Quel cimitero chiamato Siria e Assad, il "macellaio" di Damasco
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Quel cimitero chiamato Siria e Assad, il "macellaio" di Damasco

Sono quasi 500mila le persone rimaste uccise in Siria in dieci anni di guerra. Un nuovo calcolo dell'Osservatorio siriano per i diritti umani, secondo cui dal 2011 il conflitto ha provocato 494.438 morti. 

Aleppo, civili in fuga
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Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

1 Giugno 2021 - 14.24


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Sono quasi 500mila le persone rimaste uccise in Siria in dieci anni di guerra. Lo rileva un nuovo calcolo dell’Osservatorio siriano per i diritti umani, secondo cui in totale dal 2011 il conflitto ha provocato 494.438 morti. La stragrande maggioranza dei decessi “è avvenuta tra la fine del 2012 e la fine del 2015”, ha detto il direttore della Ong Rami Abdel Rahmane.

A rischio il doppio di siriani rispetto al 2018

Secondo Sean O’Brien, direttore del Programma Alimentare Mondiale (Pam-Wfp) in Siria “le famiglie si trovano a dover fare scelte impossibili. Avere cibo sulla tavola o ricevere le cure mediche di cui hanno bisogno? O mandare i propri bambini a scuola? Senza una continua assistenza, queste famiglie, semplicemente, non possono sopravvivere”. L’agenzia umanitaria dell’Onu, Premio Nobel per la pace 2020, stima che un milione e 300 mila siriani non sopravviverebbero senza assistenza alimentare, e che il 60 per cento, 12,4 milioni di persone, soffra di insicurezza alimentare, il doppio rispetto al 2018.

Solo nell’anno scorso – si legge nella nota diffusa dal Wfp – – milioni di persone si sono avvicinate ancora di più alla fame. “Questo conflitto – rimarca ancora O’Brien – ha avuto un costo tremendo sulla vita della popolazione siriana. Ogni giorno sempre più siriani precipitano nella povertà, le famiglie si trovano a dover fare scelte impossibili: avere cibo sulla tavola o ricevere le cure mediche di cui hanno bisogno, mandare i propri figli a scuola Senza una continua assistenza, queste famiglie, semplicemente, non possono sopravvivere”. 

Lo shock della sterlina siriana.

 I siriani affrontano molteplici shock, incluso il collasso della sterlina siriana, il suo impatto sul prezzo dei beni di base, le conseguenze della crisi finanziaria in Libano, come anche le correnti ostilità e gli sfollamenti su ampia scala, con il Covid-19 che ha ulteriormente peggiorato la situazione della sicurezza alimentare. I prezzi del cibo sono aumentati di oltre il 200 per cento. Solo nell’ultimo anno, circa 4,5 milioni di persone sono precipitate nella fame e nell’insicurezza alimentare. Una verifica recente del Wfp e dei suoi partner ha permesso di conoscere un dato terribile: circa il 60 per cento della popolazione non ha la certezza di nutrirsi regolarmente tutti i giorni, il doppio rispetto al 2018. La verifica ha evidenziato anche che quasi 1 milione e mezzo di persone non potrebbero sopravvivere senza l’assistenza alimentare assicurata dalle organizzazioni umanitarie.

Gli aiuti al gruppo più numeroso di rifugiati al mondo. Negli ultimi dieci anni, il Wfp ha fornito, ogni mese, assistenza alimentare a circa 5 milioni di siriani nel Paese, usando ogni mezzo disponibile per raggiungere le persone in stato di bisogno. L’Agenzia umanitaria sta, inoltre, fornendo assistenza ad oltre 1,5 milioni di rifugiati siriani nei paesi vicini di Turchia, Libano, Giordania, Iraq ed Egitto che, complessivamente, ospitano oltre 5,6 milioni di siriani. Si  tratta del gruppo più numeroso di rifugiati al mondo.

Sparpagliati in 130 Paesi del mondo. Sono 5.5 milioni i rifugiati siriani in oltre 130 paesi del mondo – segnala un documento dell’Unhcr, l’Agenzia Onu per i rifugiati. Il 70% di loro vive in condizioni di totale povertà, senza accesso al cibo, all’acqua e ai servizi basilari per la sopravvivenza. I soggetti più vulnerabili sono bambini e i ragazzi, il 45% dei rifugiati ha meno di 18 anni, 1.6 milioni di bambini rifugiati hanno meno di 10 anni, fra questi 1 milione è nato in esilio; un’intera generazione segnata che, oltre a soffrire la fame e il freddo, si vede spesso negato anche il diritto all’istruzione.

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Le condizioni di chi è rimasto in Siria

All’interno dei confini siriani, poi, i bisogni umanitari restano enormi: 6.7 milioni gli sfollati interni, metà dei quali sono lontani dalle loro case da più di 5 anni; oltre 13 milioni di persone hanno bisogno di assistenza umanitaria e protezione; 5.9 milioni di persone vivono in condizioni di emergenza abitativa. Drammatica anche la situazione sanitaria: soltanto il 58% degli ospedali e il 53% dei centri medici che svolgono servizi di base sono pienamente funzionanti. E comunque, quasi 9 siriani su 10 vivono sotto la soglia di povertà. Unhcr ribadisce l’urgenza di raccogliere fondi per i suoi interventi a sostegno dei rifugiati siriani. Nel 2020, abbiamo sostenuto quasi 800.000 persone in più attraverso l’assistenza economica diretta, per far fronte ai loro bisogni essenziali, ma serve un’azione decisiva, perché nel 2020 solo il 53% dei bisogni sono stati soddisfatti.

Dopo 10 anni di guerra in Siria circa 13 milioni di persone hanno bisogno di assistenza umanitaria. Edifici e infrastrutture civili, compresi gli ospedali, sono stati attaccati ancora nel 2020. Migliaia di persone sono state uccise o ferite e centinaia di migliaia costrette a lasciare le loro case, facendo conquistare alla Siria il triste primato di paese con la più grande popolazione di sfollati interni al mondo, oltre 6 milioni. Oggi la crisi economica e la pandemia stanno ulteriormente deteriorando la situazione. Medici Senza Frontiere (Msf) dallo scoppio del conflitto opera in Siria direttamente, supportando ospedali e fornendo assistenza nei campi profughi, o da remoto supportando i medici siriani con donazioni di farmaci e consulenze.

Scrive Camille Eid su Avvenire: “Dieci anni di guerra hanno messo in ginocchio un Paese un tempo protagonista principale sullo scacchiere mediorientale. L’unica “vittoria” ottenuta dal presidente Bashar al-Assad è forse quella di aver tenuto contro le voci che in questi dieci anni lo davano per spacciato, prossimo a capitolare. Lo scorso 22 febbraio, tra il padre Hafez e il figlio successore, gli Assad hanno così potuto celebrare mezzo secolo (1971-2021) di insediamento al vertice della Siria. Tradotto in numeri, significa che l’85 per cento dei 18 milioni di siriani, quelli di età inferiore ai 50 anni, non ha conosciuto altro presidente che Assad. Bashar ha vinto la «guerra internazionale» – come gli piace spesso definirla – contro il suo Paese rimanendo in sella. La prima «guerra per procura » moderna. 

Ha sconfitto – per modo di dire – anche il Covid-19, «contratto in modo lieve » insieme alla moglie Asma, e ora si prepara a correre per un nuovo mandato alle presidenziali del prossimo giugno (elezioni-farsa stravinte dal rais, ndr), beffandosi dell’ultima risoluzione del Parlamento Europeo che ha considerato tali elezioni prive «di qualsiasi credibilità agli occhi della comunità internazionale nel contesto attuale». Ma non è sicuro che Assad possa vincere la battaglia dell’unità della Siria, né quella per la ricostruzione. Oggi, le forze filo- governative controllano il 65 per cento del territorio nazionale, mentre è per il 25 per cento sotto il comando delle milizie curdo-arabe delle Forze siriane democratiche (Fsd) e per il 10 per cento sotto il controllo della Turchia oppure delle formazioni ribelli concentrate ormai nella sola provincia nordoccidentale di Idlib. 

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È inutile aggiungere che, in molte aree governative, sono i militari di Mosca o i miliziani reclutati da Teheran a dettare le regole del gioco, mentre in quelle controllate dalle opposizioni si moltiplicano le basi americane e le postazioni turche. Il destino della Siria, insomma, si decide ormai altrove, come dimostra il vertice che ha riunito giovedì a Doha i ministri degli Esteri di Russia, Turchia e Qatar. E con una sovranità ridotta, come indica il raid aereo compiuto dal nuovo presidente americano Biden nella parte orientale del Paese contro le milizie irachene filo-Teheran. In questo cupo quadro assumono un importante valore gli sforzi internazionali tesi a lottare contro l’impunità dei responsabili dei tanti orrori commessi in questi dieci anni. 

Un tribunale tedesco ha condannato, tre settimane fa, un colonnello dei servizi segreti siriani a quattro anni e sei mesi «per favoreggiamento di crimini contro l’umanità sotto forma di tortura e privazione della libertà». Una sentenza definita storica dagli attivisti per i diritti umani, che sperano crei un precedente per altri casi, anche ai livelli più alti, contro chi ha calpestato sistematicamente i diritti dei siriani”, conclude Eid. 

Mustafa, Massa, Farah, Mustafa, Mohammed. Le loro storie.

Massa e Farah sono tre giovanissimi che hanno vissuto la maggior parte o la totalità della propria vita sotto le bombe. Mustafa ha 9 anni e non hai mai conosciuto altro che la guerraaveva solo otto mesi di vita quando è dovuto fuggire da Raqqa assieme a tutta la famiglia per sfuggire ai bombardamenti. Ha trovato rifugio nel Kudistan iracheno, in un campo rifugiati vicino Erbil.

Sebbene non avesse ferite visibili, Mustafa manifestava una profonda sofferenza: i bombardamenti, la morte del fratellino e la fuga precipitosa hanno causato un grave trauma che si manifestava con pianti inarrestabili, isolamento, rifiuto del cibo e incubi.

Massa, invece, è nata e cresciuta ad Aleppo: aveva solo 3 anni quando è iniziato il conflitto e la sua vita è stata stravolta quando un’esplosione le ha causato un’emorragia cerebrale, che a sua volta ha generato una emiplegia di tutto il lato sinistro del corpo.

Farah è una mamma di 20 anni che ha vissuto metà della sua vita in un contesto di ristrettezze economiche imposto dalla guerra e dalle sanzioni che hanno causato sia a lei sia al suo bambino uno stato di malnutrizione acuta moderata.

A prendersi cura di loro, in questi mesi, sono stati gli operatori dell’Ong italiana Terre des Hommes, che era presente in Siria e nella regione da prima del conflitto.

Mohammed Zakaria vive in una tenda di plastica nella nella valle della Bekaa, nel Libano orientale, praticamente da quando è iniziata la guerra nella sua patria, la Siria. Lui e sua famiglia sono fuggiti dai bombardamenti nel 2012, pensando che sarebbero tornati presto. La sua città natale, Homs, era sotto assedio, vittima della feroce campagna militare siriana. Quando è scappato dalle bombe non ha nemmeno portato con sé la sua carta d’identità. Quasi 10 anni dopo, la famiglia non è ancora tornata indietro. Zakaria, che ora ha 53 anni, è tra i milioni di siriani che difficilmente, nel prossimo futuro, riusciranno a rivedere i propri luoghi di origine. Nel frattempo, le condizioni di vita da rifugiato si fanno sempre più dure. Zakaria e la sua famiglia infatti ora si trovano a dover lottare per sopravvivere in mezzo alla profonda crisi economica e sociale del Libano. “Siamo venuti con il presupposto che saremmo entrati e usciti”, racconta Zakaria a Associated Press, seduto fuori dalla sua tenda mentre i figli girano per il campo in pantofole logore. Ex facchino per una ditta di costruzioni di Homs, Zakaria lotta per provvedere alla sua famiglia, anche se questa continua a crescere anche in esilio. Ha due mogli e otto figli, di cui due nati in Libano. Uno dei suoi figli aveva solo un anno quando la famiglia è fuggita dalla Siria. Nel Paese dei cedri il lavoro è sempre più difficile da trovare a causa della crisi economica e l’assistenza sociale è scarsa e irregolare. Il crollo della valuta ha mandato l’inflazione e i prezzi alle stelle. Zakaria ora cerca di sbarcare il lunario vendendo bombole di gas bottiglie di gas usate per il riscaldamento ad altri rifugiati nel suo insediamento. Guadagna 1.000 sterline libanesi (circa 10 centesimi) per ogni bombola di gas che vende. Ma quest’inverno, i suoi vicini nel campo, che ospita circa 200 famiglie di rifugiati siriani, hanno potuto a malapena permettersi di comprare il gas per riscaldare le loro tende.  A causa della crisi economica senza precedenti, la moneta libanese ha perso oltre l’80 per cento del suo valore. “La vita è costosa qui”, racconta Zakaria, “È costoso anche per le medicine o i medici”. Quando sua moglie ha avuto bisogno di un’operazione urgente agli occhi, Zakaria ha fatto in modo che potesse rientrare di nascosto in Siria per farla lì. L’intervento sarebbe costato 22 milioni di sterline libanesi – poco meno di duemila euro.  Sono riusciti a farlo in Siria per 85.000 sterline libanesi, circa 700 euro. Zakaria è triste per i suoi tre figli più piccoli che non hanno ricordi della Siria e della loro casa a Homs. Non sono nemmeno andati a scuola, e non sanno leggere e scrivere. Secondo l’Unicef, quasi 750.000 bambini siriani sfollati nei Paesi vicini, compreso il Libano, sono senza scuola. “Tutti i nostri ricordi se ne sono andati ora”, si lamenta Zakaria, guardando i figli giocare per strada, “Ora abbiamo una nuova generazione di bambini di 10 anni che non conoscono nemmeno i nostri vicini” a casa. Molti siriani non possono tornare perché le loro case sono state distrutte nei combattimenti, o perché temono la coscrizione militare o la punizione da parte delle forze governative. Zakaria si aggrappa alla speranza di poter un giorno tornare a casa sua: “Se Dio vuole, moriremo nel nostro Paese. Tutti dovrebbero poter morire nel proprio Paese”. 

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Un Paese nobile, bellissimo, antico., fiero di sé e della propria storia millenaria.  La Siria. Un Paese che il “macellaio di Damasco” ha trasformato in un cimitero. 

 

 

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