La generazione Tik Tok si è ribellata. In Cisgiordania, nelle città d’Israele dove è forte la presenza della comunità araba-israeliana. Una ribellione che non ha capi, anche se tutte le fazioni politiche palestinesi e i partiti arabi israeliani hanno cercato di metterci il cappello. A ben vedere è forse questa la novità più significativa che la quarta guerra di Gaza, ora seguita da un fragile cessate il fuoco, ha messo in luce.
A darne conto, su Haaretz, è il giornalista israeliano più addentro alle dinamiche, non solo politiche, della comunità araba israeliana e di quella palestinese in Cisgiordania: Jack Khoury.
“Gli eventi della scorsa settimana in Cisgiordania e all’interno di Israele – scrive Khoury – sono un segnale di avvertimento non solo per il governo di Israele, ma anche per la leadership politica sia nell’Autorità Palestinese che nella comunità araba di Israele.
I palestinesi in Cisgiordania e in Israele vivono in due cantoni separati. Il trattamento che il governo riserva loro è diverso, e le differenze economiche e sociali tra loro non sono trascurabili. Eppure nell’ultima settimana sembrava che la Linea Verde fosse scomparsa per un momento, ed è diventato chiaro che non è difficile per i palestinesi di entrambe le parti trovare un comune denominatore e scendere in strada di fronte alla prepotenza e all’oppressione. I residenti di Gerusalemme Est o Nablus si sono trovati nella stessa posizione di quelli di Nazareth, Umm al-Fahm o anche delle città a popolazione mista di Haifa e Lod. Sia in Cisgiordania che in Israele, sono stati i giovani frustrati che hanno superato la loro paura e sono scesi in strada e si sono uniti nella protesta per gli eventi alla Moschea di Al-Aqsa e a Sheikh Jarrah. Le immagini della distruzione nella Striscia di Gaza, di donne e bambini sepolti sotto le macerie hanno solo aggiunto carburante al fuoco. C’è poca pianificazione dietro, nessuna chiara leadership. Non c’è nessuno che stia davanti a questi giovani e ordini loro di tornare a casa. In Cisgiordania, sono stati condivisi sui social media video che mostrano membri della polizia palestinese e dei servizi di sicurezza che si scontrano con i manifestanti. In Israele, nel frattempo, i legislatori e i sindaci arabi erano poco presenti.
Alla fine, sono stati i giovani manifestanti a dettare il tono. La leadership locale nelle comunità arabe d’Israele ha espresso sostegno alla protesta popolare, pur denunciando ogni violenza o danno alla proprietà. In Cisgiordania, Fatah e le altre fazioni palestinesi hanno chiesto che la protesta popolare continui. La cooperazione transfrontaliera palestinese continuerà martedì con uno sciopero generale indetto dal Comitato superiore di controllo arabo nelle comunità arabe d’Israele da un lato e una “giornata della rabbia” e marce di protesta in Cisgiordania dall’altro. Nonostante la rabbia e la frustrazione, la saggezza convenzionale è che il cessate il fuoco che sta prendendo forma smorzerà le proteste. Le cose hanno cominciato a calmarsi nella comunità araba d’Israele con la fine delle vacanze del Ramadan alla fine della settimana scorsa. L’Autorità Palestinese dovrà dare sostegno alla protesta popolare finché i bombardamenti a Gaza continueranno, ma vorrà anche fermarsi prima che minacci di raggiungere un punto di non ritorno. Eppure, è ovvio che Israele non può più dipendere dall’apatia che ha caratterizzato il pubblico palestinese nell’ultimo decennio, e che, indipendentemente dalla posizione geografica, il legame nazionale è ancora vivo. La generazione TikTok, vista come egocentrica, ha dimostrato di non essere disposta a sopportare l’umiliazione e ha condotto una protesta come non se ne vedevano da due decenni, e che ha il potenziale di essere esplosiva e pericolosa.
Il governo israeliano, che si è abituato a trattare i palestinesi come un popolo diviso e senza spina dorsale, dovrà cambiare il suo approccio, altrimenti quello che è successo la scorsa settimana sembrerà solo un’anteprima. È possibile: deve solo vederli come esseri umani. La leadership palestinese in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza deve cercare di porre fine alla divisione e adottare una strategia che faccia affidamento sul potere del popolo e non su un ministero a Ramallah o un bunker a Gaza. Il messaggio alla comunità internazionale, specialmente agli Stati Uniti, è che dopo 73 anni, è arrivato il momento di provare a porre fine al conflitto invece di gestirlo. Ed è stato chiarito alla leadership politica della comunità araba che i cittadini arabi di Israele non hanno abbandonato la loro identità nazionale. Vogliono essere parte della società, non si sono piegati, cercano una vera uguaglianza e non si accontentano più di semplici briciole”.
Biden, con Israele, non con Netanyahu
Khoury evoca gli Stati Uniti. E il comportamento tenuto dall’Amministrazione Biden negli undici giorni della guerra di Gaza. Interessante a tal proposito è l’editoriale del quotidiano progressista di Tel Aviv: £Il presidente americano Joe Biden- rileva Haaretz – ha dato a Israele un sostegno significativo durante i primi 10 giorni di combattimenti a Gaza. Gli avvertimenti lanciati dalla destra israeliana prima delle elezioni presidenziali americane che un presidente Biden sarebbe stato ostile a Israele si sono dimostrati infondati. Biden ha posto due volte il veto a risoluzioni del Consiglio di Sicurezza dell’Onu per condannare Israele e ha dichiarato di volta in volta che Israele ha il diritto di difendersi dalle offensive terroristiche.
Il presidente ha fatto tutto questo nonostante le dure critiche dall’interno del suo partito. Nel Partito Democratico degli Stati Uniti, che attualmente controlla entrambe le camere del Congresso, c’è un’ala crescente che rifiuta di adottare il vecchio consenso sulle relazioni tra Israele e gli Stati Uniti. Senatori di spicco e membri importanti del Congresso hanno invitato Biden questa settimana a congelare un nuovo pacchetto di aiuti militari a Israele, e lo hanno criticato dopo ogni sua telefonata con il primo ministro Benjamin Netanyahu per non aver preso una posizione più dura nei suoi confronti.
Una leadership israeliana responsabile avrebbe trovato un modo per ringraziare il presidente per il suo sostegno a Israele, ma Netanyahu, come al solito, ha scelto di mordere la mano che lo nutre. Nella loro conversazione telefonica di mercoledì, Biden ha espresso il suo desiderio di vedere un cessate il fuoco prima che la conflagrazione si diffonda al resto del Medio Oriente. Netanyahu si è affrettato ad annunciare il suo desiderio di continuare a combattere, causando l’imbarazzo di Biden.
Apparentemente, Netanyahu si è abituato eccessivamente a come stavano le cose sotto l’amministrazione di Donald Trump, che in numerose occasioni si è comportato come se fosse il capo della filiale di Washington del Likud. Ma la realtà negli Stati Uniti è cambiata, e finché Netanyahu continuerà a servire come primo ministro, deve rendersi conto che anche se c’è un presidente alla Casa Bianca che sostiene Israele, questo presidente non subordina completamente la politica americana al giudizio di Netanyahu. Le buone relazioni con l’amministrazione Biden sono la migliore assicurazione di Israele nel Consiglio di Sicurezza, nel Tribunale Penale Internazionale dell’Aia e nei negoziati con l’Iran, che Israele può influenzare solo attraverso i suoi legami con Washington. Speriamo che, a differenza di quello che è successo con Barack Obama, Netanyahu non rovinerà ancora una volta la relazione strategica di Israele con un presidente americano”, conclude l’editoriale.
Il punto è che “Bibi” non ha ancora elaborato il lutto per la dipartita politica del suo caro amico e sodale “Donald”. E questo è un grosso problema. Per la stabilità del Medio Oriente e per il nuovo inquilino della Casa Bianca.