Dalle coste libiche a quelle tunisine, dai campi di Lesbo a Ceuta. Migranti respinti, cacciati, perseguitati, deportati, torturati.
La storia di Ali
Contattato da InfoMigrants, Ali, un migrante guineano che è stato varie volte intercettato in mare in questi anni, riferisce la procedura classica. «Una volta ricondotti al porto, ci contano. Poi gli operatori dell’Oim ci danno delle scatole con dentro cornetti, succo di frutta e una bottiglia d’acqua da 1 litro», spiega Ali. «È sempre così». L’Organizzazione Internazionale per la Migrazione è spesso presente nei siti di arrivo dei migranti lungo la Libia. Contattato da InfoMigrants, uno dei portavoce, Safa Msehli, ha dichiarato che, oltre a cibo e acqua, l’organizzazione delle Nazioni Unite fornisce kit per l’igiene personale.
Membri dell’Oim poi eseguono esami medici presso il punto di raccolta, ha raccontato Msehli. I casi più critici vengono trasportati presso cliniche vicine in ambulanza. «Gli operatori Oim chiedono se ci sono persone malate tra noi» continua a raccontare Ali, aggiungendo che però la gran parte dei migranti, che hanno spesso passato vari giorni in mare prima di essere riportati sul suolo libico, non ricevono nessun’altra visita medica.
Per le persone che non sono mandate in cura per problemi di salute, i centri di detenzione sono la tappa successiva. «La maggior parte di questi migranti finisce in detenzione arbitraria», dice Msehli, e nessuna informazione è loro fornita a riguardo. Varie strutture di questo tipo sono presenti nel Paese, come le prigioni Tariq Al-Sikka a Tripoli, Sharah Zawiya nel sud della capitale, Zintan nel sud-ovest. Sono numerosi, inoltre, i centri illegali gestiti da milizie e gruppi armati.
Che siano legali o meno, le condizioni di vita in questi centri sono deplorevoli. Numerose testimonianze sono state raccolte riguardo violenze, torture, privazione alimentare. «Oim svolge visite regolari presso questi centri per fornire supporto, sostegno umanitario, assistenza medica e psicologica ai migranti», afferma Msehli. Ma non ci sono misure di sicurezza in questi luoghi che possano proteggere i detenuti e le detenute dagli abusi.
In alcune rare occasioni, i migranti riescono a fuggire da questi centri di detenzione oppure sono rilasciati dalle forze libiche dopo lo sbarco. Questi sono tuttavia casi rarissimi che non seguono alcuna logica, afferma Oim. «Questi rilasci sono del tutto arbitrari, non seguono alcuna regola chiara», ha specificato Msehli. Ali racconta di essere stato rilasciato nel Gennaio 2020, insieme ad un altro gruppo di persone con le quali era stato intercettato in mare. È stata la prima volta: in tutte le altre occasioni è stato trasportato nei centri di detenzione, a parte in un solo caso in cui è riuscito a fuggire.
Nel tempo, tenere traccia di questi migranti si è dimostrato impossibile. «Non c’è alcun sistema di registrazione predisposto dalle autorità libiche», dice Msehli. «I migranti sono spesso spostati da un luogo all’altro. E le Nazioni Unite hanno ricevuto documentazioni su scomparse e traffici di esseri umani in questi centri». In effetti, alcuni amici di Ali sono completamente svaniti nel nulla. A seguito di un’intercettazione in mare, sono stati mandati presso il centro Sharah Zawiya e Ali non è riuscito a rintracciarli mai più.
“ Il vero scandalo – se si guardano le statistiche dell’Unione europea – è che ci sono tanti Paesi dove non arriva pressoché nessuno. Si tratta del Gruppo di Visegrád (Ungheria, Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia), di Austria e piccoli Paesi baltici, ma ormai anche di Danimarca e Finlandia, che hanno pochissime richieste d’asilo e pochissimi ingressi. Abbiamo un club di 27 Stati membri, ma – quando parliamo di richiedenti asilo o cittadini di Paesi terzi che fanno ingresso in modo irregolare – tutto si concentra a cinque Paesi.Il nucleo del problema, in fondo, è che l’Unione europea non ha una competenza per dire: tu, Olanda, devi prendere 10mila persone. Questa competenza non c’è perché non è prevista dal Trattato di Lisbona. La Commissione europea può appellarsi, può chiedere, ma non può prescrivere: tutto resta sempre su base volontaria perché il principio della sovranità nazionale, su questa materia, resta invariato”. A sostenerlo, in una intervista a Giulia Berardelli per l’Huffington Post, è Christopher Hein, docente di Diritto e politiche di immigrazione e asilo presso il Dipartimento di Scienze Politiche dell’Università Luiss Guido Carli, direttore per 25 anni del Consiglio italiano rifugiati (Cir),
Intanto, Gli investigatori del Tribunale internazionale dell’Aja continuano a ricevere «informazioni sui crimini ancora in corso, che vanno dalle sparizioni e detenzioni arbitrarie a omicidi, torture e violenze sessuali e di genere», si legge nell’ultima relazione semestrale consegnata dalla procuratrice Fatou Bensouda al Consiglio di sicurezza Onu.
“Fra le ultime tragedie -scrive Nello Scavo su Avvenire – Bensouda sta investigando anche sull’omissione di soccorso e lo scaricabarile tra Italia, Malta e Libia, quando furono lasciate affogare 130 persone che da due giorni chiedevano soccorso e la cui esatta posizione era stata segnalata anche da un aereo di Frontex.
E aggiunge: “Nonostante si parli di progressiva stabilizzazione, niente è davvero cambiato per gli stranieri. L’Aja anche in questi ultimi giorni documenta crimini «su larga scala: violenza sessuale, trattamento inumano e detenzione arbitraria». Violazioni «ampiamente denunciati per anni, ma finora nessuno è stato ritenuto responsabile».
L’unico arresto da parte della procura generale di Tripoli ha riguardato il comandante al-Milad “Bija”, il quale nelle settimane scorse ha riguadagnato la libertà e la promozione al grado di maggiore.
«La portata di questi presunti crimini è ampia», si legge ancora, e riguarda sia i centri di detenzione per migranti che le carceri dove sono rinchiusi in promiscuità detenuti in attesa di giudizio, migranti irregolari, avversari politici, criminali comuni. La missione Onu a Tripoli (Unsmil) secondo quanto riporta la procuratrice Bensouda «riferisce che più di 8.850 persone sono detenute arbitrariamente in 28 carceri ufficiali in Libia sotto la custodia della polizia giudiziaria, con una percentuale stimata tra il 60 e il 70 per cento in custodia cautelare. Altre 10.000 persone sono detenute in altre strutture di detenzione gestite da milizie e gruppi armati, tra cui circa 480 donne e anche bambini».
I migranti in Libia
Si stima che circa 1,3 milioni di persone abbiano bisogno di assistenza umanitaria in Libia. Le famiglie sfollate, le persone rifugiate e migranti sono tra le più vulnerabili e a rischio sicurezza in un paese che è diviso internamente da fazioni contrastanti e differenze inter-tribali. Di questi 1,3 milioni, 348 mila sono minori, bambini e bambine che hanno urgente bisogno di ogni genere di sostegno per poter vivere dignitosamente. Circa 393 mila sono sfollati interni e più di 43 mila sono rifugiati e richiedenti asilo che provengono principalmente dall’Africa sub-sahariana. Persone, spesso anche minori soli non accompagnati, che affrontano viaggi estenuanti, dove il rischio di non arrivare a destinazione, che non è la Libia bensì l’Europa, è altissimo.
La storia di Rashid e l’incontro con Intersos
“Intersos conosce bene queste persone e queste storie. Da quando nel 2018 abbiamo avviato progetti di accoglienza e formazione con i minori migranti di Tripoli e Sebba, nel centro sud della Libia, incontrare persone con un passato di migrazione alle spalle è diventato una consuetudine. Rashid è uno di loro, ha 17 anni e viene dalla Sierra Leone. Come molti suoi coetanei ha già conosciuto il dolore, la paura, il vuoto che lascia una perdita. Il suo viaggio è iniziato molti mesi prima di raggiungere la Libia, i pericoli e le difficoltà nell’attraversare territori già fortemente instabili e ad alto rischio insicurezza sono stati molti e raccontarli spesso fa riaffiorare ferite molto profonde. Ha trascorso giorni e notti nel deserto, insieme ad altri che come lui cercavano di fuggire da povertà, conflitti, assenza di un futuro.
Fare domande sul passato personale ad una persona che di quel passato ha soprattutto immagini disturbate, ricordi che tagliano il respiro e buchi neri da dimenticare, comporta esporsi ad una sofferenza che non può lasciare indifferenti. “La mia vita deve andare avanti”, dice Rashid. Una frase detta mentre racconta uno dei vari episodi in cui quella sua stessa vita ha rischiato di perderla. Un attacco da parte di un gruppo armato nel pieno del deserto del Sahel, l’auto dove viaggiava circondata da uomini armati, la paura che lo attanagliava, il senso del dovere nel cercare di proteggere i suoi tre fratelli minori.
Arrivato in terra libica, Rashid è stato indirizzato al centro per minori gestito da Intersos che prende il nome di Baity, che significa “Casa mia”. Accolto dai nostri operatori e dalle nostre operatrici, Rashid ha iniziato un percorso di sostegno psicosociale e istruzione: riprendere gli studi insieme a ragazzi e ragazze della sua età significa mettere insieme i pezzi del presente e proiettarsi su un futuro reale. Il tempo in questi casi