Hanan Ashrawi: "Non lottiamo contro l'apartheid israeliano per veder nascere una dittatura"
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Hanan Ashrawi: "Non lottiamo contro l'apartheid israeliano per veder nascere una dittatura"

L'ex ministra dell’Autorità nazionale palestinese commenta gli eventi che in queste settimane stanno segnando la Cisgiordania.

Hanan Ashrawi
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Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

10 Luglio 2021 - 16.55


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“Non stiamo lottando contro l’occupante israeliano per vedere poi nascere un regime dittatoriale”. Così Hanan Ashrawi, più volte ministra dell’Autorità nazionale palestinese (Anp), già membro del comitato esecutivodell’Olp, paladina dei diritti umani nei Territori, ebbe a dire a chi scrive in una delle tante conversazioni avute in oltre vent’anni di conoscenza. Una considerazione, quella di Ashrawi, che acquista attualità e drammaticità alla luce degli eventi che in queste settimane stanno segnando la Cisgiordania.

Autocrazia al potere

A darne conto è anche uno dei più autorevoli analisti israeliani, firma storica di Haaretz: Amos Harel.

“La morte di un oppositore del regime nella prigione dell’Autorità nazionale palestinese a Hebron, circa due settimane fa – scrive Harel – ,è passata sotto il radar della maggior parte dei media israeliani. Nizar Banat, un uomo molto critico nei confronti del governo del presidente dell’Anp, Mahmoud Abbas (Abu Mazen), è stato portato dentro il 24 giugno per quello che si è rivelato un violento interrogatorio da parte delle autorità di sicurezza ed è morto sotto arresto poche ore dopo. Da allora, le proteste sono scoppiate in tutta la Cisgiordania.

Anche se le proteste non rappresentano un pericolo immediato per il regime, l’incidente e la furia che ne è seguita testimoniano l’entità della frustrazione del pubblico cisgiordano nei confronti di Abu Mazen, che è rimasto aggrappato alla sua posizione per 17 anni e si è presentato alle elezioni per l’ultima volta nel 2006. (La sua decisione di cancellare le elezioni parlamentari previste ha accelerato il conflitto tra Israele e Hamas nella Striscia di Gaza circa due mesi fa).

L’anziano leader – ha 85 anni – ha mandato le sue forze di sicurezza a disperdere brutalmente le manifestazioni. A Ramallah, vedono tale comportamento prepotente come un’ulteriore prova di un regime marcio di stagnazione e corruzione. Gli ultimi sondaggi d’opinione mostrano che Abbas è il leader meno popolare nei Territori; la soddisfazione per il suo operato è scesa sotto il 10% tra gli intervistati. Sullo sfondo, i suoi soci si stanno preparando per una battaglia di successione, e Hamas sta testando le acque. Abbas sta entrando nel crepuscolo del suo regime. Anche se la situazione economica e la gamma di possibilità in Cisgiordania sono incommensurabilmente migliori che sotto il regime di Hamas nella Striscia di Gaza, Hamas è guardato molto più favorevolmente dai palestinesi, che ignorano il fatto che impiega mezzi simili di repressione contro i suoi rivali. Dal punto di vista di Israele, il principale vantaggio del regime di Abbas è la relativa stabilità della sicurezza e lo stretto coordinamento con le sue organizzazioni di sicurezza che fornisce. Anche se l’amministrazione di Abbas prende provvedimenti contro Hamas per interesse personale, così facendo aiuta le Forze di Difesa Israeliane e il servizio di sicurezza Shin Bet a prevenire il terrorismo in Cisgiordania, liberando così una considerevole forza lavoro dell’Idf per le manovre di addestramento. Abbas si attiene a questo approccio perché aiuta a garantire la sua sopravvivenza. La recente operazione militare nella Striscia di Gaza è stata rapidamente dimenticata all’interno di Israele. La stampa è passata a concentrarsi sul nuovo governo e sul ritorno del coronavirus. Tuttavia, sarebbe meglio non ignorare l’importanza di ciò che è successo. Per la prima volta, Hamas ha rischiato con successo di imbarcarsi in un conflitto con Israele su Gerusalemme, anche se sapeva che il prezzo sarebbe stato una guerra distruttiva (anche se limitata) a Gaza. L’indecisione ai vertici dell’organizzazione è andata avanti per i primi 10 giorni di maggio, ma dal momento in cui Hamas ha presentato il suo ultimatum a Israele e poi ha sparato un razzo su Gerusalemme, la rivalità con l’AP è stata decisa a suo favore.

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Un regalo ad Hamas

Questa mossa ha scioccato sia l’Anp  che Israele. Era contraria a tutte le loro previsioni. Il risultato del conflitto militare – le vittime assorbite da Hamas, il fallimento dei suoi sforzi offensivi – è meno importante nella mente del pubblico nei territori. Il sondaggista palestinese Khalil Shikaki ha scritto sulla rivista Foreign Affairs che Hamas ha portato un cambiamento di paradigma nel modo in cui i palestinesi percepiscono il conflitto con Israele, rompendo così l’egemonia di Fatah a Gerusalemme e in Cisgiordania. Con un linguaggio più chiaro, il leader dell’organizzazione Yahya Sinwar ha tagliato fuori Abu Mazen. Questo avrà implicazioni per la natura delle tensioni con Israele. Come si è visto da Israele, il panico con cui Abbas reagisce ora alle manifestazioni è in linea diretta con i suoi precedenti problemi con Hamas. Dopo tanti anni al potere, forse questa volta sta cominciando a perdere la testa; il suo tempo è davvero passato. I ministri del suo gabinetto sono imbarazzati dal comportamento sfrenato delle organizzazioni di sicurezza, ma hanno paura di dire qualcosa in pubblico. I vertici si stanno preparando per la battaglia di successione, che per ora bolle in pentola lontano dagli occhi del pubblico. Ma Hamas la segue da Gaza con fascino. Il giorno in cui appariranno vere crepe all’interno di Fatah e dell’Anp,, l’organizzazione islamica potrà mandare i suoi quadri nelle strade”, conclude Harel..

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Ricambio generazionale

I ragazzi palestinesi che hanno dato vita alla rivolta di “Damascus Square” a Gerusalemme Est, e che guidano la protesta contro l’autoritarismo dell’Anp, non si riconoscono riconoscersi in nessuna fazione politica né in un leader carismatico. 

“Questo problema esiste – rimarca Hanan Ashrawi, raggiunta telefonicamente nel suo ufficio di Ramallah – e investe responsabilità nostre che non vanno celate. Hanno pesato e molto le divisioni tra le varie forze presenti nel campo palestinese, in particolare quelle tra Fatah e Hamas, divisioni che hanno indebolito la causa palestinese a livello internazionale, e alimentato il distacco tra i giovani e coloro che avrebbero dovuto guidarli. Di certo si doveva e si deve fare di più per rendere possibile l’emergere di una nuova classe dirigente, il che, dal mio punto di vista, significa soprattutto valorizzare le esperienze che sono nate all’interno della società civile palestinese, associazioni, gruppi, dove forte è la presenza delle donne, che rappresentano una ricchezza che non va dispersa. Vede, nella prima Intifada, c’è sempre stata la determinazione a contrastare l’occupazione israeliana e al tempo stesso a costruire lo Stato che non c’è: lo Stato di Palestina, rafforzando la nostra identità nazionale, trasmettendo alle nuove generazioni il senso di una storia e di una cultura che facevano di noi una Nazione e non solo un popolo. E’ quello spirito che siamo chiamati a ricreare. E questo comporta anche scelte personali. E’ tempo che una nuova generazione palestinese prenda in mano il suo futuro e i destini di un popolo. Io ho scelto di non candidarmi alle elezioni del Clp (il Consiglio legislativo palestinese, il Parlamento dei Territori, ndr) e sostenere le liste di giovani. Mi auguro che altri condividano questa scelta”.

“La resistenza all’occupazione è contemplata dalla stessa Convenzione di Ginevra. Non è questo il punto – sottolinea ancora colei che è stata la portavoce della delegazione palestinesi ai negoziati di Washington – Il punto sono gli strumenti di questa resistenza, il coinvolgimento della popolazione. Resistenza, ad esempio, per me significa sviluppare, a livello internazionale, il boicottaggio dei prodotti che provengono dalle colonie israeliane, terre sottratte i palestinesi. Non credo che la militarizzazione della resistenza sia la strada giusta. Ma molto dipenderà dalle autorità israeliane: la collera è tanta, e basta poco per provocare una reazione. Mi lasci, però, aggiungere una cosa che riguarda come i grandi mezzi di comunicazione raccontano la tragedia in Palestina. C’è un mantra che viene ripetuto in continuazione: i palestinesi incitano alla violenza. I palestinesi pensano che i loro prigionieri siano eroi e sono terroristi. E dunque ecco creato l’assioma: palestinese =terrorista. Ma dal 1967, Israele ha imprigionato più di 800.000 palestinesi, tra cui anch’io, e molti altri miei amici. Non credo che ci siano 800.000 terroristi. Persone che non hanno accettato l’occupazione o accettano di aver rotto il loro spirito, non sono terroristi. Israele ha ucciso più di 75.000 palestinesi dal ’67. Chi sono i terroristi?”. E ancora: “Sia chiaro: non sarebbe facile per nessuno costruire un sistema democratico, organizzare elezioni, sotto occupazione e quando devi lottare contro un regime di apartheid. Ma questo non spiega tutto. Che i giovani non si riconoscano nei partiti tradizionali non mi pare essere solo un problema palestinesi, voi europei ne sapete qualcosa… Nella prima Intifada, c’è sempre stata la determinazione a contrastare l’occupazione israeliana e al tempo stesso a costruire lo Stato che non c’è, lo Stato di Palestina, rafforzando la nostra identità nazionale, trasmettendo alle nuove generazioni il senso di una storia e di una cultura che facevano di noi una Nazione e non solo un popolo. Oggi dobbiamo recuperare quello spirito per fare di una rivolta una nuova Intifada”. Per poi concludere: “Resto convinta che esista una ‘terza via’ tra rassegnazione e deriva militarista. È la via della disobbedienza civile, della resistenza popolare non violenta. So bene che è una via difficile da praticare, ma non ne conosco altra migliore”.

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Le chiedo, in nome di una conoscenza ventennale che assomiglia tanto ad un’amicizia: “E ora Hanan, torni ai tuoi amati studi di linguistica inglese?”. Per un momento il telefono tace. Poi la risposta, meditata: “Si può essere utili ad una causa anche lasciando spazio ai giovani, scommettendo su di loro, fornendo loro sostegno e, cosa non meno importante, memoria. Non mi ritiro a vita privata, mi metto di lato. E lasciami aggiungere una cosa: la statura dei leader si misura anche da come sanno uscire di scena…”.  

Un esempio da seguire. Ma alla Muqata, il quartier generale dell’Anp a Ramallah, preferiscono i manganelli al voto. E di farsi da parte non se ne parla nemmeno. 

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