Shlomo Avineri: "Nel dna dell'ebraismo le barriere contro la tirannia. Ma con Netanyahu..."
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Shlomo Avineri: "Nel dna dell'ebraismo le barriere contro la tirannia. Ma con Netanyahu..."

Parla il membro dell’Accademia israeliana delle scienze e delle discipline umanistiche. Un suo articolo su Haaretz affronta un tema scottante: l’ebraismo e la “questione israeliana”.

Shlomo Avineri
Shlomo Avineri
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Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

27 Giugno 2021 - 16.48


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E’ il decano dei politologi israeliani. Un’autorità assoluta nel campo della scienza della politica. Profesoore di Scienze politiche all’Università ebraica di Gerusalemme, Shlomo Avineri è membro dell’Accademia israeliana delle scienze e delle discipline umanistiche.

Un suo articolo su Haaretz affronta un tema scottante: l’ebraismo e la “questione israeliana”.

“l governo è recentemente passato di mano, nonostante i seri timori e i vani tentativi di silurarlo all’ultimo momento – annota il professor Avineri –  Questo risultato per il processo democratico è stato attribuito a varie cause: le dimostrazioni in corso, vari tipi di opposizione, un sistema giudiziario indipendente, un media critico e talvolta aggressivo, elezioni ripetute che non hanno prodotto un chiaro vincitore, il processo all’ex primo ministro Benjamin Netanyahu. Tutto questo si è riunito in una massa critica. Eppure vale la pena soffermarsi per un momento non solo su queste cause prossime, ma sui fondamenti più profondi della cultura politica di Israele. E in questo contesto, vale la pena sottolineare diversi aspetti che non appaiono nelle analisi standard, che si concentrano sulle cause prossime. La maggior parte degli israeliani non è consapevole del fatto che anche prima di avere uno stato e una sovranità, gli ebrei in esilio hanno sviluppato, nel corso dei secoli, una cultura politica unica, radicata non in testi normativi (la Bibbia, la Mishna e il Talmud), ma nella concreta realtà sociale della vita ebraica. Questa cultura includeva una tradizione comunitaria che era essenzialmente volontaria, e il meccanismo per farla funzionare erano le elezioni. Quando gli ebrei cercavano di mantenere la vita ebraica come la intendevano in esilio, erano costretti a farlo sulla base di associazioni volontarie. Se volevano, per esempio, fondare una sinagoga o educare i loro figli, non avevano un proprio stato o istituzioni religiose centralizzate che potessero fornire tali servizi. Pertanto, l’unica opzione era quella di organizzarsi da soli, di loro spontanea volontà. Per fare ciò, eleggevano istituzioni e stabilivano regole per le elezioni e le tasse comunitarie. Ogni comunità stabiliva le proprie regole – chi aveva il diritto di votare o di candidarsi, come sarebbero state riscosse le tasse comunitarie per mantenere queste istituzioni e chi avrebbe rappresentato la comunità nei rapporti con il governo. Contrariamente a quanto molti pensano, queste comunità non erano guidate da rabbini, ma da leader comunitari eletti. Mancando un organismo pan-ebraico con autorità vincolante dalla distruzione del Tempio nel 70 d.C., ogni comunità determinava i propri statuti e le proprie regole. Alcune comunità erano più egualitarie e altre più oligarchiche, ma in entrambi i casi si basavano su decisioni ed elezioni comunitarie. Il paradosso è che mentre le società circostanti erano governate da sultani, re e imperatori, la comunità ebraica – nonostante la sua mancanza di statualità e sovranità – era governata dai suoi stessi membri. Come notato, i rabbini non erano leader della comunità, ma funzionari assunti nominati dalla comunità per servire come arbitri e insegnanti halakhici. Questo dava loro un certo grado di status e potere, ma il controllo interno era nelle mani dei leader della comunità.

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L’istituzione dei leader rabbinici nel movimento chassidico, in cui la posizione è ereditata, è uno sviluppo completamente moderno che è emerso solo nel XVIII secolo. E contraddiceva la tradizione comunitaria basata sulla rappresentanza e sulle elezioni che durava da molte generazioni. Con il tempo, si svilupparono anche istituzioni regionali, come un consiglio che copriva le quattro terre che comprendevano il regno polacco (che esisteva dal XVI secolo fino al XVIII). Questo consiglio si occupava di questioni ebraiche che riguardavano tutti gli ebrei del regno e si riuniva una volta all’anno in una grande fiera a Lublino. Non è un caso che nelle fonti polacche sia chiamato con il nome latino Senatus Iudaicus (Senato ebraico). I documenti comunitari rivelano che ci sono state lotte di potere, a volte battaglie ideologiche di principio e a volte piccole battaglie personali. Questa è la natura di un governo eletto.

È chiaro che nelle elezioni per le istituzioni comunitarie, i ricchi godevano di un vantaggio. Ma anche i membri del Parlamento britannico non provenivano dalle file dei poveri fino al XX secolo. Allo stesso modo, negli Stati Uniti, George Washington e Thomas Jefferson erano ricchi.

In questo senso, la comunità ebraica era analoga alla polis greca o alle colonie britanniche autogestite in Nord America. Essere ebrei era prima di tutto essere membri di una comunità. Gli ebrei entrarono nel mondo moderno con una tradizione di rappresentanza e di processi elettorali. Queste elezioni ovviamente non erano democratiche nel senso che tutti avevano il diritto di voto, ma infondevano la consapevolezza che la rappresentanza e le elezioni erano bisogni legittimi.

Questa tradizione ha accompagnato la vita ebraica anche nell’era moderna, dopo l’emancipazione. Una delle prime cose che il Primo Congresso Sionista decise nel 1897 fu di eleggere la sua direzione e determinare le procedure elettorali. Le istituzioni create dai primi immigrati nell’Israele pre-statale per i loro moshavim, kibbutzim e città, e più tardi per l’intera comunità ebraica locale, erano istituzioni elettive. La cultura politica ebraica era basata sulle elezioni e sulla rappresentanza – non perché questo fosse ciò che Dio comandava, ma perché è così che l’identità ebraica si formava nel purgatorio della vita e delle sue sfide.

Chiunque osservi i paesi che sono degenerati in vari tipi di autoritarismo – come la Turchia, la Polonia e l’Ungheria, per non parlare della Russia – scoprirà che la ragione principale di questa degenerazione è che la loro storia manca di qualsiasi tradizione effettiva di rappresentanza ed elezioni. Questo è anche il motivo per cui la Cecoslovacchia, che aveva una tradizione di rappresentanza, è una storia diversa.

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La mancanza di qualsiasi tradizione di rappresentanza o di elezioni rende analogamente più difficile per le società arabe sviluppare sistemi di governo democratici stabili ed efficaci basati sulla competizione tra avversari piuttosto che nemici. Questi fondamenti a volte impediscono il governo, ma senza dubbio impediscono anche la tirannia e un controllo monopolistico sui centri di potere – non solo perché questo è ciò che detta la legge, ma perché questo comportamento è profondamente radicato nella coscienza degli israeliani. Questo è il motivo per cui il comportamento apparentemente monarchico che a volte ha caratterizzato il governo di Netanyahu ha indignato così tanti israeliani, compresi i membri del suo stesso partito Likud e di altre destre. Proprio come il pluralismo religioso e una molteplicità di sinagoghe hanno caratterizzato la vita religiosa e comunitaria degli ebrei per generazioni – persino il movimento chassidico non è stato in grado di trovare un unico leader rabbinico accettabile per tutte le sue sette – il pluralismo politico, le elezioni e una molteplicità di partiti hanno caratterizzato la vita ebraica moderna sia nel movimento sionista che nello Stato di Israele. Queste sono le barriere alla tirannia e alla dittatura nel DNA politico ebraico.

Per ragioni simili, nessun dittatore è mai salito al potere nei paesi con la tradizione anglosassone di autogoverno, sia che abbiano una costituzione scritta come gli Stati Uniti o nessuna costituzione scritta come la Gran Bretagna. Sia lì che qui, questo comportamento deriva da una cultura politica con profonde radici nella società, piuttosto che dall’importazione di principi astratti dall’estero.

Il pericolo è scomparso ora che il governo è cambiato? Certamente no. La scena vergognosa alla Knesset quando Naftali Bennett ha tenuto il suo discorso inaugurale come primo ministro, insieme a diverse mosse e dichiarazioni di destra da quando il nuovo governo è stato formato, attesta tendenze che contraddicono questa storica cultura politica ebraica e potrebbero rivelarsi pericolose.

Di conseguenza, dobbiamo sperare che il pluralismo tradizionale e l’antiautoritarismo così radicati nella nostra società continuino ad accompagnare lo stato ebraico anche in futuro”, conclude Avineri.

La “Questione israeliana”

Un tema a cui Limes, la rivista italiana di geopolitica, ha dedicato il numero attualmente in edicola e nelle librerie.

“La Questione israeliana -, spiega Lucio Caracciolo che di Limes è il fondatore e direttore – consiste nella divisione interna alla società israeliana nel suo complesso, che è stata autorevolmente messa in rilievo nel giugno 2015 dal presidente Reuven Rivlin con un discorso in cui ha rimarcato il pericolo che in Israele si cristallizzino 4 tribù, così le ha chiamate: gli ultraortodossi, o haredim; i nazional religiosi; gli arabi israeliani, o arabi in Israele come sarebbe più corretto definirli e la parte, ancora maggioritaria, laica, secolare. Il problema di fondo è che questi 4 gruppi hanno 4 sistemi di formazione, 4 sistemi scolastici che in particolare nell’educazione primaria determinano poi il rapporto con il Paese, che è un rapporto diverso. Nelle scuole haredim, per esempio, non si studia inglese, non si studia matematica, si studia un improbabile ebraico e, soprattutto, si sa che non si è costretti a fare il servizio militare, cosa che vale anche per gli arabi. Allora, un Paese che cresce lungo 4 pedagogie nazionali difficilmente può produrre una nazione coesa. E questo lo si è visto in maniera abbastanza plastica negli scontri di maggio nelle cosiddette città miste e a Gerusalemme. Colto con la guardia bassa dalla ribellione dei suoi arabi, lo Stato ebraico vede incrinarsi lo status quo. Scopre che il male capace di ucciderlo non viene da fuori. Ce l’ha dentro. D’altro canto, lo Stato ebraico ha fatto della lotta permanente per vivere il suo marchio identitario. Ma senza comune base patriottica l’orizzonte è oscuro. Condizione minima del patriottismo è una pedagogia nazionale. Quattro pedagogie tribali producono quattro sub-nazioni”. 

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Pericolo interno

Israele  – rimarca ancora Caracciolo – paga l’illusione di aver disinnescato la bomba araba all’interno come ha congelato quella dei Territori. Gli arabi interni, dei quali molti preferiscono definirsi palestinesi o arabi in Israele – specificando la residenza, non l’appartenenza – sono potenzialmente più pericolosi dei “fratelli” d’Oltremuro. Perché Israele li ha in casa. Nessuna barriera di separazione può proteggere gli ebrei dagli aggressori dell’appartamento accanto, a meno di non voler sezionare Israele in stile cisgiordano”. 

Chiediamo al direttore di Limes se la formazione del governo Bennett-Lapid che ha defenestrato Netanyahu può definirsi una svolta storica nella vita politica, e non solo, d’Israele. “Si può parlare probabilmente, perché con Netanyahu non si sa mai, della fine di un’epoca, non dell’inizio di una nuova – dice Caracciolo -.  D’altronde una coalizione così eterogenea non si è mai vista non solo nella storia d’Israele ma penso anche nella storia delle democrazie mondiali: dall’estrema sinistra all’estrema destra, mancano solamente la grande maggioranza del Likud che è rimasta con Netanyahu e i partiti haredim. Malgrado ciò, il governo Bennett-Lapid non ha una maggioranza. Ha 60 voti su 120. Si è salvato in qualche modo grazie all’astensione di un deputato arabo israeliano Ra’am. Credo che poi all’atto pratico, una volta realizzato il suo programma, cioè far fuori ‘Bibi’, bisognerà vedere cosa concretamente potrà fare”.

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