L'Italia intercetta i giornalisti e la Libia libera e promuove il capo dei trafficanti
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L'Italia intercetta i giornalisti e la Libia libera e promuove il capo dei trafficanti

Anche con l'arrivo del premier Draghi che ha ringraziato le autorità di Tripoli sui migranti e la Guardia Costiera c'è da chiedersi: cosa è cambiato?

Bija
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Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

13 Aprile 2021 - 17.19


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I giornalisti italiani intercettati perché testimoni scomodi, mentre a Tripoli viene scarcerato uno dei capi del traffico di esseri umani. Questo è il rapporto tra l’Italia e la “nuova Libia”. Una vergogna. 

Che Nello Scavo, uno dei giornalisti intercettati, ricostruisce così in un articolo su Avvenire: “ “Prima ancora di venire scarcerato, il comandante Bija aveva già incassato la promozione al grado di maggiore della guardia costiera libica. E domenica, come oramai appariva scontato, Abdurhaman al-Milad è tornato trionfalmente per le strade di Zawyah, in un tripudio di abbracci, auto in corteo, danze e lodi ad Allah… Riabilitato con tanto di firma del procuratore generale di Tripoli, ora molti si interrogano sul futuro del guardacoste indicato dagli ispettori Onu alla testa del traffico di petrolio, armi ed esseri umani nel potente “mandamento” di Zawyah. Lì il capo dei capi è Mohamed Kachlav, anch’egli come Bija inserito nella lista nera di Onu, Unione Europea e Dipartimento di Stato Usa. Domenica Kachlav è apparso in quasi tutte le foto del redivivo al-Milad, a segnare l’inossidabile alleanza tra le tante famiglie della milizia, gestita secondo uno schema che prende a prestito l’organizzazione e i legami politici di Cosa nostra siciliana e l’apparente anarchia sul campo delle paranze di Scampia.

“Come se da noi la camorra fosse riconosciuta ufficialmente e si affiancasse apertamente alle istituzioni governative”, sintetizza da Roma un ammiraglio di lungo corso che mal sopporta i colleghi di Tripoli. Sei mesi di carcere, per quella che da subito era apparsa come una consegna concordata, sono serviti a ripulire la fedina penale del poco più che trentenne Abduraman e accrescere il suo carisma tra i miliziani di al-Nasr, il clan pagato per sorvegliare la raffineria di Zawyah,, il porto petrolifero di cui Bija è stato il supervisore, e il campo di prigionia ufficiale diretto dal cugino Osama, descritto dai magistrati italiani come “il peggiore” di tutti i torturatori finora identificati. Tre scagnozzi nordafricani di Osama un anno fa sono stati condannati a 20 anni di carcere ciascuno dal Tribunale di Messina. 

Doveva rispondere dell’accusa di traffico di esseri umani e contrabbando di petrolio. Ma la procura lo ha rilasciato per mancanza di prove. Le prove sono in fondo al Mar Mediterraneo e in molti Paesi europei’, ha reagito Vincent Cochetel, inviato speciale dell’alto commissariato Onu per i rifugiati (Unhcr-Acrnur)

A ottenere nell’ottobre scorso l’arresto di Bija era stato il ministro dell’Interno Fathi Bashaga, che nelle scorse settimane ha denunciato un attentato da parte delle milizie di Zawyah. I misteri di Bija non sono pochi. E non sono neanche pochi quanti in Italia temono che possa vuotare il sacco. Ricatti incrociati che il miliziano guardacoste ha saputo fino ad ora padroneggiare. La settimana scorsa il premier Mario Draghi aveva elogiato l’operato della cosiddetta guardia costiera libica. Ma dopo avere creato imbarazzo ai governi Conte e Gentiloni, al-Milad ora riesce a fare altrettanto con l’esecutivo Draghi, che presto dovrà rifinanziare proprio i guardacoste tripolini..”.

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Così stanno le cose. 

Un po’ di storia.

Comandante delle brigate “Anas al-Dabbashi”, dal nome di un familiare martire della jihad, Ahmed al-Dabbashi detto “Ammu’” (lo zio), opera a Sabratha e fino al 2016 aveva saldi legami con lo Stato islamico in Libia, che dice di combattere mentre secondo il Palazzo di Vetro farebbe il doppio gioco. La sua è una delle famiglie più in vista del Paese. La rotta migratoria dal Niger è appannaggio dei suoi uomini che si occupano anche della sicurezza della Mellitah Oil&Gas, legata all’Eni. È accusato di guidare una rete di traffici sovranazionali di esseri umani, armi e greggio. A Zawiya controllerebbe spiagge per la partenza di migranti, case per la detenzione anche di minori e barche. Avrebbe sulla coscienza morti in mare e nel deserto. Ed è da questo territorio che partivano, tra il 2016 ed il 2017, la gran parte dei barconi che in Italia hanno comportato numeri da record di sbarchi.

 Un’emergenza, quella creata nel nostro Paese, che costrinse il governo Gentiloni a provare a correre ai ripari. E così, ecco che nella primavera del 2017 sotto la regia del ministro dell’Interno Marco Minniti iniziarono le trattative con Tripoli per provare a frenare il flusso migratorio. In questo contesto sono state poste le basi per il memorandum con la Libia, che ha previsto soldi al governo di Tripoli in cambio dello stop alle partenze.

 Un reportage della Reuters ha successivamente accusato il governo italiano di aver fatto finire quei soldi nelle casse dei  clan che organizzavano i viaggi della speranza, che in molti casi si trasformavano in viaggi della morte. Tra questi, clan, ovviamente, figurava anche il gruppo degli al- Dabbashi. Roma ha sempre smentito, fatto sta che le partenze dall’autunno del 2017 sono diminuite ed a Sabratha è scoppiata una faida. Alcuni clan rivali degli al- Dabbashi hanno ingaggiato una vera e propria battaglia contro gli uomini di “ Ammu”.

La “Dabbashi &Co.”

I fratelli Dabbashi erano,e forse sono tuttora, i “re dei trafficanti” di esseri umani: Ahmad e Mehemmed erano infatti responsabili dell’80 % delle partenze di migranti dalle coste libiche in direzione Italia, un “affare milionario”. La quota minima da pagare per salire a bordo dei barconi della “Dabbashi & Co.” era 1000 dollari: questo il prezzo di un biglietto della speranza che tuttavia non comprendeva l’assicurazione sulla vita in caso di annegamento.  Da trafficanti di esseri umani i fratelli Dabbashi sono diventati dei perfetti poliziotti anti-migranti, e lo dimostrano i numeri degli sbarchi che sono crollati notevolmente nel giro di pochi mesi. Per convincere l’impresa familiare a cambiare attività sono serviti 5 milioni di euro, gentilmente elargiti dal governo libico e forse quello italiano, con la promessa che Ahmad e Mehemmed ne usciranno puliti e le loro milizie verranno legalizzate. ”Chi avrebbe mai detto che in pochissimi anni sarebbe diventato il bandito più famoso della regione, contrabbandiere di petrolio e trafficante di esseri umani, sino a trasformarsi adesso in poliziotto anti migranti per eccellenza, che tratta con il governo di Tripoli e persino con quello italiano ?” dice Mohammad, vecchio vicino di casa di Ahmad, ma sono in tanti a Sabratha a condividere queste parole.

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Relazioni pericolose

Come ricorda l’Agenzia Nova, la famiglia Dabbashi è uno dei clan più noti di Sabratha. Uno zio di Fitouri Dabbashi, -il capo clan morto in uno scontro a fuoco l’11 settembre 2019 ad Ain Zara, a sud di Tripoli- Ibrahim al-Dabbashi, è stato ambasciatore alle Nazioni Unite. Il fratello di” al-Ammu”, Emhedem, guida la Brigata 48, forza nata da un accordo con il ministero della Difesa e che, secondo fonti libiche riportate da L’Espresso, aveva come unico scopo quello di proteggere gli interessi di “Al-Ammu “e gestire la sicurezza al compound di Mellitah, joint venture tra Eni e la società petrolifera nazionale libica Noc. Non è chiaro, invece, quale sia stato il ruolo della famiglia nel sequestro dei quattro tecnici italiani della Bonatti nel 2015, due dei quali morti nella sparatoria per la loro liberazione. 

Segreti inquietanti

 Quattordici settembre 2017. Fra i trafficanti libici e l’Italia sono stati stipulati piccoli accordi contro i migranti”. Dopo i reportage di Reuters e Associated Press anche Le Monde accende i riflettori sui motivi che starebbero dietro allo stop delle partenze di migranti dalle coste libiche. Il quotidiano francese dedica all’argomento il titolo di apertura dell’edizione del pomeriggio e le prime due pagine interne.

Le Monde spiega di aver parlato al telefono con una personalità di Sabratha, la città costiera della Tripolitania diventata l’hub principale del traffico di esseri umani in Libia. “C’è un accordo tra gli italiani e la milizia di Ahmed al-Dabbashi. L’ex trafficante oggi fa la guerra contro il traffico di esseri umani”, scrive il giornalista citando la fonte, che vuole rimanere anonima. L’articolo spiega che “al-Dabbashi, soprannominato al-Ammu (lo zio), è il capo della brigata dei martiri Anas al-Dabbashi, che fino a luglio dominava il traffico di migranti da Sabratha”. Le informazioni coincidono con quelle contenute nel reportage di Associated Press e anche del Corriere della Sera. Una fonte di AP aveva definito al-Dabbashi e il fratello “i re del traffico” di migranti.

Abdel Salam Helal Mohammed, un dirigente del ministro degli Interni del governo di Tripoli che si occupa di immigrazione, ha raccontato che l’accordo è stato raggiunto durante un incontro fra italiani e membri della milizia Al Ammu, che si sono impegnati a fermare il traffico di migranti (cioè loro stessi o dei loro alleati, in sostanza). Dell’incontro aveva parlato anche la giornalista Francesca Mannocchi in un articolo pubblicato pubblicato da Middle East Eye il 25 agosto 2017, senza però trovare conferme ufficiali. Anche il portavoce di Al Ammu, Bashir Ibrahim, ha confermato ad Associated Press che circa un mese fa, luglio 2017,  entrambe le milizie hanno stretto un accordo “verbale” col governo italiano e quello di Sarraj per fermare i trafficanti. Sempre secondo Bashir, l’accordo prevede che in cambio del loro aiuto le milizie ottengano soldi, barche e quello che Associated Press definisce “equipaggiamento” (non è chiaro se si tratti o meno di armi).

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Il servizio di intelligence della polizia locale ha spiegato al Corsera che “che ultimamente (lo “Zio,” ndr) avrebbe ricevuto almeno 5 milioni di euro dall’Italia, se non il doppio, con la piena collaborazione del premier del governo di unità nazionale riconosciuto dall’Onu, Fayez al Sarraj”.

L ’articolo, di AP, intitolato “Backed by Italy, Libya enlists militias to stop migrants”, attribuisce questa notevole diminuzione di arrivi ad un’intesa sottobanco tra il governo italiano e alcuni gruppi armati libici: “Il calo sembra essere in gran parte dovuto ad accordi con le due milizie più potenti della città occidentale libica di Sabratha”. Le due milizie in questione sono la Brigata 48 e la Brigata del martire Anas al-Dabbashi, guidate da due fratelli dell’influente clan al-Dabbashi. “I funzionari della sicurezza e gli attivisti di Sabratha intervistati dall’AP hanno affermato che dirigenti italiani si erano incontrati con i leader della milizia”, si legge nello stesso articolo. Inoltre, sempre secondo la AP, “dal 2015 (quando Matteo Renzi era primo ministro, ndr), la sorveglianza del sito petrolifero di Melitah, dove opera l’Eni, è affidato alla milizia di al-Ammu”. Da questo quadro remerge chiara l’ambiguità dello Stato italiano nei confronti della situazione in Libia. Questa ambiguità è stata evidenziata da un’inchiesta pubblicata il 4 ottobre di quest’anno dal quotidiano l’Avvenire intitolata La trattativa nascosta.. Dalla Libia a Mineo, il negoziato tra l’Italia e il boss. Da questa inchiesta risulta che l’11 maggio 2017 funzionari dello Stato italiano incontrarono rappresentanti delle autorità libiche per discutere del blocco delle partenze di profughi e migranti. Alla riunione partecipò Abd al-Rahman al-Milad, alias “Bija”, capo della Guardia costiera libica della zona Ovest.

 Quest’uomo è “accusato dall’Onu di essere uno dei più efferati trafficanti di uomini in Libia, padrone della vita e della morte nei campi di prigionia, autore di sparatorie in mare, sospettato di aver fatto affogare decine di persone, ritenuto a capo di una vera cupola mafiosa ramificata in ogni settore politico ed economico dell’area di Zawiya, aveva ottenuto un lasciapassare per entrare nel nostro Paese e venire accompagnato dalle autorità italiane a studiare il ‘modello Mineo’”, scrive Nello Scavo, autore dell’inchiesta.

Ora “Bija” è tornato in libertà. E addirittura promosso di grado in quell’associazione a delinquere denominata Guardia costiera libica. Un’associazione finanziata dall’Italia ed elogiata dal premier Draghi nella sua recente visita a Tripoli. 

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