Affari. Affari. E ancora affari. E la chiusura dei lager? E i corridoi umanitari? E le stragi in mare? Niente. Niente. Neanche un accenno. “Nel futuro di una Libia pacificata le aziende italiane giocheranno un ruolo centrale per il completamento dei progetti già avviati (dall’autostrada costiera al nuovo aeroporto di Tripoli) e per i progetti futuri su digitale, energia e reti, start-up per giovani imprenditori.
E’ quanto tiene a sottolineare Manlio Di Stefano sottosegretario agli Esteri e copresidente della Cecil (Commissione economica congiunta italo-libica) all’indomani dell’incontro con il ministro degli Esteri libico Najla Al-Mangoush e a poche settimane dall’arrivo a Roma per la prima visita ufficiale del nuovo premier libico Abdelhamid Dbeibha.
«La ministra Al Mangoush – osserva Di Stefano – nel corso della sua missione italiana e nei suoi numerosi incontri ha tenuto a ricordare che il Governo di transizione libico si attende il massimo sostegno da parte delle aziende italiane per la ricostruzione del Paese. In particolare le autorità libiche vogliono riattivare tutte le intese previste dall’accordo di amicizia e partenariato del 2008 raggiunto da Berlusconi e Gheddafi». Si tratta di un accordo che assegna un vantaggio competitivo alle imprese italiane rispetto a quelle concorrenti di altri Paesi. «Abbiamo capito – prosegue Di Stefano – che vi è un preciso interesse libico a privilegiare le aziende italiane che non subiranno, ad esempio, la concorrenza di quelle turche a Ovest e di quelle russe ad Est. In particolare il recente memorandum of understanding firmato in Turchia non mette in discussione la commessa al consorzio italiano Aeneas per 79 milioni di dollari per l’aeroporto di Tripoli, che resta dunque confermato». Per quanto riguarda l’”autostrada della pace” di oltre 1700 Km finora è stato dato il via libera solo per il primo lotto ad Est mentre il lotto 4 della Tripolitania che dovrà arrivare al confine con la Tunisia è stato suddiviso in lotti più piccoli che andranno messi a gara entro i prossimi mesi. Per i progetti innovativi del futuro l’Eni è coinvolto nella creazione di un impianto con fonti rinnovabili nel Fezzan mentre Selex Leonardo è coinvolta nel progetto europeo di controllo dei confini meridionali del Paese. Ancora da finalizzare la ripresa della produzione dell’azienda italo-libica per la costruzione di elicotteri mentre la Iveco mantiene la sua unità produttiva per la produzione di camion.
Lezioni di geografia
La metamorfosi del sottosegretario pentastellato è prodigiosa. Da “rivoluzionario” terzomondista a piazzista di aziende. Resta qualche lacuna in storia e geografia. E’ passato alla storia del pubblico ludibrio social, In un tweet pubblicato dopo le violente esplosioni avvenute l’estate scorsa nella città di Beirut, capitale del Libano, manda un abbraccio “ai nostri amici libici”. L’errore non è passato affatto inosservato, tanto che poco dopo si è corretto scrivendo “libanesi”. Ma ormai il danno era fatto.
Beata ignoranza, verrebbe da dire. Se non fosse che l’asino (scolasticamente parlando) in questione era il sottosegretario agli Esteri con delega all’Asia.
Ma la cosa più grave è che il confermato sottosegretario agli Esteri è diventato un fan dell’accordo Italia-Libia sottoscritto da Silvio Berlusconi, allora presidente del Consiglio e il rais della Libia, Muammar Gheddafi. E allora andiamo indietro nel tempo. Cosa sempre utile in un Paese dalla memoria corta.
Dieci giugno 2009. Così scrive Vittorio Longhi su La Repubblica: “Mi picchiarono tre guardie con sbarre di legno e di metallo. Mi picchiarono per pi� di 10 minuti. Mi chiamavano “negro” mentre mi picchiavano. Quando caddi a terra mi presero a calci. Mi colpirono in testa con una sbarra di metallo. Ho ancora le cicatrici e dolori alla testa”. Tomas, un ventiquattrenne eritreo intervistato a Roma il 20 maggio, ha riferito a Human Rights Watch di abusi e pestaggi subiti dalle guardie delle prigioni libiche di Jawazat e di Kufra, luoghi di deportazione in cui – secondo l’organizzazione umanitaria – gli agenti sono in combutta con i trafficanti, che chiedono ai migranti centinaia di dollari per farsi portare a Tripoli.
“Il primo ministro Silvio Berlusconi e Muammar Gheddafi stanno costruendo il loro accordo di amicizia a spese di individui, di altri paesi, ritenuti sacrificabili da entrambi”, afferma Bill Frelick, direttore per le politiche dei rifugiati di Human Rights Watch, nel giorno della visita del leader libico in Italia. “Più che un trattato di amicizia – aggiunge – si direbbe uno sporco accordo per permettere all’Italia di scaricare i migranti e quanti sono in cerca di asilo in Libia e sottrarsi ai propri obblighi”.
La Libia non si può considerare seriamente come un interlocutore in qualsivoglia schema di protezione dei rifugiati, dice l’organizzazione, perché non ha ratificato la Convenzione sui rifugiati, non ha alcuna legislazione in materia d’asilo e invece vanta una triste storia di abuso e maltrattamento sui migranti colti nel tentativo di scappare dal paese via nave.
Da quando l’Italia ha stabilito la sua nuova politica di intercettazione e respingimento sommario il 6 maggio, sono stati intercettati 500 tra migranti e richiedenti asilo dalle forze di sicurezza italiane e le loro imbarcazioni trainate in Libia. I migranti vengono respinti senza neanche una valutazione superficiale per determinare se abbiano bisogno di protezione o siano particolarmente vulnerabili, come nel caso di malati o feriti, donne incinte, bambini non accompagnati, o vittime di tratta”.
Ecco, dodici anni dopo si vorrebbe “ripartire da qui”.
Al peggio non c’è mai fine
Vabbé, si può capire, al governo c’era Berlusconi e la destra…E invece…Leggete cosa scriveva Barbara Monaco su emergenze.web: “Gennaio 2016: al Governo non c’è più Silvio Berlusconi, ma c’è quella “sinistra” che tanto si indignò per gli accordi fatti con Muammar Gheddafi. Il nuovo ambasciatore dell’Italia a Tripoli, Giuseppe Perrone, il 10 gennaio ha presentato le credenziali per riaprire l’ambasciata, la prima sede diplomatica di un paese occidentale a riaprire i battenti in Libia dopo la guerra civile cominciata nel 2011. Sì, perché il ministro dell’Interno italiano, Marco Minniti, il giorno precedente si è recato a Tripoli per gettare le basi di un’intesa con il governo di unità nazionale libico di Fayez al Serraj sulla gestione dell’immigrazione, il controllo delle frontiere e il contrasto al traffico di esseri umani: “Tenendo conto degli accordi già fatti tra Italia e Libia, uno nel 2008”, ha affermato in conferenza stampa, “l’altro più recente nel 2012, abbiamo comunemente deciso di raggiungere un accordo nei tempi più brevi possibili, che consenta a Italia e Libia di combattere insieme gli scafisti”.
Non credo servano altre parole per spiegare ciò che si è deciso di riciclare, salvo aggiungere che, forse, ad oggi, le condizioni in Libia sono cambiate. In peggio. Non c’è più Gheddafi, certo, ma il cosiddetto governo di unità nazionale non è che un fantoccio, riconosciuto dall’Occidente ma avversato in patria da almeno altre tre entità politiche e/o religiose che non riconoscono quell’ Al-Serraj cui l’Italia ha promesso il sostegno per pattugliare e chiudere il confine meridionale del paese, quello che lo separa dal Niger, principale punto di accesso in Libia per i migranti provenienti dall’Africa subsahariana.
Per sostenere questo progetto l’Italia potrebbe fornire a Tripoli un sistema di radar, già previsto nell’accordo del 2012. Tuttavia l’attuazione del piano presenta diverse difficoltà, perché il governo di Al Serraj non è in grado di garantire un controllo del territorio così esteso e capillare al di fuori della capitale. Intanto si è conclusa la prima fase dell’Operazione Sophia, la missione di EunavforMed contro il traffico di esseri umani che prevedeva l’addestramento di 78 ufficiali e sottufficiali della guardia costiera libica a bordo della nave della marina militare italiana Garibaldi. Gli obiettivi principali del governo italiano sembrano essere due: un impegno militare da parte delle forze armate europee nelle acque internazionali davanti alla Libia e un loro futuro sconfinamento nelle acque libiche e il coinvolgimento delle forze di polizia libiche nel pattugliamento della costa. In cambio, Roma garantirebbe investimenti e aiuti anche attraverso la donazione di mezzi come i pattugliatori, che dovrebbero essere consegnati già nelle prossime settimane. Proprio mentre scrivo arriva la notizia: “Libia. Dopo la riapertura dell’ambasciata italiana milizie ribelli attaccano i principali ministeri”. Mi fermo. Meglio pensarci su e riparlarne con più lucidità….”.
I deportati nei lager
Scrive Giovanni Bianconi sul Corriere della Sera: “Le guardie hanno sparato nel mucchio, forse per placare il tumulto, in una cella dove sei umani si contendevano lo spazio vitale di uno, la notte tra l’8 e il 9 aprile. Così sono due profughi ragazzini di 17 e 18 anni, un morto e un ferito, le ultime vittime conosciute del «Centro di raccolta e rimpatrio» Al-Mabani, una delle cinque galere per migranti aperte attorno a Tripoli. Vittime ufficiali, s’intende: cioè quelle (poche) di cui Medici Senza Frontiere, una delle benemerite organizzazioni che riescono a mettere piede nella bolgia libica, può dare conto, raccontando che «la gente bloccata qui dentro per un periodo indefinito corre gravi rischi», come ha spiegato Ellen van der Velden, manager operativa della Ong. Pare si muoia facilmente, dopo essere stati «salvati».
Nel suo rapporto sui diritti umani, Amnesty International scrive che nel 2020 la guardia costiera libica ha «intercettato in mare 11.891 rifugiati e migranti, riportandoli indietro sulle spiagge libiche, dove sono stati sottoposti a detenzione arbitraria e indefinita, tortura, lavoro forzato ed estorsione». Ma neppure questi conti vergognosi tornano. Il capo missione dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim), Federico Soda, osserva che se gli ospiti dei campi ufficiali sono circa quattromila, mancano all’appello ottomila dei migranti catturati solo lo scorso anno. Alcuni vengono assistiti nei programmi dell’Unhcr o dell’Oim. Ma ne risultano svaniti ancora troppi. «Dobbiamo pensare che vengano trasferiti in campi non ufficiali, di cui nessuno conosce il numero», dice Soda. Di recente la Brigata 444 ha fatto irruzione nei centri clandestini di Bani Walid, liberando profughi torturati e stuprati, per ricondurli nel circuito formale. Ma la differenza tra strutture legali e illegali in Libia spesso è solo burocratica. E talvolta il percorso è inverso. Scrive Amnesty: «A migliaia sono sottoposti a sparizione forzata, dopo essere stati trasferiti in luoghi di detenzione non ufficiali, compresa la ‘Fabbrica del Tabacco’ di Tripoli, sotto il comando di una milizia affiliata al Gna (il governo nazionale). Di loro non s’è saputo più nulla».
Già dai rapporti Onu del 2018 era noto come profughi e migranti fossero catturati, seviziati e ricattati da gang spesso «parastatali», nelle quali confluivano banditi e funzionari governativi. Già da allora la famosa guardia costiera libica veniva definita alla stregua di una confraternita di pirati. A settembre dell’anno scorso l’Unhcr ha rilasciato una nota formale in cui si rigetta la nozione della Libia come posto sicuro di sbarco e «si invitano gli Stati a trattenersi dal rimandare in Libia qualsiasi persona salvata in mare». Nella mappa dei luoghi più mortali per i migranti in Africa, subito dopo il deserto tra Niger e Libia c’è la costa libica, con Bani Walid, Sabratha, Zuwara e Tripoli. E, appena venerdì scorso, l’Alto commissario Filippo Grandi è tornato a sollecitare «la fine delle detenzioni abusive», auspicando che «la nuova amministrazione libica dia segnali più forti di voler bloccare lo sfruttamento di migranti e rifugiati» (non va certo in questo senso la recente scarcerazione e promozione a maggiore della guardia costiera del trafficante Bija)…”.
A puntare i riflettori sugli abusi è stato anche il segretario generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres, che il 15 gennaio ha pubblicato un rapporto in cui denuncia le “gravi violazioni dei diritti umani e del diritto internazionale umanitario” commesse “in tutta la Libia nella totale impunità”. “Migranti e rifugiati hanno continuato a essere sistematicamente sottoposti a detenzione arbitraria e tortura in luoghi di detenzione ufficiali e non ufficiali”, si legge nel documento. I rapimenti sono all’ordine del giorno e nei lager la vita è scandita da stupri, violenze e lavori forzati, le cui responsabilità vanno individuate in “funzionari governativi, membri di gruppi armati, contrabbandieri, trafficanti e bande di criminali”.
“Rifugiati e migranti in Libia dovrebbero essere rilasciati e dotati di un rifugio protetto fino a quando le loro richieste d’asilo non potranno essere valutate — prosegue Guterres —. La Libia non può essere considerata un porto sicuro di sbarco ed esorto gli stati membri a revisionare le loro politiche che supportano il ritorno (in Libia, ndr) di rifugiati e migranti… n un report pubblicato la scorsa primavera, Medici senza frontiere (Msf) ha denunciato che nel centro di detenzione di Sabaa (Tripoli) controllato da una divisione del ministero dell’Interno libico — dove all’epoca erano detenuti “arbitrariamente” 300 migranti di cui 100 minori di 18 anni —, una persona su quattro era sottopeso o malnutrita, con i bambini e gli adolescenti che avevano più probabilità degli adulti di essere “gravemente malnutriti”. Una situazione che Kees Keus, consulente sanitario di Msf in Libia, definì estremamente preoccupante dato che “all’interno dei confini della detenzione le persone non hanno alcun controllo su cosa mangeranno, nonché su come e quando mangeranno. Sono completamente dipendenti dalle autorità. I nostri medici hanno visitato i pazienti che hanno smesso di prendere medicine perché non avevano niente da mangiare”.
Alla malnutrizione si affianca l’assenza di cure. L’igiene è inesistente, manca l’acqua potabile e i bagni scarseggiano: lacune che sono all’origine di molte malattie, come infezioni respiratorie, diarrea, scabbia e tubercolosi…”.
Manca la “soluzione finale”. Ma forse c’è solo da attendere.