Una cleptocrazia che si è fatta Governo. Una corruzione che ha divorato miliardi e miliardi di dollari, più di quanto fu investito nel Piano Marshall. Alla ricerca delle cause della disfatta dell’Occidente. Globalist prosegue l’inchiesta continuano a dare la parola agli esperti
Cleptocrazia al potere
Spiega Ehsan Soltani su notiziepolitiche.net: “Non si può ignorare che Washington ha speso più di 800 miliardi di dollari in Afghanistan negli ultimi 20 anni in operazioni di combattimento, addestramento e armamento delle forze afgane e investimenti in aree civili, e quando nel 2003 quando gli americani hanno iniziato l’addestramento dell’esercito afgano c’erano quasi 30mila soldati, mentre oggi sono più di 350mila. Com’è possibile, casi chiede che un esercito così addestrato ed equipaggiato sia crollato senza sparare un proiettile?
Per dare risposta a questa domanda bisogna considerare quattro fattori o fattori importanti abbiano giocato un ruolo importante in questo:
1. l’alto tasso di corruzione dei leader afghani.
Negli l’ultimi anni diversi account dei social network vicini ai talebani hanno operato per mostrare la corruzione dei funzionari del governo, venivano diffuse immagini, video e notizie che mostravano il benessere privato degli alti membri del governo fatto con i soldi pubblici, mentre la maggior parte della società afgana guadagnava meno di un dollaro al giorno! Video che ad esempio mostravano il castello di lusso del generale Dustom o la fortuna di Ismail Khan, cose che aumentavano la rabbia della società.
2. il fenomeno dei “due stati”.
La società afgana è stata praticamente frammentata negli ultimi sei anni dai dissidi etnici, una realtà che poco ha a che fare con le strutture politiche “importate” dagli Usa nel paese. Difatti Ashraf Ghani e Abdullah Abdullah hanno gareggiato nelle ultime due elezioni, ed entrambe le volte il secondo non ha accettato il risultato delle elezioni, cosa che ha gettato il paese in una crisi politica risolta con una mediazione che di fatto ha portato di fatto a due presidenti: Abdullah per prima volta è stato presidente del Consiglio esecutivo e poi presidente del Consiglio nazionale di riconciliazione.
Ghani governava da “Arg”, la cittadella di Kabul, e Abdullah da “Sepidar”, ed entrambi avevano il proprio governo e il proprio gabinetto. Oltre a loro i politici conosciuti come Ismail Khan ad Herat, Ata Muhammed nel Balkh, e il generale Dustom nel Fariyab avevano loro governo. In pratica in Afghanistan mancavano una sovranità integrata e un’autorità unificata necessarie per guidare il paese, fatto di società tribali e città lontane.
3. Questa struttura corrotta era sopravvissuta esclusivamente grazie all’assoluta dipendenza dal supporto esterno: gli americani stavano conducendo la guerra contro i talebani, nel frattempo i leader afghani pensavano che questa situazione sarebbe durata per sempre. In apparenza tutto era in ordine. Centinaia di migliaia di truppe e forze di sicurezza addestrate dalla Nato hanno permesso una costituzione progressista ma in gran parte solo sulla carta; vi sono stati alcuni sviluppi economici positivi che hanno permesso al paese di lasciarsi alle spalle il periodo buio degli anni Novanta, tuttavia alcuni fatti sono innegabili, come le dimensioni della piccolissima economia. Questo ha fatto vedere che alla fine la realtà delle cose è stata offuscata dalla propaganda e da un debole ottimismo. La svolta vi è stata quando l’America “ha rinunciato” all’Afghanistan e ha fatto capire che la festa è finita!
La valanga che oggi sta distruggendo l’Afghanistan è partita dal 2013, quando gli americani hanno accettato che i talebani aprissero un ufficio a Doha (dove gli Usa hanno la più grande base militare del Golfo Persico) e che venissero avviati negoziati in segreto con i talebani, proseguiti solo a partire dal 2018 con la presenza del governo afgano. Trattative che nel 2020 hanno obbligato il governo d Kabul a liberare quasi 6mila terroristi: è in questo preciso momento che sia il governo che l’esercito hanno perso la fiducia fiducia in loro stessi e visto come i talebani hanno potuto sconfiggere l’America. Come l’ex Unione Sovietica non è riuscita a instaurare il socialismo in una società tribale con la forza della baionetta, così gli Stati Uniti dopo vent’anni di guerra non sono riusciti a impiantare lì il proprio modello di democrazia liberale.
I principali colpevoli tuttavia erano i leader afghani. Non potevano unirsi, la corruzione e la divisione erano complementari. I Mujahideen, che misero in ginocchio l’Armata Rossa nelle fredde montagne dell’Hindu Kush, divennero mediatori e mercanti in epoca americana. Nessuno vedeva né quell’antico spirito combattivo né il desiderio di avere un esercito professionale a difesa della patria. Non a caso il presidente Usa Joe Biden ha dovuto ammettere che “Li abbiamo addestrati e abbiamo dato loro le armi, ma non abbiamo potuto dare loro la volontà di combatterli e unirli”. Nikita Krusciov disse agli egiziani durante la guerra di Suez: “Abbiamo dato armi all’Egitto, si offrono di combattere se stessi, non andremo al canale ad essere uccisi per loro!”, conclude Soltani.
Il cancro della corruzione
La colpa del caos in Afghanistan è “in buona parte” di Ashraf Ghani, il presidente fuggiasco, “che ha costruito un castello di carta e non è riuscito a fare il suo lavoro. Non ha unificato il Paese attorno ai valori repubblicani che diceva di sostenere, lasciando spazio a corruzione e nepotismo e senza impegnarsi a fondo su vere riforme e sviluppo dei servizi”. Ma “anche noi”, gli occidentali, “dobbiamo fare una riflessione, perché questo signore lo abbiamo sostenuto“. A dirlo è il rappresentante speciale della Nato a Kabul, l’italiano Stefano Pontecorvo, intervistato dal Messaggero all’indomani degli attacchi dell’Isis-K che hanno provocato oltre 100 morti all’aeroporto da cui partono le evacuazioni dei civili afghani.
Come hanno detto alcuni militari locali al Washington Post, il collasso dell’esercito afghano è da imputare più alla corruzione del governo e dei comandanti che all’incompetenza dei soldati
Quei rapporti che inchiodano
Il governo americano ha costantemente sottovalutato il tempo necessario per ricostruire l’Afghanistan, con una «comprensione mediocre» della situazione nel Paese. È questo il riassunto che emerge dall’ultimo rapporto dello Special Inspector General for Afghanistan Reconstruction (SIgar), in cui si elencano gli errori commessi dagli Usa negli ultimi vent’anni. «Se l’obiettivo era quello di ricostruire e lasciare alle spalle un Paese in grado di sostenersi e rappresentare una minaccia di poco conto per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti, il quadro generale è desolante», ha scritto John Sopko nel dossier intitolato «Cosa dobbiamo imparare: lezioni da vent’anni di ricostruzione dell’Afghanistan». Tra le altre lezioni, il rapporto rileva che Washington «ha costantemente sottovalutato la quantità di tempo necessaria per ricostruire il Paese e ha creato scadenze e aspettative irrealistiche», sottolineando che tra i 145 miliardi di dollari spesi si annoverano frodi, sprechi e abusi. Oltre 80 miliardi sono stati investiti per addestrare, equipaggiare e pagare gli stipendi delle truppe afghane e dai rapporti di Sopko emerge che gran parte di quel denaro per munizioni, uniformi e cibo è stato sottratto da comandanti corrotti e leader governativi, lasciando i soldati a se stessi. Gli Usa, insomma, hanno «molte lezioni da imparare» per il futuro: ad esempio, non hanno compreso il contesto afghano, anche a livello sociale, culturale e politico. «C’è stata un po’ di arroganza nel pensare che fosse facile trasformarlo che so, nell’Iowa», spiega Sopko, precisando che «mancava il personale e le competenze per ricostruire davvero il Paese». E a suo parere, se i fondi americani hanno migliorato la vita di milioni di afghani con misure che hanno portato all’aumento dell’aspettativa di vita e dei tassi di alfabetizzazione, d’altra parte i guadagni non sono stati né commisurati all’investimento né sostenibili dopo il ritiro delle truppe statunitensi.
Nel 2019, il Washington Post ha pubblicato un rapporto interno di 2 mila pagine commissionato dal governo federale degli Stati Uniti per analizzare i fallimenti della sua guerra più lunga: The Afghanistan Papers.
Il documento si basava su una serie di interviste a generali statunitensi (in pensione e in servizio), consiglieri politici, diplomatici, operatori umanitari e così via. Il quadro che emerge dall’insieme delle loro testimonianze è fortemente negativo. “Eravamo privi di una comprensione fondamentale dell’Afghanistan, non sapevamo cosa stavamo facendo…”, ha confessato il generale Douglas Lute, lo “zar della guerra afgana” sotto Bush e Obama: “Non avevamo la più pallida idea di ciò in cui ci stavamo imbarcando… Se il popolo americano conoscesse l’entità di questa disfunzione…”. Un altro testimone, Jeffrey Eggers, un Navy Seal in pensione e membro dello staff della Casa Bianca sotto Bush e Obama, ha evidenziato l’enorme spreco di risorse: “Cosa abbiamo ottenuto? Valeva mille di miliardi di dollari? […] Dopo l’uccisione di Osama bin Laden, ho detto che quest’ultimo probabilmente stava ridendo nella sua tomba d’acqua considerando quanto abbiamo speso per l’Afghanistan”. Avrebbe potuto aggiungere: “E abbiamo pure perso”.
Il colonnello Christopher Kolenda, consigliere di tre generali in servizio, ha indicato un altro problema della missione statunitense. La corruzione è stata dilagante fin dall’inizio, ha detto: il governo Karzai era “auto-organizzato in una cleptocrazia”. Ciò ha minato la strategia post-2002 di costruzione di uno Stato che potesse sopravvivere all’occupazione. “La piccola corruzione è come il cancro della pelle, ci sono modi per affrontarla e probabilmente starai bene. La corruzione all’interno dei Ministeri, di livello superiore, è come il cancro al colon: è peggio, ma se lo prendi in tempo probabilmente stai bene. La cleptocrazia, invece, è come il cancro al cervello: è fatale”. Naturalmente, lo Stato pakistano – dove la cleptocrazia è radicata a tutti i livelli – è sopravvissuto per decenni. Ma le cose non erano così semplici in Afghanistan, dove gli sforzi di costruzione della nazione erano guidati da un esercito di occupazione e il governo centrale aveva scarso sostegno popolare.
“Martoriato da decenni di conflitti – osserva Nicola Pedde, direttore dell’Institute of Global Studies – l’Afghanistan aveva vista distrutta nel corso del tempo la sua già fragile economia, con lo sviluppo di una diffusa matrice dell’illecito alimentata dalla coltivazione dell’oppio, dai traffici criminali e dall’economia della sussistenza generata dagli aiuti umanitari. La logica, quindi, avrebbe imposto alla coalizione internazionale l’adozione di una ragionata strategia di ricostruzione dell’economia locale, creando i presupposti per un consolidamento capace di offrire in misura crescente incentivi di sostegno allo sviluppo e alla stabilità da parte della popolazione.
In vent’anni di tempo si sarebbe potuto e dovuto creare una classe dirigente politica, amministrativa ed economica del paese, sviluppando l’economia attraverso interventi pilotati prima dall’esterno e poi gradualmente trasferiti agli afgani.
In sintesi, per auspicare il sostegno della società afgana al progetto di ricostruzione occidentale sarebbe stato necessario adottare strumenti destinati a soddisfare i bisogni primari della popolazione, e quindi garantire lavoro, istruzione, sanità e anche, certamente, sicurezza. Al contrario, tuttavia, l’elemento securitario è ben presto diventato preminente, secondo il mantra del “non c’è stabilità senza sicurezza”, che ha lentamente avvitato il ruolo deli Stati Uniti e degli europei intorno alla gestione di una colossale, quanto fallimentare, missione militare di durata ventennale.
Nessun reale progetto di ristrutturazione dell’economia afgana ha realmente preso piede, con la complicità delle locali istituzioni democraticamente elette, che sull’economia della sussistenza umanitaria, del conflitto e del torbido ha potuto in tal modo ingrossare i patrimoni di una ristretta cerchia di facoltosi faccendieri. Una corruzione fuori controllo, peraltro, è stata ignorata, avallata e taciuta”, conclude Pedde.
Il problema maggiore degli afghani non è l’insicurezza, e nemmeno la povertà, ma la corruzione. A questa conclusione è giunto il rapporto condotto dall’ Unodc, l’ufficio delle Nazioni Unite contro la droga e il crimine. L’Unodc ha compiuto un’indagine a tutto campo sull’idea che gli afghani hanno di se stessi, del Paese e del governo.
L’inchiesta ha coinvolto 7.600 persone in 12 capitali provinciali e in 1.600 villaggi sparsi per l’intero territorio Lo scopo dello studio è migliorare la percezione del Paese reale anche all’estero e favorire il progresso verso una forma più compiuta di democrazia.
E c’è chi si sorprende della vittoria dei Talebani.
(seconda parte)