Come cambia in Israele il lessico politico nell'era post Netanyahu
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Come cambia in Israele il lessico politico nell'era post Netanyahu

Le parole pesano come pietre perché sono pregne di valenza simbolica, di una carica ideologica che risale ai tempi dei tempi. E nell’era post-Netanyahu qualcosa sta cambiando...

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Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

16 Luglio 2021 - 16.58


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Il cambiamento in politica si misura anche dal lessico. Vale per tuti, in particolare per un Paese dove le parole pesano come pietre: Israele. Pesano perché sono pregne di valenza simbolica, di una carica ideologica che risale ai tempi dei tempi. E nell’era post-Netanyahu qualcosa sta cambiando anche in questo campo “semantico”.

A darne conto, con la consueta maestria e una lucidità intellettuale “chirurgica”, è una delle firme storiche di Haaretz, il quotidiano progressista di Tel Aviv: Zvi Bar’el

Come cambia il lessico politico

“Due volte, la settimana scorsa, una nuova frase è entrata nel lessico pubblico: ‘fattibilità politica’ – annota Bar’el -. . La prima volta è stato quando il governo ha informato l’Alta Corte di Giustizia che ‘in questo momento’ non è politicamente fattibile promuovere una legge sulla maternità surrogata per le coppie dello stesso sesso. La seconda volta, in una riunione dei ministri degli esteri dell’Unione Europea, il ministro degli Esteri Yair Lapid ha osservato che ‘non è un segreto che sostengo una soluzione a due Stati’.

Purtroppo, in questo momento quella soluzione è ‘irrealizzabile’, come se certe questioni fossero circondate da una recinzione elettrica e da un cartello giallo e nero con un teschio e delle ossa incrociate. Il messaggio: ‘Zona politicamente impraticabile davanti a voi, pericolo di implosione del governo, entrate a vostro rischio e pericolo’. L’aspetto positivo del negare la fattibilità qui è che non contiene bugie o frodi. Questo governo non sarà un governo di valori, di politiche coraggiose o di nuovo pensiero, e questa non è una novità. Lo sapevamo quando il puzzle della coalizione è stato messo insieme a colpi di martello. L’assurdità è che la mancanza di fattibilità politica viene accettata come un dato di fatto, quando la stessa costituzione di questo governo ha dimostrato l’infondatezza della teoria della fattibilità politica.

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È vero, il nuovo governo non inizierà a parlare con i palestinesi di una soluzione la prossima settimana, ed è ancora un governo il cui ministro degli esteri ha paura di dire che sostiene una soluzione a due stati. Anche l’integralista Avigdor Lieberman, ora ministro delle Finanze, ha detto in passato di sostenere una soluzione a due Stati che includa lo scambio di terre. Questo governo non avrà fretta di abbracciare i leader di Hamas Yahya Sinwar e Ismail Haniyeh, ma ha comunque accettato di espandere la zona di pesca al largo di Gaza e di far entrare più importazioni. Sta anche cercando il modo di trasferire il denaro degli aiuti del Qatar. Il presidente palestinese Mahmoud Abbas non è un partner formale, ma Abbas ha già promesso al presidente Isaac Herzog che sarà in contatto con lui regolarmente. Questa non è una soluzione politica, ma è una grande innovazione rispetto al blocco di ghiaccio che Benjamin Netanyahu ha fatto cadere su Abbas.

Inoltre, è importante notare l’incontro del primo ministro Naftali Bennett con il re di Giordania Abdullah II e l’incontro di Lapid con il ministro degli Esteri egiziano Sameh Shoukry. ‘Quello che dobbiamo fare ora è assicurarci che non vengano fatti passi che impediscano la possibilità di pace in futuro, e dobbiamo migliorare la vita dei palestinesi. Qualunque cosa sia umanitaria, io sarò a favore’, ha detto Lapid spiegando il suo credo alla conferenza dei ministri degli Esteri dell’UE. ‘Migliorare la vita dei palestinesi’ e ‘qualunque cosa sia umanitaria’ sono frasi vuote, quindi non alimentano alcuna polemica. Siamo tutti per l’umanitarismo, così come siamo tutti per la pace e la sicurezza globale. Ma quando Lapid parla di evitare passi ‘che impediscano la possibilità di pace in futuro’, sta fondamentalmente attraversando la recinzione elettrica nella zona di non fattibilità. ‘Passi che impediscono la pace’ includono la costruzione di insediamenti, la legalizzazione di avamposti illegali, l’aumento della popolazione nelle enclavi ebraiche in Cisgiordania, e naturalmente l’annessione. Evitare tutto questo è un passo preliminare verso i negoziati per una soluzione a due stati. È politicamente fattibile? Non sono chiacchiere quando Bennett dice di credere che uno Stato palestinese è un disastro e non permetterà che venga creato. Ma un anno fa ha dichiarato che ‘questioni importanti come l’annessione e uno Stato palestinese possono essere messe da parte’. Gideon Sa’ar, ora ministro della Giustizia, ha detto due anni fa: ‘Tra il mare e il Giordano non c’è spazio per un altro Stato’ – ed esortò Netanyahu ad estendere la sovranità israeliana in Cisgiordania. Ma qualcuno lo ha sentito parlare di annessione ultimamente? Si scopre che la fattibilità o l’infungibilità politica non è una situazione permanente, ma piuttosto un processo. Se con le coppie omosessuali l’infungibilità è scomparsa grazie all’Alta Corte, con il processo di pace il governo dovrà costruire la fattibilità da solo. E la prima cosa che deve fare è eliminare il termine ‘non fattibile’ dal lessico”, conclude Bar’el..

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Le parole pesano. Perché includono o escludono, creano ponti di dialogo o erigono muri di diffidenza. Evocano sogni o preludono Le parole compongono una identità: Così rifletteva. uno dei più autorevoli scienziati della politica israeliani, il professor Shlomo Avineri, che in un editoriale su Haaretz ha affermato: “Non si possono separare i diritti dei singoli cittadini dalla loro coscienza sulla loro identità, cultura, tradizione, lingua, religione e memoria storica”. 

Cultura, per l’appunto. E la cultura si esprime non solo ma soprattutto con le parole. Le parole compongono una lingua, definiscono un perimetro semantico che spesso nella storia, non solo della Palestina, si è tentato di “colonizzare” da parte dei “vincitori”. 

 Molte volte, quando si scrive o si parla, d’Israele viene “spontaneo”, o quasi, riferirsi ad esso come “Stato ebraico”. Tanto più ora, che questa definizione è stata “costituzionalizzata”.  Ma poche volte, quasi mai, si pensa a quel 1,8 milioni di israeliani (oltre il 22% della popolazione) che ebrei non sono e che quella definizione fa scomparire: il “popolo invisibile” per usare il titolo di uno dei grandi libri-reportage di David Grossman. Ecco allora riaffermarsi la valenza della parola. La pace, il dialogo, il rispetto e la conoscenza dell’altro da sé, passa anche attraverso la creazione di un nuovo vocabolario politico. Israele, in questo, può essere un “laboratorio” sperimentale. 

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