Bensouda a giugno, sarebbe quello di perseguire i leader di Hamas e della Jihad Islamica. Sono accusati di crimini di guerra per aver preso di mira cittadini israeliani con il lancio di razzi e per l’uso di scudi umani. Non solo Hamas ha il suo quartier generale nel territorio di uno stato parte, cioè la Palestina, ma la sua leadership diasporica è sparsa in tutto il mondo, con molti dei suoi leader che vivono nei territori degli stati parte. Per dirla senza mezzi termini, sono un bersaglio facile. È difficile immaginare che uno Stato parte sia disposto a violare i suoi obblighi internazionali per proteggere proattivamente i leader di Hamas da un mandato d’arresto emesso dal procuratore.
Naturalmente, sarebbe una cattiva ottica se il procuratore perseguisse solo i leader di Hamas e ignorasse i crimini israeliani. Questo è particolarmente vero perché Hamas è la chiave per il successo di qualsiasi processo contro Israele: non sono solo potenziali imputati ma anche facilitatori del processo. Dopo tutto, loro, non Fatah, controllano Gaza dove i crimini più gravi sono avvenuti durante l’operazione Protective Edge (2014) e durante le proteste al confine di Gaza (2018-2019).
C’è solo tanto lavoro che può essere fatto a distanza. L’accesso al territorio, la raccolta e la conservazione delle prove, l’identificazione e l’intervista dei testimoni, non possono avvenire senza coinvolgere Hamas. Il nuovo procuratore avrà quindi bisogno della loro cooperazione.
La realtà è che il procuratore dovrà stabilire un buon rapporto di lavoro con tutte le parti principali: Israele, Fatah e Hamas. Può sembrare un’impresa ardua, ma senza la loro cooperazione attiva sarà difficile far decollare un’indagine. Fatah dovrà raggiungere un modus vivendi con Hamas su questa questione. Mentre fino ad oggi, sembra che abbiano lavorato insieme con successo sul dossier della Cpi, un mandato d’arresto che prende di mira solo i leader di Hamas potrebbe mettere a repentaglio questa relazione.
Né è inconcepibile che Hamas e Israele possano lavorare insieme (silenziosamente, dietro le quinte) per frustrare un’indagine che prenda di mira i leader israeliani e di Hamas, cosa che, naturalmente, negherebbero strenuamente in pubblico.
Quale impatto potrebbe avere il processo dell’Icc sulle elezioni palestinesi a lungo rimandate, che dovrebbero tenersi quest’estate? Qualunque sia il risultato, è difficile immaginare che se Hamas perdesse, concederebbe volentieri il potere a Fatah nella Striscia di Gaza, con mandati di arresto che pendono sulla testa dei suoi leader. D’altra parte, potrebbe esserci un vantaggio per Hamas nel cooperare con la Cpi. Cooperando con la Corte, specialmente nel caso di un processo, potrebbero raccontare la loro storia in un forum molto pubblico al mondo. E, naturalmente, un processo non significa necessariamente una condanna”.
Così il professor Kattan.
La conclusione ad Hanan Ashrawi: “La nostra Intifada del diritto e della legalità serve a ridare senso e concretezza alla parola ‘giustizia’ in Palestina. Una giustizia mortificata da Israele”.
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