Salvini perde chili ma non il vizio di "sparare" sui migranti: dall'invasione all'Italia campo profughi a cielo aperto
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Salvini perde chili ma non il vizio di "sparare" sui migranti: dall'invasione all'Italia campo profughi a cielo aperto

Il leader della Lega, partito che è nel governo Draghi, torna su uno degli argomenti a lui più cari: l’”invasione” dei migranti. In Italia entra chi ha il permesso di entrare, per quello che mi riguarda.

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Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

6 Luglio 2021 - 14.36


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Il “lupo” perde chili (dice di essere a dieta) ma non il vizio. Il “lupo” (umano) in questione è Matteo Salvini. Il leader della Lega, partito che è nel governo Draghi, torna su uno degli argomenti a lui più cari: l’”invasione” dei migranti. In Italia entra chi ha il permesso di entrare, per quello che mi riguarda. L’Italia non può essere il campo profughi dell’Europa.

“Accogliere uomini e donne in fuga dalla guerra è un dovere sacrosanto, fare sbarcare 20 mila persone in poco tempo, come sta accadendo in Italia da qualche tempo, nel dopo Covid non è giusto nei confronti loro, non è giusto nei confronti degli italiani”. Così Salvini, nel pomeriggio, di ieri, nella tappa dell’Aquila del suo tour in Abruzzo per promuovere il referendum sulla giustizia, rispondendo ai giornalisti sulle dichiarazioni del Capo dello Stato, Sergio Matteralla, in relazione alla questione migranti. 
 Salvini ha incontrato i giornalisti prima di tenere un comizio nel centro storico. “Ogni sbarco è un regalo agli scafisti – ha aggiunto – quindi sono d’accordo con il presidente Mattarella quando dice che bisogna aiutare il continente africano, aiutare i suoi figli a non scappare, però non è possibile che l’Italia diventi un campo profughi a cielo aperto”. 

Ora la metafora è “un campo profughi a cielo aperto”. A cui si aggiunge: “Ogni sbarco è un regalo ai scafisti”. Mentre, per l’ex ministro degli Interni, non sarebbero un “regalo” i milioni di euro che l’Italia elargisce alla cosiddetta Guardia costiera libica per il lavoro sporco dei respingimenti in mare.

Chi parte dalla Libia

Quanto all’Africa, al leader leghista offriamo materiale di studio. A partire da un documentato report di Mauro Indelicato e Sofia Dinolfo su Insideover: “La Libia rappresenta quest’anno per l’Italia l’emblema del fenomeno migratorio. Da qui sono partiti e continuano a partire diverse migliaia di migranti mettendo in crisi il sistema d’accoglienza del governo di Roma. Ma chi parte dalla Libia? Da una lettura superficiale delle notizie, si potrebbe pensare a viaggi della speranza intrapresi da cittadini libici. Invece non è proprio cosi. Anzi, è tutto il contrario. La Libia non rappresenta altro che il punto di arrivo di tutte quelle persone provenienti dall’Africa subsahariana che vogliono poi proseguire verso le coste meridionali dell’Italia. In primis quelle lampedusane. E qui si arriva a toccare l’altra novità di questa stagione migratoria. Non solo infatti è cambiata la rotta di riferimento, ma sono emersi mutamenti anche in riferimento ai Paesi di origine delle persone che premono per entrare in Libia.

Quest’anno infatti emergono in modo preponderante nazioni come la Costa d’Avorio e la Guinea. In entrambi i casi l’aumento dei flussi migratori è sospetto e preoccupante. Basti pensare che, nella classifica stilata dal Viminale riguardante i Paesi da cui arrivano più migranti verso le nostre coste, la Guinea ad esempio si piazza al quinto posto con 911 migranti. Una nazione questa della quale negli anni precedenti, in relazione all’immigrazione, non si è mai sentito parlare. Nello stesso periodo dello scorso anno da qui sono arrivati poco più di 200 e nella stessa fase del 2019 solo 36. Cosa sta accadendo in questi Paesi?

L’impennata di arrivi dalla Costa d’Avorio

Quando nel 1960 la Costa d’Avorio è diventata indipendente dalla Francia, nell’ambito del processo di decolonizzazione portato avanti nel continente africano, il suo fondatore Félix Houphouët-Boigny si è ritrovato davanti a un dilemma: c’erano molte terre incolte e poca manodopera. La soluzione adottata è stata molto semplice: aprire il Paese agli stranieri. Nel giro di appena un decennio la Costa d’Avorio ha iniziato ad essere popolata da cittadini provenienti dalle nazioni vicine. Il Paese si è trasformato in un territorio soggetto all’immigrazione e non all’emigrazione. Oggi il quadro si è ribaltato.  Dal 2002 le tensioni interne, sfociate più volte in una latente guerra civile, hanno fatto sprofondare la Costa d’Avorio in un baratro sociale ed economico da cui sempre più persone provano a scappare.

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I dati che riguardano l’emigrazione ivoriana verso l’Italia appaiono eloquenti. Nel 2018 nel nostro Paese sono arrivati, come segnalato dal Viminale, 1.064 cittadini della Costa d’Avorio, nel 2019 ne sono sbarcati 1.139, mentre sono stati 1.950 i migranti arrivati nel 2020. Una crescita costante confermata anche nell’anno in corso: al 27 maggio 2021, sempre secondo il ministero dell’Interno, sono già 1.379 gli ivoriani giunti lungo le nostre coste tramite la Libia. Buona parte di loro percorre la rotta migratoria dell’Africa centrale: ‘Spesso – ha spiegato su InsideOver una fonte dell’Oim attiva in Costa d’Avorio – le persone che vogliono andare in Europa raggiungono con normali mezzi di linea il Niger, poi si aggregano alle carovane che risalgono il Sahara”.

L’ulteriore impennata già ben ravvisabile in questo 2021 non dovrebbe essere figlia di nuovi sconvolgimenti interni al Paese. Le ultime elezioni presidenziali tenute nell’ottobre scorso hanno sì creato nuove tensioni ma, al contempo, non hanno peggiorato la già grave situazione economica: “Molto probabilmente – ha sottolineato ancora la fonte dell’Oim – l’emigrazione dalla Costa d’Avorio è un fatto oramai da considerarsi contingentale e consolidato”.

L’enigma della Guinea

Il numero di ivoriani approdati nel 2021 ha stupito fino ad oggi per l’incremento ma, di per sé, non ha rappresentato una vera sorpresa. Discorso diverso vale invece per la Guinea. Nella graduatoria del Viminale dove vengono elencate le nazioni di origine dei flussi migratori diretti lungo le nostre coste, la Guinea al momento è al quinto posto, subito dietro a Bangladesh, Tunisia, Costa d’Avorio ed Eritrea: “Stiamo notando – confermano dal Viminale – un incredibile aumento di guineani tra i migranti, negli altri anni le cifre erano ben diverse e quasi esigue”. Difficile capire i motivi dietro questo imprevedibile fenomeno. Il 2020 è stato un anno difficile per il Paese e non solo per il coronavirus. Le elezioni presidenziali tenute in ottobre hanno acuito le tensioni  per via delle proteste contro l’attuale presidente Alpha Condé, tuttavia non si è registrata una degenerazione della situazione tale da giustificare l’impennata delle partenze verso l’Italia. A febbraio in Guinea ha fatto nuovamente la sua comparsa l’epidemia di ebola,dopo cinque anni dagli ultimi casi di contagio. Il focolaio però, secondo le ultime indicazioni dell’Oms, dovrebbe essersi già ridimensionato e non costituirebbe un grande pericolo. Le preoccupazioni però non mancano, unito alla certezza che, da qui ai prossimi mesi, occorrerà monitorare molto il fronte guineano”.

Fin qui il report di Insideover.

La rotta tunisina

Ma Globalist è generoso e al prode, si fa per dire, Matteo mette a disposizione altro materiale relativo alla Tunisia. Paese con cui l’allora vice presidente del Consiglio e titolare del Viminale, aveva portato l’Italia a un passo dalla crisi diplomatico quando, in visita in Sicilia – era il 3 giugno 2018 – se ne uscì sostenendo che “la Tunisia è un Paese libero e democratico che non sta esportando gentiluomini ma spesso e volentieri esporta galeotti”.  Il tutto mentre si ripeteva  il dramma dei naufragi nel Mediterraneo con 9 morti, fra cui sei bambini, nel Mar Egeo, e 47 cadaveri ripescati 

, e 47 cadaveri ripescati proprio nelle acque della Tunisia.  “Parlerò con il mio omologo tunisino, non mi sembra che in Tunisia ci siano guerre, pestilenze o carestie”, spiega dopo la visita all’hotspot di Pozzallo.

Arrivano nelle aree di Porto Empedocle, Sciacca, Licata, nell’Agrigentino, su barconi di legno di 10-12 metri, che spesso vengono anche abbandonati. In alcuni casi gli occupanti delle imbarcazioni riescono a scendere e far perdere le loro tracce, in altri gli uomini della Guardia di Finanza o della Capitaneria di porto li hanno individuati.  Più a ovest, verso Trapani o Mazzara, gli immigrati sbarcano, invece, da gommoni che portano dalle 20 alle 40 persone alla volta. In alcuni casi, assieme agli esseri umani, sono stati recuperati anche carichi di sigarette o stupefacenti. 

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E’ la rotta tunisina, che attraversa il confine tra Tunisia e Libia. A confermarlo è Reem Bouarrouj, responsabile immigrazione di Ftdes (il Forum des Droits Economiques et Sociaux ): “Tra gli immigrati in Libia – dice – sta iniziando a circolare la voce. Sanno che la Guardia Costiera e le milizie impediscono le partenze dalla costa e così puntano alla Tunisia”. Nell’area di confine tra Libia e Tunisia vige, ormai da tempo, un patto d’azione tra trafficanti di esseri umani e miliziani dell’Isis che, in rotta da Siria e Iraq, hanno fatto di quest’area frontaliera la trincea avanzata dello Stato islamico nel Nord Africa.

Annota Paolo Howard ,in un documentato report su Affari Italiani: “Considerare la rotta tunisina quale mera alternativa a quella libica appare riduttivo. Sono i migranti tunisini a imbarcarsi dai porti di Sfax e Kerkenna, raramente gli stranieri…I protagonisti della rotta restano i giovani tunisini che, stretti nella morsa di una economia impoverita e di un clima politico asfissiante, fuggono a bordo dei social media prima ancora che delle imbarcazioni di fortuna”.

A Sud, le nostre frontiere esterne sono composte da Paesi che non sono solo più di transito, per migranti e rifugiati, ma di origine. E’ il caso, per l’appunto, della Tunisia. Sono i migranti tunisini a imbarcarsi dai porti di Sfax e Kerkenna, raramente gli stranieri (secondo il Forum tunisino dei diritti economici e sociali, tra il 2011 e il 2016 il 74,6% delle persone che hanno lasciato il Parse sono cittadini tunisini). Sebbene negli ultimi mesi il flusso di migranti sub sahariani lungo il confine tunisino-libico sia cresciuto (migranti che vengono in Tunisia per trovare lavoro e raccogliere i soldi per pagare i passeur), ad oggi i protagonisti della rotta restano i giovani tunisini che, stretti nella morsa di una economia impoverita e di un clima politico asfissiante, fuggono a bordo dei social media prima ancora che delle imbarcazioni di fortuna.

Parlano i Nobel tunisini

La grande maggioranza del popolo tunisino – dice a Globalist Abdessatar Ben Moussa, avvocato, presidente della Lega per i diritti umani, uno dei membri del Quartetto per il dialogo nazionale tunisino, insignito, nel 2015, del Premio Nobel per la Pace – sostiene il processo democratico. Si tratta di un patrimonio di credibilità che non va disperso. Ma i rischi sono tanti, legati soprattutto alla situazione socio-economica. La difesa dei diritti umani è importante ma lo è altrettanto il rafforzamento dei diritti sociali. La democrazia si rafforza se si coniuga alla crescita economica, alla giustizia sociale, a realizzare prospettive di lavoro per i giovani. Non è un caso che i terroristi dell’Isis abbiano puntato a colpire il turismo, una delle fonti di entrata più importanti per la Tunisia.  Oggi i terroristi reclutano giovani emarginati non offrendo loro il miraggio del “Califfato ma un salario per combattere la Jihad. Per questo è fondamentale che l’Europa investa nella cooperazione con la Tunisia e più in generale con i Paesi della sponda Sud del Mediterraneo. Per l’Europa non sarebbe un atto di generosità ma un investimento a rendere sul piano della stabilità e della sicurezza. Un investimento sul futuro”.

I “gelsomini” non bastano per sfamare un popolo. I diritti non si mangiano. Una “rivoluzione” non si consolida se non riesce a dare un tetto, un lavoro, un futuro ad un popolo giovane. A dieci anni dalla revolution yasmine, la Tunisia si riscopre inquieta, pervasa da un malessere sociale che investe tutti i settori della popolazione. Diplomati, laureati, professionisti: la protesta parte da lì. E dai ragazzi: un popolo sotto i 35 anni che si trova governato da una classe politica di ottuagenari.  La loro è anche una rivolta generazionale.

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“Quello compiuto in questi dieci anni – rimarca Houcine Abassi, già Segretario generale dell’Ugtt (Union générale tunisienne du travail)  anche lui Premio Nobel per la Pace nel 2015 come membro del Quartetto per il dialogo – non è stato un percorso lineare, la transizione democratica è ancora in atto e non potrà dirsi conclusa se non affronta la grande questione che resta irrisolta ed anzi tende ad aggravarsi”. E quella “grande questione si chiama malessere sociale. L’ex capo del sindacato tunisino ne è assolutamente convinto: “La libertà – sostiene – non può dirsi realizzata se non hai un lavoro, se i giovani non possono costruire il loro futuro, avere una casa, diventare autonomi. In Tunisia, la rivoluzione del 2011 ha abbattuto un regime corrotto, la transizione ha consolidato le istituzioni, abbiamo una Costituzione tra le più avanzate in questa parte di mondo, ma non basta, non può bastare. Perché sul piano sociale il bilancio è negativo: il tasso di disoccupazione è aumentato del 15% a livello nazionale e raggiunto il 25% nelle regioni interne. Quello tunisino è un popolo giovane, e se ai giovani non dai una prospettiva concreta di realizzazione, il futuro è a rischio”. 

Tutto ciò avviene in un periodo caratterizzato dalla pandemia che, a differenza di molti alti Stati africani, ha visto la Tunisia duramente colpita. Secondo un rapporto del Fondo Monetario Internazionale (Fmi) “l’emergenza legata al Covid-19 sta esacerbando le fragilità socio-economiche della Tunisia e sta conducendo verso una crisi economica senza precedenti”.  Il capo della missione dell’FmI Chris Geiregat, come riportato da Agenzia Nova, ha dichiarato che “il futuro economico della Tunisia dipenderà dallo sviluppo e dall’adozione di un ambizioso piano di riforme”. 

Questo è l’auspicio. Ma la realtà, ad oggi, è tutt’altra cosa. “Mi sento morto. Il mio paese non mi rispetta, non ho più alcuna speranza. L’unica speranza che ho è partire.” Intervistato nel centro di Tunisi da un’emittente televisiva, così racconta con spaventosa fermezza un giovane che si appresta la notte stessa ad attraversare il mare con un gruppo di amici. 

I fattori che spingono le persone a intraprendere un viaggio pericolosissimo si sono moltiplicati a seguito della pandemia, secondo Romdhane Ben Amor, responsabile comunicazione presso il Ftdes. È interessante notare il mutamento del fenomeno: non solo giovani uomini, ma sempre più donne e famiglie decidono di intraprendere il progetto migratorio alla ricerca di una vita migliore in Europa. “Oltre ai fattori socio-economici, la scintilla che ha scatenato quest’ultima ondata migratoria è da ricercarsi nella crisi politica che si protrae da febbraio. Un altro elemento è la rete di trafficanti dietro al quale si cela un’intera economia sotterranea — dalla logistica alla concezione delle imbarcazioni — che sta iniziando ad emergere nelle regioni, in particolare nelle regioni costiere.”

Chi decide di migrare oggi ha maggiori informazioni riguardo ai diritti che tutelano i migranti. “La famiglia era il primo ostacolo per il progetto migratorio dei giovani. Ma questa resistenza comincia a diminuire in quanto i genitori, esasperati dalla loro condizione, si rendono conto che il percorso educativo dei loro figli non garantisce più la riuscita della famiglia e la possibilità di migliorare la loro condizione sociale. Le famiglie cominciano allora a investire in questo progetto, considerando la garanzia di non rimpatrio dei figli minori, o l’assistenza che i familiari con problemi sanitari e handicap possono ricevere.”

Buona lettura,  onorevole Salvini. 

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