Israele al voto: il disincanto del "popolo invisibile"
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Israele al voto: il disincanto del "popolo invisibile"

Globalist prosegue il suo viaggio nell’Israele verso le elezioni, le quarte in due anni avendo come guida Jack Khoury, firma di Haaretz, profondo conoscitore delle tensioni e delle dinamiche politiche

Benjamin Netanyahu
Benjamin Netanyahu
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Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

28 Febbraio 2021 - 16.16


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Il “popolo invisibile” Diviso, corteggiato, disincantato. Il “popolo invisibile” (definizione di David Grossman che dà il  titolo di uno suo bellissimo  libro-reportage, ) ovvero la comunità araba israeliana. 

A poco più di tre settimane dal voto (23 marzo) Globalist prosegue il suo viaggio nell’Israele verso le elezioni, le quarte in due anni, le prime in era Covid), avendo come guida Jack Khoury, firma di Haaretz, profondo conoscitore delle tensioni e delle dinamiche politiche interne al “popolo invisibile”.

“Esperti e sondaggisti – annota Khory – sono in difficoltà nel prevedere il tasso di partecipazione degli elettori arabi alle elezioni del 23 marzo in Israele. I sondaggi hanno finora indicato che l’affluenza degli elettori arabi israeliani potrebbe scendere al di sotto del 60% e forse fino al 52%, in calo rispetto al 65% delle ultime elezioni e al 59% di quelle precedenti.

Il voto degli arabi israeliani potrebbe rivelarsi critico per chi avrà il mandato per formare il prossimo governo. La maggior parte degli elettori arabi israeliani sostiene la Joint List  e la Lista araba unita, che ha corso con le altre tre fazioni – Hadash, Balad e Ta’al – nelle precedenti campagne elettorali. Altri partiti israeliani potrebbero conquistare alcuni seggi della Knesset anche sulla base dei voti arabi, dicono gli esperti.

Il Prof. Amal Jamal, della scuola di Scienze politiche dell’Università di Tel Aviv, dice che la partecipazione degli elettori arabi dipende molto dalla Joint List e dalla Lista araba unita: se mantengono i loro messaggi chiari e si concentrano sulle campagne degli altri partiti, in particolare il Likud, per delegittimarli, potrebbe incoraggiare una maggiore affluenza degli elettori. ‘Non devono cadere nella trappola delle recriminazioni reciproche su base personale che potrebbero suscitare disgusto tra i potenziali elettori della società araba, soprattutto tra i giovani, molti dei quali vogliono boicottare il voto’, afferma. D’altra parte, un vero dibattito pubblico, anche sulla religione e la società, potrebbe portare più persone alle urne. Dopo il successo nelle ultime elezioni, molti elettori si aspettavano che esercitasse una maggiore influenza e si sentono delusi. Molti potrebbero comunque votare di nuovo per la Joint List, per le stesse ragioni del passato: come atto di sfida. Sia la Joint List che la Lista araba unita hanno tenuto riunioni all’interno delle case, evitando i raduni in strada, soprattutto dopo la recente scissione dei partiti. ‘Non è solo a causa del coronavirus, ma per raggiungere più famiglie’, ha detto un attivista della Joint List. Mohammed Halalya, un ricercatore della società araba israeliana, stima, sulla base di un sondaggio su 2.000 persone, che circa il 57% degli arabi israeliani aventi diritto voterà, il che gli sembra alto, certamente rispetto ai livelli di qualche mese fa, quando la Knesset si è sciolta. I numeri potrebbero scendere se i partiti si fissano sulle loro dispute personali piuttosto che presentare al pubblico delle linee d’azione operative. ‘Non c’è dubbio che il numero dei votanti è diminuito a causa della delusione per la Joint List e la sua scissione’, spiega Halalya. ‘Gli elettori arabi vogliono un cambiamento, e che le questioni scottanti, in particolare la violenza e la criminalità, siano affrontate. Più dell’81% degli intervistati ha detto che la violenza nella società araba è la questione principale, così come la zonizzazione e l’edilizia. Quindi il modo in cui qualsiasi partito, non solo arabo, ma anche altri si relazionano a questi temi, o presentano piani operativi, potrebbe spingere più persone a votare’.

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Una messaggistica torbida o bellicosa potrebbe semmai deprimere il voto, dice Halalya, e questo potrebbe avere un impatto drammatico sulla rappresentanza araba nella Knesset. Non è impensabile che i partiti di centro-sinistra vengano spazzati via.

Eihab Kadah, direttore della ricerca araba all’istituto Midgam, concorda sul fatto che le indicazioni mostrano una ripresa dell’affluenza alle urne. Le persone che hanno già deciso di non votare per la Joint List  o la Lista Araba Unita hanno chiaro chi intendono scegliere; ma molti rimangono sulla soglia di sbarramento. Poiché il voto è fondamentale per la rappresentanza araba, questo è un problema su cui i partiti arabi devono lavorare”, dice Kadah.

‘I dati mostrano che non raggiungeremo il 63% questa volta e le previsioni ottimistiche prevedono il 56 o 57%. Le faide personali e le campagne negative possono danneggiare l’affluenza degli elettori, oltre naturalmente all’impatto significativo di quanti elettori israeliani in generale si presentano a votare”, rileva ancora  Kadah, aggiungendo: ‘È abbastanza chiaro che gli elettori arabi sono stanchi delle lotte intestine e del fango. Questo non incoraggia gli elettori, in particolare tra gli indecisi, che si sono opposti alla scissione della Joint List per cominciare’. Le conversazioni che Haaretz ha avuto con gli elettori arabi tendono a sostenere la sua tesi. Lama Hajj Yihya di Taibeh ha votato in passato, ma si è rifiutato di farlo nelle ultime elezioni, e prevede di non partecipare anche alle elezioni del 23 marzo. ‘Nel 2015 lo stato d’animo era diverso. Pensavamo di poter portare un vero cambiamento, e non è successo nulla’, dice. ‘Ho boicottato le ultime elezioni nonostante l’euforia come se stesse succedendo qualcosa di grande. La condotta dei politici e le spaccature nella Joint List hanno solo rafforzato la mia sensazione che non ha senso partecipare alle elezioni. Le lotte sono diventate personali ed egoistiche’.

Yithrab Hassan Suweid di Mashad la pensa allo stesso modo. Cinque anni fa ha votato per la Joint List. Quella è stata l’ultima volta che ha votato. ‘La mancanza di influenza è molto chiara e gli intrighi e le lotte personali spingono tutto in quella direzione’, annota. ‘Nelle ultime elezioni hanno promesso che ci sarebbe stato un cambiamento e non è successo nulla’. M. di Haifa ha votato alle ultime elezioni ma non lo farà più dopo le ultime scissioni. ‘Quello che è successo nelle ultime elezioni dimostra che non c’è una strategia comune o una leadership collettiva, quindi non ha senso votare’, argomenta. ‘Perché devo sentire le dispute quotidiane sulle questioni Lgbtq e sulla religione come se questi fossero argomenti importanti ora per la comunità araba?’.”

Fin qui Khoury.

Quella ferita aperta

Della comunità arabo-israeliana, Ahmed Tibi, è una delle figure storiche, nel mirino della destra oltranzista israeliana per le sue posizioni radicali. Per colui che fu anche consigliere personale di Yasser Arafat, la legge dello Stato-nazione, approvata a maggioranza alla Knesset, indica la via dell’apartheid.  “Ha un elemento di ‘supremazia ebraica – spiega il parlamentare della Joint List –  e la creazione di due classi separate di cittadini, una che gode di pieni diritti e una che ne è esclusa  – e anche nel secondo gruppo vi è uno sforzo per creare diverse categorie”.  Preoccupazione condivisa anche da Amir Fuchs, ricercatore a “Israeli democracy institute“: “Il problema è che questa legge cambia l’equilibrio tra Israele come democrazia e Israele come Stato ebraico ed è molto chiaro che il legislatore non ha incluso il principio di uguaglianza tra i fondamentali come era scritto nella Dichiarazione di Indipendenza”. Tibi rifiuta la differenziazione fatta dai sostenitori della legge sulla nazionalità tra diritti collettivi, di cui godono gli ebrei, e diritti individuali, che sono dati a tutti gli altri. I diritti individuali, compresi quelli culturali e politici, derivano dall’appartenenza a una collettività, come la grande minoranza araba in Israele, sostiene deciso.  Una considerazione, quest’ultima, che trova il consenso di uno dei più autorevoli scienziati della politica israeliani, il professor Shlomo Avineri, che in un editoriale su Haaretz ha espresso la stessa posizione: “Non si possono separare i diritti dei singoli cittadini dalla loro coscienza sulla loro identità, cultura, tradizione, lingua, religione e memoria storica”.  Gli arabi stanno protestando contro i tentativi per ridimensionare il loro status, dice ancora Tibi, in uno scenario di settant’anni di discriminazione ufficiale. Un disegno in continuità mirato a quanti Tibi definisce “cittadini indigeni”. Il messaggio è netto, chiaro, brutale: sei tollerato e dovresti accontentarti delle nuove strade e delle cliniche che creiamo per te di volta in volta. Tibi nota, tuttavia, che la nuova legge ha reso molto più facile per i politici arabi israeliani convincere gli stranieri della loro difficile situazione. “Forse dovremmo ringraziare Netanyahu”, aggiunge secco.

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Noi siamo, noi ci sentiamo arabi israeliani. E per questo continuiamo a batterci perché Israele sia lo Stato degli Israeliani. Ma nessuno può chiederci di chiudere gli occhi di fronte a ciò che avviene nei Territori occupati, ad una repressione che si fa sempre più brutale, all’istaurazione di fatto di un regime di apartheid. Le nostre critiche non sono diverse, e neanche più dure, di quelle che si leggono su Haaretz o che sono contenute in appelli di intellettuali israeliani, ebrei, o in documenti dell’Onu o delle più importanti organizzazioni umanitarie internazionali. Solo che se queste critiche le facciamo noi, noi arabi israeliani, scatta in automatico l’accusa di sempre: ‘ecco, vedete, di costoro non possiamo fidarci, sono il cavallo di Troia dei Palestinesi in Israele…’. E’ una critica preconcetta, strumentale. E’ da Israeliani che affermiamo che la pace è l’unica strada percorribile per diventare un Paese normale, totalmente integrato nel Medio Oriente. Da Israeliani diciamo che la sicurezza d’Israele e il diritto dei Palestinesi ad uno Stato indipendente sono le due facce di una stessa medaglia: quella di una pace giusta, e proprio perché tale, una pace durevole. Noi arabi israeliani rivendichiamo con orgoglio la nostra identità, conosciamo la Storia, ma non brandiamo identità e Storia come armi per creare divisioni nella società israeliana. Di questa società, piaccia o no ai signori Netanyahu, Lieberman, Bennett, noi ci sentiamo parte. Una parte che rivendica con orgoglio le proprie radici culturali, linguistiche. Ed è per questo, che tra le norme contenute nella legge, quella una di quelle che più hanno ferito gli arabi israeliani, è stato il declassamento della lingua araba, non più considerata come seconda lingua d’insegnamento.” Conoscere la propria lingua, far sì che sia parte di un corso di studi, rafforza una comunità nazionale, la fa sentire, in ogni sua componente, più partecipe. Così invece si umilia una sua parte”. “La legge dello Stato- nazione non solo produce segregazione razzista in Israele, ma sbatte la porta su una giusta soluzione diplomatica dell’istituzione di uno Stato palestinese nei confini del 1967 insieme a Israele… La nostra lotta per la pace, l’uguaglianza e la giustizia sociale non è limitata al discorso ebraico in Israele. In ogni arena, compresa quella internazionale, i miei colleghi e io di Hadash e la più ampia alleanza Joint List continueremo a combattere con determinazione e a testa alta contro l’occupazione e l’apartheid. La scelta per tutti noi, ebrei e arabi, è chiara: democrazia reale o etnocrazia nazionalista. La nostra mano è tesa a tutti coloro che credono nei principi di giustizia e libertà e non si arrendono alla deriva fondamentalista in atto”, incalza la parlamentare Aida Touma-Suleiman, direttore responsabile di Al-Ittihad, l’unico quotidiano in Israele in lingua araba, fondatrice a Nazareth nel 1992 del gruppo arabo femminista, Donne contro la violenza, la prima donna arabo-israeliana  a capo del comitato della Knesset sullo status delle donne e dell’uguaglianza di genere. Molte volte, quando si scrive o si parla, d’Israele viene “spontaneo”, o quasi, riferirsi ad esso come “Stato ebraico”. Tanto più ora, che questa definizione è stata “costituzionalizzata”.  Ma poche volte, quasi mai, si pensa a quel 1,8 milioni di israeliani (oltre il 22% della popolazione) che ebrei non sono e che quella definizione fa scomparire.

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 Secondo una relazione del 1998 dell’Adva Centre di Tel Aviv, le disparità sociali ed economiche in Israele sono particolarmente evidenti nei confronti degli arabi israeliani. La relazione fornisce alcune cifre illuminanti: il reddito medio dei palestinesi che hanno cittadinanza israeliana è il più basso tra tutti i gruppi etnici del Paese; il 42% dei palestinesi cittadini israeliani all’età di 17 anni ha già abbandonato gli studi; il tasso di mortalità infantile tra i palestinesi cittadini israeliani è quasi il doppio rispetto a quello degli ebrei: 9,6 per mille nascite contro il 5,3. 

Ventitre anni dopo, la situazione non è migliorata, la faglia sociale si è ulteriormente allargata. Così come si è esteso quel sentimento di disincanto e di delusione per un investimento politico che non ha dato i frutti sperati. Un credito che rischia di essere delapidato da una leadership politica rivelatasi non all’altezza delle aspettative. E questa, in verità, non è solo una storia israeliana.

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