Manifestazioni vietate. Donne prese a frustate e bastonate. L’istruzione bandita. Così come lo sport al femminile, come la musica. E qualcuno al mondo s’illudeva dell’esistenza del “talebano moderato”.
Nuovo giro di vite contro il dissenso in Afghanistan. I Talebani hanno annunciato il divieto di ogni tipo di manifestazione in tutto il Paese, affermando che tali proteste “disturbano la vita normale, molestano le persone” e creano problemi di sicurezza. Secondo una dichiarazione del ministero dell’Interno dei talebani, Sirajuddin Haqqani, “non è permesso tenere alcun tipo di manifestazione” senza autorizzazione del ministero della Giustizia, “da richiedere almeno 24 ore prima”, comunicando tutti i dettagli. “A meno che non vengano adempiute tutte le formalità, nessuno è autorizzato a tenere alcuna manifestazione”, si legge nel comunicato. Dalla presa del potere da parte dei fondamentalisti islamici a Kabul, si sono susseguite diverse manifestazioni di protesta, soprattutto da parte delle donne, per chiedere parità di diritti e di poter continuare a lavorare.
Fruste e bastoni contro le donne scese in piazza
Fruste e bastoni contro le donne scese in piazza per protestare contro il governo tutto al maschile annunciato ieri dagli studenti coranici. I talebani hanno cercato così di reprimere la manifestazione delle donne, che hanno protestato oggi per il terzo giorno consecutivo, secondo alcuni video ricevuti dalla Cnn. “Lunga vita alle donne in Afghanistan”, lo slogan intonato dalle manifestanti, mentre innalzano cartelli con su scritto “Nessun governo può negare la presenza delle donne” e immagini della poliziotta incinta uccisa dai talebani qualche giorno fa. Nel mirino degli studenti coranici anche giornalisti e cameraman che seguivano le manifestazioni: il direttore del quotidiano Etilaatroz, Zaki Daryabi, ha denunciato che 5 dei suoi reporter sono stati fermati e due sono stati picchiati, con decine di frustate sulla testa e la faccia. I giornalisti sono stati poi rilasciati. I talebani hanno deciso che le donne afghane non potranno più giocare a cricket né a nessun altro sport che “esponga i loro corpi”. Lo spiega in un’intervista il vicecapo della Commissione cultura dei talebani, Ahmadullah Wasiq. “Non credo che alle donne sarà consentito di giocare. Potrebbero dover affrontare situazioni in cui il loro viso o il loro corpo non siano coperti. L’Islam non permette che siano viste così”, sentenzia.
“Inoltre – prosegue Wasiq – siamo nell’era dei media e se ci saranno foto e video che verranno diffusi in rete, la gente li guarderà”. La legge del nuovo Emirato islamico, che “non consente alle donne di praticare il cricket”, mette a rischio l’atteso match previsto in Australia a novembre tra le due nazionali maschili nell’ambito dell’International Cricket Council. Per poter scendere in campo, il regolamento prevede che tutte le 12 squadre partecipanti abbiano anche una squadra femminile.
Dopo poche ore dalla decisione dei Talebani di vietare le attività sportive alle donne, arriva la risposta dell’ex capitano della squadra femminile di calcio dell’Afghanistan Khalida Popal: “Lo sport è libertà. Noi donne non smetteremo mai di lottare, anzi insieme brilleremo sempre di più”. Popal attualmente è rifugiata in Danimarca, dove promuove una campagna per far uscire dal Paese le sue ex-compagne.
Scrive Lorenzo Cremonesi, inviato del Corriere della Sera a Kabul: “Soltanto tre settimane fa i nuovi padroni talebani, ebbri di vittoria, promettevano magnanimi che il nuovo Afghanistan del ritorno dei mullah sarebbe stato accondiscendente nei confronti della società civile sviluppatasi negli ultimi vent’anni sotto l’influenza culturale e sociale della coalizione occidentale a guida americana. Ebbene, non era vero. Gli ultimi due giorni sono stati una drammatica doccia fredda per chiunque si fosse lasciato illudere. Martedì la presentazione del loro nuovo governo ha riportato in auge figure e modi di pensare legati a filo doppio alla loro teocrazia radicale tra il 1994 e il 2001. L’incubo che l’Afghanistan torni ad essere una base logistica del terrorismo internazionale diventa concreto”.
E ancora: “L’illusione di un progresso irreversibile si schianta in un deserto di delusioni e paure per il futuro – rimarca Cremonesi, uno dei pochi reporter che l’Afghanistan conosce in ogni sua piega – Questo senso di rottura radicale col recente passato diventa un collettivo trauma identitario e trova la sua espressione plastica nelle tende che adesso vengono tirate nelle classi scolastiche per dividere le donne dagli uomini. Abbiamo visitato alcune università private che sono state riaperte l’altro ieri (quelle pubbliche restano chiuse). «Le nostre facoltà di Legge formano giudici e avvocati. Valorizziamo i diritti civili. Io stesso faccio parte della commissione che sino al 15 agosto era incaricata di supervisionare la stesura della nuova Costituzione afghana. Ora tutto questo non ha più valore. I talebani imporranno la loro lettura radicale della legge religiosa islamica. Ci considerano nemici, siamo inutili nel loro Stato. Tanti giovani studenti mi dicono che non intendono continuare i nostri corsi. A che servono? Non troverebbero lavoro», spiega Yarmohammad Baqri, 61enne rettore della Ibn Sina University… Nell’università Tolo-e-Aftab (l’Alba) sono quattro studentesse ventenni a mostrare come funziona la tenda divisoria. In alcune classi i bidelli la stanno ancora montando. Nella loro è color blu scuro, corre lungo il soffitto e arriva sino al pavimento. «Questa tenda è una vera vergogna. Un abuso. Disturba la nostra concentrazione e non vedo alcun motivo di tenerci separate dai nostri compagni maschi», dice Nadia, iscritta al primo anno della facoltà di Economia. Fasilat vede nella tenda l’ennesimo segnale della politica talebana, che toglie alle donne qualsiasi prospettiva di carriera. «Non ci lasceranno lavorare. Studieremo, ma sarà inutile, saremo discriminate per sempre. I talebani non permetteranno che le nostre lauree ci diano accesso a posizioni di rispetto», spiega. Il rettore Mohammad Arunstanzai mostra dal portatile le nuove disposizioni che pubblicano anche le immagini di lunghi vestiti neri destinati ad essere presto obbligatori per le studentesse. «Ma questo è l’abuso dell’Islam. Non c’è nessun verso del Corano che costringa ad indossare tali brutture», reagisce a caldo Nadia…”.
L’Afghanistan che resiste ha il volto di Nadia, del professor Arunstanzai, delle tante e tanti che hanno creduto in una crescita dal basso di una società plurale, aperta, inclusiva. Capace di coniugare tradizione e modernità, islamica certo, ma di un Islam che nulla ha a che vedere con la piega fondamentalista, oscurantista, misogina imposta a forza dagli Studenti coranici.
Brutale verità
E’ quella disvelata su La Stampa da Domenico Quirico: “Brutale verità: l’Occidente è stato vent’anni in Afghanistan con armi e bagagli, ovvero democrazia, libero mercato, Ong, integrazione globale, e non ha prodotto nulla. Risultato: l’Afghanistan è semplicemente rimasto quello dei taleban di venti anni fa. Noi, il mondo che pensa se stesso, l’auto-osservatorio eterno, siamo stati un semplice incidente, una parentesi, in fondo breve. La Storia ricomincia da dove si supponeva fosse stata squarciata virtuosamente. Punto e a capo.
La democrazia nella versione da esportazione afghana ha mostrato una produttività miserrima. Misuriamola: centomila nostri collaboratori messi in salvo e la microscopica e meravigliosa pattuglia di animosi e animose che manifesta «contro» nelle vie di alcune città afghane. Un bilancio umiliante. E gli altri trentacinque milioni di afghani che avevano delegato, democraticamente o meno, ad alcuni Grandi della Terra la cura suprema della loro sopravvivenza? Sono rimasti ai taleban. La capacità dell’Occidente, con i suoi mezzi giganteschi, militari, economici, ideologici, di cambiare la Storia in altri luoghi del mondo è inesistente. Siamo rimasti seduti sul tappeto afghano per venti anni senza produrre alcuna modificazione nell’ordito, nei disegni e nei colori. Appena qualche minuscola smagliatura, appunto i nostri collaboratori e gli eroici democratici a oltranza, al di là di quanto meriteremmo.
Ora i tessitori taleban, con mano svelta e rigida tela, le riassetteranno, le smagliature, qualche mese e non ci sarà più traccia di quanto è accaduto. Fuori dalle grandi città milioni di afghani non si sono quasi accorti di questi brevi sconvolgimenti, delle nostre diatribe inconcludenti: i vecchi continueranno, in residui di orientale abbandono, a riunirsi per aggiustare, con il mullah e la antica legge, gli impicci che la vita propone, i bambini andranno nella madrasa a cercare di imparare a memoria il corano per ripeterlo meccanicamente, i pastori condurranno le greggi al pascolo sulle aspre montagne tornate silenti e il papavero arricchirà come avviene da secoli i campi. Del passaggio di quegli stranieri così rumorosi, sicuri di sè resteranno ironici racconti attorno al fuoco nei lunghi inverni: li metteranno a fianco degli altri invasori che hanno tentato di insegnare agli afghani nuove contorte verità e che sono scomparsi per sempre come le nevi degli inverni”. Per concludere: “Solo i profughi continueranno a sognare l’altro Afghanistan che avevano appena assaggiato. Ma saranno già passati di moda come tutti i fuggiaschi, i vinti, i poveri. Scopriranno che il nostro sbandierato «aiuto fraterno» è consistito nel renderli dei senza patria, dei mendicanti. Tornare a Kabul? Forse solo se tra venti anni un altro Bin Laden bombarderà la Casa Bianca. E il suo covo sarà tra le montagne afghane”.
Meglio di così, aggiungiamo noi, era impossibile dire.
Ma c’è chi dice “No”
Ieri decine di donne a Kabul e nella provincia nord-orientale afghana di Badakhshan hanno protestato contro la formazione del nuovo governo talebano ad interim tutto al maschile. “Nessun governo può negare la presenza delle donne” e “Lunga vita alle donne in Afghanistan” gli slogan scanditi durante le manifestazioni che – riporta la Cnn – sono state disperse “con fruste e bastoni” dai Talebani. Durante le proteste sono stati fermati e picchiati anche alcuni giornalisti, secondo testimoni citati da alcuni media stranieri.
Pechino plaude
Segnali di soddisfazione per la nascita del governo provvisorio, tra i cui membri ci sono terroristi e ricercati dall’Fbi, sono arrivati dalla Cina. Il portavoce del ministero degli Esteri Wang Wenbin ha parlato di “un passo necessario per il ripristino dell’ordine interno e della ricostruzione postbellica”. Pechino ha anche messo in guardia sulla mutata situazione in Afghanistan che ha complicato il contesto dell’antiterrorismo internazionale e regionale e “alcuni terroristi internazionali in Afghanistan stanno pianificando di infiltrarsi nei Paesi vicini”.
Sul fronte Ue, l’Alto rappresentante per la politica estera Joseph Borrel, intervistato dall’Ansa, chiede tempo: “Dobbiamo parlare con chi è al potere” in Afghanistan, “principalmente per garantire gli sforzi di evacuazione, ma anche per prevenire una crisi umanitaria. Ma ciò non implica in alcun modo il riconoscimento politico internazionale dei talebani. Nel nostro impegno con i talebani finora e in futuro presteremo particolare attenzione alle loro azioni, al rispetto degli obblighi internazionali accettati dai diversi governi afghani da oltre 50 anni. Il governo dei talebani sarà giudicato sulla base delle loro azioni piuttosto che sulle promesse”.
Un appello alla comunità internazionale, all’Onu e alle altre organizzazioni regionali e internazionali, è arrivato dal Fronte di resistenza nazionale dell’Afghanistan che chiede innanzitutto di fermare il genocidio dei Talebani nella valle del Panjshir. Ha quindi definito “illegale” il governo ad interim. La resistenza afferma che i Talebani continuano gli attacchi deliberati e su larga scala contro i civili. Hanno fatto ricorso a una “campagna continua di massacri di persone” in tutta la provincia dopo che la resistenza ha inflitto loro pesanti perdite in diverse parti del Panjshir, si legge in una nota.
Le “scuse” di Ghani
Ieri è stata anche diffusa una nota dell’ex presidente afghano Ashraf Ghani che si è scusato con la nazione e si è detto rammaricato per come “è finita”, con la presa del potere dei Talebani. Ghani è fuggito da Kabul mentre le milizie dei cosiddetti studenti coranici entravano nella capitale, il 15 agosto scorso. Ha anche detto di aver lasciato Kabul, dopo che la sicurezza lo aveva avvertito del rischio del ripetersi “degli orribili combattimenti strada per strada” della guerra civile degli anni Novanta. “Mi scuso con il popolo afghano per non essere riuscito a far sì che le cose finissero diversamente”, ha dichiarato in un comunicato. “Lasciare Kabul è stata la decisione più difficile della mia vita”, ma credo “fosse l”unico modo di salvare Kabul e i suoi sei milioni di abitanti”, ha affermato. Ghani ha insistito nello smentire di aver portato via “milioni di dollari appartenenti al popolo afghano” e ha auspicato un’indagine sotto l’egida dell’Onu per provare la sua innocenza. Ghani ha ribadito il suo attaccamento alla democrazia e si è scusato con il popolo afghano per non essere riuscito a garantire “stabilità e prosperità per il suo Paese”.
Un individuo che fugge con milioni di dollari sottratti al popolo afghano. Che scappa senza tentare una minima resistenza. Ecco, un individuo del genere, a capo di un governo corrotto e incapace, è stato posto dall’Occidente alla guida dell’Afghanistan. Si spiega anche così la vittoria degli oscurantisti talebani.