Le lacrime di coccodrillo non fanno una politica. Servono a mondarsi la coscienza in attesa di spargere altre lacrime di circostanza di fronte all’ennesima strage di innocenti. Globalist ne parla con Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia.
Lo strazio per le foto dei corpi senza vita dei tre bambini su una spiaggia libica è durato un attimo. Il tempo dell’ennesimo Consiglio Europeo conclusosi con parole di circostanza ma senza impegni concreti. Siamo alle solite?
Evidentemente sì. Perché quell’immagine è l’ennesimo strazio che ci appare davanti agli occhi tra barche che si rovesciano con i loro carichi umani in mare, tra corpi che vengono ritrovati arenati sulle spiagge, come Alan Kurdi, e questa ultima terribile immagine di corpi di bambini sulle spiagge libiche. E’ evidente che se la commozione c’è, è di circostanza, dura poco, e poi riprende il sopravvento la realpolitik che non decide, che prende tempo, che non trova soluzioni, che si prepara a piangere lacrime di coccodrillo per la volta successiva.
Il presidente del Consiglio, Mario Draghi, riferendosi proprio a quelle immagini, ha affermato: “E’ qualcosa di inaccettabile”. Ma la politica e chi ha il potere di intervenire non dovrebbe andare oltre l’esecrazione?
Quello che la politica dovrebbe fare, se è una politica che tiene ai diritti, è fare qualcosa per rendere inaccettabile l’immagine successiva. E non pare che sia questo il caso. Quello che ci sembra di vedere, ancora una volta, è un prevalere d’interessi contrastanti, che vedono i Paesi di frontiera marittima sollecitare una risposta unita e solidale da parte degli altri Stati dell’Unione Europea. E gli Stati che geograficamente sono meno esposti non rendersi disponibile a questa soluzione. Il punto debole di tutta questa vicenda è che se non si trova un sistema che obblighi gli Stati membri, in nome dei valori costituenti dell’Unione Europea, a condividere gli onori e le responsabilità per la gestione dei flussi migratori, dobbiamo aspettarci altre immagini come quelle e altre reazioni che non produrranno nulla se non una emozione passeggera.
A proposito d’insopportabilità. Non è insopportabile questa distinzione che continua ad essere operata, tra profughi e migranti economici?
E’ difficile pensare che il bisogno di mezzi per vivere sia un motivo meno valido, meno urgente del bisogno di libertà. La fame è un motivo di fuga altrettanto importante quanto il rischio di essere torturati o di finire in carcere. Oltre tutto, nella situazione in cui la Libia è oggi, quella distinzione perde ulteriormente senso data la condizione in cui si trovano migranti, richiedenti asilo, rifugiati all’interno dei centri di detenzione della Libia. Lì, chi arriva perché a fame trova la tortura, chi arriva perché è povero trova la schiavitù, chi arriva perché fugge dalla discriminazione trova lo stupro, e quindi quella distinzione tra migranti economici e richiedenti asilo nella Libia di oggi perde completamente significato.
L’Italia chiede una solidarietà europea per quanto riguarda la redistribuzione dei migranti e altro. Ma guardando agli anni passati, la cosa più importante che l’Italia ha fatto, non è quella che ha fatto da sola, e cioè “Mare nostrum”?
“Mare nostrum” è stata una risposta degna e all’altezza, basata su principi elementari di umanità di fronte a una crisi catastrofica. Quell’operazione lì non è stata sostituita da nulla di analogo. Non solo non c’è stato una “Mare nostrum” europea ma progressivamente lo spazio si è chiuso per coloro che cercavano di dare una risposta alla mancanza di azione degli Stati, cioè le Ong. Oggi il Mediterraneo è un mare di morte, scarsamente percorso da navi di soccorso, e tutto è lasciato in balìa del mare, delle onde, dei capricci del tempo. Quello che manca, anche a livello di sensibilità di opinione pubblica, è qualcosa che potremmo chiamare un movimento “Migrants Lives Matter”. Perché i soggetti che sono vittime di violazioni di diritti umani, quelli che si trovano in Libia, meritano una enorme attenzione, ma sono senza voce. E quindi si dovrebbe dar loro voce, mettendo insieme solidarietà, anche l’emotività, il lavoro dei giornalisti, per spingere chi prende decisioni politiche a prenderle in favore di queste persone.
Si parla e s’invoca il rispetto dei diritti. Ma venendo all’impegno dei singoli come quello dei governi: non esistono anche dei doveri, uno dei quali non è il dovere all’indignazione?
L’indignazione spesso è un sentimento selettivo. La si prova, non la si prova, a seconda di quello che si pensa di ciò che si ha davanti. Devo dire che anni e anni di narrazione ostile nei confronti dell’immigrazione nel nostro Paese, hanno prodotto una forma molto selettiva d’indignazione. Quello che io ritengo un dovere, è il dovere di solidarietà. E questo chiama in causa la società civile ma soprattutto le istituzioni. Perché essere indignati e definire inaccettabili delle immagini è importante, però poi a ciò deve seguire la solidarietà concreta verso quelle persone. E solidarietà concreta vuol dire, ad esempio, portar via dai centri di detenzione libici le persone che ci stanno dentro. Vuol dire non fare i complimenti alla cosiddetta Guardia costiera libica come ha fatto il Primo ministro Draghi. Vuol dire non avere paura di fare dichiarazioni in favore dei diritti dei migranti anche se questo può costare perdita di voti. Perché si può perdere un voto e si acquisisce dignità.