In memoria di Mohammed Saeed Hamayel, un ragazzo di Palestina
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In memoria di Mohammed Saeed Hamayel, un ragazzo di Palestina

Aveva 15 anni ed è rimasto ucciso in scontri da militari israeliani nel villaggio di Beita, a Sud-Est di Nablus, in Cisgiordania

Mohammed Saeed Hamayel, 15 anni palestinese ucciso dai militari israeliani
Mohammed Saeed Hamayel, 15 anni palestinese ucciso dai militari israeliani
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Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

12 Giugno 2021 - 16.25


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Aveva 15 anni Mohammed Saeed Hamayel. Quindici anni e una vita davanti a sé. Una vita che è stata spezzata oggi, Mohammed Saeed Hamayel, quindicenne palestinese è rimasto ucciso in scontri da militari israeliani nel villaggio di Beita, a Sud-Est di Nablus, in Cisgiordania. Lo ha riportato l’agenzia di stampa palestinese Wafa, citando la Mezzaluna Rossa palestinese. Il ministero della Salute palestinese ha confermato il decesso dell’adolescente. Negli stessi scontri sono rimasti feriti altri sei palestinesi dopo che i militari hanno iniziato a sparare; tutti e sei sono stati ricoverati presso l’ospedale di Nablus mentre decine di altri protestanti sono stati intossicati dai lacrimogeni. Gli scontri sono scoppiati mentre i palestinesi protestavano contro la creazione del nuovo avamposto non autorizzato di Evyatar vicino  Nablus.

Cosa pensereste di un regime che permette di sparare ai bambini, che li rapisce nel sonno, che distrugge le loro scuole? E come può spacciarsi come “l’unica democrazia del Medio Oriente” quel Paese che permette di tenere un minorenne spogliato nudo, rinchiuso per 22 giorni in una cella umida e piena di topi. O che obbliga i bambini arrestati a stare per lunghi periodi in piedi, senza vestiti?

Questo Paese è Israele. Che ha dichiarato guerra ai bambini palestinesi.

Il racconto di un giornalista coraggioso

Per chi ha ancora dei dubbi, Globalist offre il reportage dell’icona del giornalismo israeliano, firma storica di Haaretz: Gideon Levy. Un reportage di un anno fa, ma che mantiene una stringente, tragica attualità. “La settimana scorsa – scrive – eravamo nel campo profughi di Al-Arroub, alla ricerca di uno spazio aperto in cui sedersi, per paura del coronavirus. Non ce n’era uno. In un campo in cui la casa tocca la casa, i cui vicoli sono larghi quanto un uomo e disseminati di spazzatura, non c’è nessun posto dove sedersi fuori. Si può solo sognare un giardino o una panchina, non c’è nemmeno un marciapiede. Qui è dove vive Basel al-Badawi. Un anno fa i soldati hanno sparato a suo fratello, davanti ai suoi occhi, senza motivo. Due settimane fa, Basil è stato strappato dal suo letto in una notte fredda e portato via, a piedi nudi, per essere interrogato. Ci siamo seduti nella casa angusta della sua famiglia e ci siamo resi conto che non c’era nessun “fuori” da cui andare. Mentre eravamo lì, i soldati israeliani hanno bloccato l’ingresso del campo, come fanno di tanto in tanto, in modo arbitrario, e il senso di soffocamento non ha fatto che crescere. Questo è il mondo di Basil e questa è la sua realtà. Ha 16 anni, un fratello in lutto, che è stato rapito dal suo letto nel buio della notte dai soldati. Non ha nessun posto dove andare, tranne la scuola, che è chiusa per una parte della settimana a causa di Covid-19. Basilea è libera ora, più fortunata di certi altri bambini e adolescenti. Circa 170 di loro sono attualmente detenuti in Israele. Altri bambini vengono fucilati dai soldati, feriti e talvolta uccisi, senza distinzione tra bambini e adulti – un palestinese è un palestinese – o tra una situazione di pericolo di vita e un ‘disturbo pubblico’.

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Venerdì hanno ucciso Ali Abu Alia, un ragazzo di 15 anni. È stato un colpo letale all’addome. Nessuno poteva rimanere indifferente alla vista del suo volto innocente nelle fotografie, e della sua ultima foto – in un sudario, con il volto esposto, gli occhi chiusi, mentre veniva portato alla sepoltura nel suo villaggio. Ali, come ogni settimana, andava con i suoi amici a manifestare contro gli avamposti selvaggi e violenti che spuntavano dall’insediamento di Kokhav Hashahar, impadronendosi della restante terra del suo villaggio, al-Mughayir. Non c’è niente di più giusto della lotta di questo villaggio, non c’è niente di più atroce dell’uso della forza letale contro i manifestanti e non c’è alcuna possibilità che sparare ad Ali nell’addome possa essere giustificato. In Israele, naturalmente, nessuno ha mostrato interesse nel fine settimana per la morte di un bambino, un altro bambino. Fino all’anno scolastico in corso, circa 50 bambini della comunità di pastori di Ras a-Tin hanno studiato nella scuola di al-Mughayir, il villaggio del ragazzo deceduto. Dovevano camminare per circa 15 chilometri al giorno, andata e ritorno, per partecipare. Quest’anno i loro genitori, con l’aiuto di un’organizzazione umanitaria della Commissione Europea con sede in Italia, hanno costruito per loro una scuola modesta e affascinante nel villaggio. L’amministrazione civile israeliana minaccia di demolirla, e nel frattempo tormenta gli alunni e gli insegnanti con visite a sorpresa per verificare se i servizi igienici sono stati, Dio non voglia, collegati a un tubo dell’acqua – in un villaggio che non è mai stato collegato alla rete elettrica o alla rete idrica. I bambini di Ras a-Tin devono aver conosciuto Ali, il loro ex compagno di classe, ora morto. I bambini non conoscevano Malek Issa, di Isawiyah, a Gerusalemme Est. Il bambino di 9 anni ha perso un occhio dopo essere stato colpito da un proiettile con la punta di spugna sparato da un agente di polizia israeliano. Giovedì il dipartimento del Ministero della Giustizia che esamina le accuse di cattiva condotta della polizia ha annunciato che nessuno sarebbe stato accusato della sparatoria, dopo 10 mesi di intense indagini. È bastato che i poliziotti coinvolti dichiarassero che erano state scagliate loro delle pietre, forse una di esse ha colpito il ragazzo. Ma nessun video mostra che siano state lanciate pietre, né ci sono altre prove di questo. Anche gli assassini di Ali possono dormire in pace: Nessuno li perseguirà. Tutto quello che hanno fatto è stato uccidere un bambino palestinese. Questi e molti altri incidenti si verificano in un periodo tra i più tranquilli della Cisgiordania. Questo è il terrore che si sta verificando, commesso dallo Stato. Quando sentiamo parlare di questi incidenti in dittature feroci – bambini che vengono strappati dal loro letto nel cuore della notte, un ragazzo a cui hanno sparato in un occhio, un altro a cui hanno sparato e ucciso – ci fa venire i brividi. Sparare ai dimostranti? Ai bambini? Dove accadono queste cose? Non in qualche terra lontana, ma a un’ora di macchina da casa tua; non in qualche oscuro regime, ma nell’unica democrazia. Cosa penserebbe di un regime che permette di sparare ai bambini, che li rapisce nel sonno e distrugge le loro scuole? Questo è esattamente ciò che si deve pensare del regime qui nel nostro Paese”.

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La denuncia di Save the Children

160 bambini palestinesi stanno vivendo una situazione drammatica, si trovano in prigione in attesa di interrogatorio. Soli, inascoltati, esposti ad enormi rischi a cui ora si aggiunge anche il coronavirus – documenta Save The Children in un recente Rapporto -Ancora oggi circa 500-700 bambini Palestinesi della Cisgiordania vengono processati e detenuti secondo la legge militare israeliana, ogni anno. Sono gli unici bambini al mondo ad essere sistematicamente processati da tribunali militari, con processi iniqui, arresti violenti, spesso notturni e interrogatori coercitivi. L’accusa più comune è il lancio di pietre, per cui si può arrivare ad una pena di 20 anni. 
In prigione sono sottoposti ad abusi emotivi e fisici, l’assistenza sanitaria e il sostegno psicosociale sono per loro molto limitati e con l’emergenza coronavirus la loro situazione si è ulteriormente aggravata. Al momento, quasi 160 bambini si trovano nelle carceri militari israeliane, in attesa di processo o condanna. 
Da marzo 2020, con l’inizio della pandemia, a questi bambini è impedito di ricevere visite dai propri genitori e parenti. Non possono neanche incontrare i loro avvocati e quindi anche il supporto legale è minimo.

Questa situazione crea ulteriori difficoltà e sofferenze per i bambini e li rende vulnerabili a possibili violazioni, inclusa la pressione ad autoincriminarsi. Senza dimenticare il concreto rischio di contrarre il Covid19 a causa della mancanza di spazio nelle celle e dell’accesso minimo che hanno ai servizi igienici.
Il coronavirus infatti ha già raggiunto le carceri israeliane dove sono detenuti i bambini, dove sono stati registrati diversi casi.

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Abusati, le testimonianze

Ala è stato arrestato mentre andava a scuola durante degli scontri. Colpito da proiettili di gomma e ferito al piede e alla testa ha subito prima un interrogatorio di 5 giorni e solo dopo è stato visitato da un medico. Dopo aver trascorso alcuni giorni in ospedale per le ferite riportate è stato trasferito in prigione. Ha dovuto dividere una cella di circa 20 metri quadri con altri 9 ragazzi, alcuni anche molto più piccoli di lui. La paura del Coronavirus era tanta e i ragazzi provavano a mantenere pulito questo spazio angusto in cui erano costretti, ma senza disinfettanti e con le guardie che entravano continuamente nelle celle, spesso con i cani, era praticamente impossibile. Ora Ala è stato per fortuna rilasciato ma teme fortemente per gli altri ragazzi che sono ancora in carcere. Lui ha vissuto fino a poco temo fa in quella situazione e sa che il pericolo di ammalarsi è reale.

Un altro minore (Ubay Mohammad Odeh, minore dei territori occupati di Gerusalemme) è stato arrestato mentre andava a scuola con taxi, è stato fermato per un controllo di documenti. I soldati gli hanno detto che la carta di identità non andava bene, e lo hanno portato via coprendogli la testa con un cappuccio, in un campo di detenzione. É stato spogliato nudo e messo in isolamento, dopo essere stato interrogato, nella sezione degli adulti. È rimasto così per 22 gg. in una cella umida e piena di topi. Durante i trasferimenti per gli interrogatori ha subito continue aggressioni da parte dei militari che lo accusavano di avere picchiato un giudice. 
Abdul-Salam Abu Al-Hayjah (16 anni del campo profughi di Jenin) è stato esposto a gravi torture, per costringerlo a dire dove è nascosto suo padre. Nel suo interrogatorio hanno minacciato di uccidere il padre e di deportare la sua famiglia. É obbligato a stare per lunghi periodi in piedi, senza vestiti. Gli è impedito di fare una doccia, e chi lo interroga lominaccia che non rivedrà più la luce del sole finchè non avrà dato tutte le informazioni che gli sono richieste. 
Altri minori hanno denunciato una guardia che aveva tentato in più occasioni di violentare qualcuno di loro. La guardia è stata arrestata e condannata a tre anni di prigione. I minori, sono stati brutalmente percossi mentre venivano portati dalla prigione al Tribunale, e si trovavano nelle mani delle guardie. 

In memoria di Mohammed Saeed Hamayel, un ragazzo di Palestina. 

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