Cinque minuti, la prima udienza. Due minuti, la seconda. Venti mesi di prigionia in un fetido carcere di massima sicurezza. In questa forbice temporale è racchiusa l’odissea di Patrick Zaki.
Rinvio senza fine
“Il processo di Patrick Zaki è stato rinviato al 7 dicembre”. Lo scrive su Twitter Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia, aggiungendo: “Un rinvio lunghissimo, che sa di punizione. Quel giorno saranno trascorsi 22 mesi dall’arresto: 22 mesi di crudeltà e sofferenza inflitte a Patrick, ma anche di grande resistenza da parte sua”.
La seconda udienza del processo a Patrick Zaki si è svolta presso il tribunale di Mansura ed è durata solo due minuti durante i quali, come hanno riferito fonti del collegio di difesa, la sua legale Hoda Nasrallah ha chiesto un rinvio per poter studiare gli atti. La legale ha chiesto inoltre una copia autenticata del fascicolo dato che finora vi ha avuto accesso solo in consultazione presso uffici giudiziari, senza dunque poterlo studiare adeguatamente. Il giudice monocratico si è ritirato per decidere sulla richiesta, hanno precisato le fonti sintetizzando quanto detto da Nasrallaha ridosso del banco del giudice. Patrick non ha preso la parola durante l’udienza. Per giustificare la richiesta di rinvio, Hoda ha sostenuto che è stato lo stesso Zaki a chiederlo in quanto “non è soddisfatto” della difesa dato che lei ha potuto leggere gli atti in Procura solo “in fretta”, ha riferito un avvocato presente in aula che ha preferito restare anonimo.
Lo studente egiziano dell’università di Bologna è in carcere in Egitto da quasi 20 mesi. Come la prima udienza svoltasi il 14 settembre, quella odierna si è tenuta di nuovo davanti a una Corte della Sicurezza dello Stato per i reati minori (o d’emergenza) di Mansura, la città natale di Patrick. Nell’ala nuova del vecchio Palazzo di Giustizia esaminati molte decine di casi a partire da metà mattinata. Patrick Zaki è stato portato nella gabbia degli imputati in manette, che poi gli sono state tolte poco dopo. Qualche minuto dopo l’ingresso di Patrick nella gabbia degli imputati, prima ancora che la sua udienza iniziasse, la sessione è stata interrotta e Patrick ha parlato con due avvocati e bevuto un po’ d’acqua. I giornalisti sono stati ammessi con diffida dal girare video o scattare foto. In aula, fra la cinquantina di persone presenti, George, padre di Patrick; la sorella Marise e un dirigente della ong ‘Eipr’ per la quale Patrick lavorava come ricercatore. In aula anche una quindicina di attivisti e amici di Patrick. A un’attivista Eipr sono stati controllati i documenti.
”Portato ammanettato nella gabbia degli imputati, come un pericoloso criminale. Patrick Zaki è tutto il contrario”. Così Riccardo Noury, ha commentato su Twitter il trattamento riservato al ricercatore e studente dell’Università Alma Mater di Bologna.
La volta scorsa l’aggiornamento a oggi, dopo un’udienza di pochi minuti,fu annunciato verso le 15 ora locale e italiana. L’accusa a suo carico è quella di “diffusione di notizie false dentro e fuori il Paese”. Un reato sanzionato con un massimo di cinque anni di carcere. La Corte può emettere una sentenza inappellabile in qualsiasi udienza. “Rischia fino a cinque anni di carcere per aver espresso in maniera pacifica le sue opinioni”, lancia l’allarme Amnesty Europe. È già stato confermato, inoltre, da una legale dello studente che restano in piedi (si presume quindi da affrontare eventualmente in altra sede) le accuse di “minare la sicurezza nazionale” e di istigare alla protesta, “al rovesciamento del regime”, “all’uso della violenza e al crimine terroristico”: le ipotesi di reato basate sui dieci post su Facebook di controversa attribuzione. Si tratta di crimini che gli fanno rischiare 25 anni di carcere, secondo Amnesty International, o addirittura l’ergastolo, hanno sostenuto fonti giudiziarie egiziane.
Alla vigilia del processo, anche Maria Arena (S&D), presidente della sottocommissione sui diritti umani, ha definito il processo “inaccettabile” e chiesto il suo “immediato rilascio”: “La sua detenzione deriva esclusivamente dal suo lavoro per i diritti umani”, ha scritto su Twitter.
Appello di 40 eurodeputati, l’Ue si impegni per liberarlo
“Abbiamo inviato questa mattina una lettera sottoscritta da 40 deputati europei alla presidente della Commissione europea e all’Alto rappresentante dell’Unione, sollecitando la necessità di un forte impegno dell’Ue per la liberazione di Patrick Zaki”. Lo dichiarano Fabio Massimo Castaldo (M5S) e Pierfrancesco Majorino (Pd), promotori della lettera indirizzata a Ursula Von der Leyen e Josep Borrell che chiede di dare la giusta priorità e urgenza alla vicenda di Patrick Zaki e di assicurare che i suoi diritti fondamentali siano salvaguardati conto qualsiasi violazione. “Proprio oggi si svolge infatti la seconda udienza del processo in cui Patrick è accusato di diffusione di notizie false, rischiando fino a cinque anni di carcere, dopo aver trascorso più di un anno e mezzo di detenzione preventiva, sottoposto a minacce e torture”, continuano Castaldo e Majorino. “Siamo molto preoccupati dal possibile esito di questo processo che rischia di essere, come tanti nell’Egitto di Al-Sisi,sommario e guidato dalla necessità di mettere a tacere in maniera palese voci critiche e non gradite”. “Pensiamo che non si possa rimanere indifferenti rispetto a questo e che debba esserci una forte presa di posizione dei vertici dell’Unione per chiedere l’immediata liberazione di Zaki, come già richiesto peraltro dal Parlamento europeo”, concludono Castaldo e Majorino, riferendosi alla netta risoluzione del Parlamento dello scorso 18 dicembre. “Per questo chiediamo, tra le altre cose, che la delegazione Ue sia presente al processo di Zaki e a quello di altri giornalisti, sindacalisti, difensori dei diritti umani e attivisti della società civile oggi perseguitati. Serve anche una risposta forte e coordinata tra gli stati dell’Unione che imponga progressi essenziali nel rispetto dei diritti umani all’Egitto”
“Zaki o mai”.
Scrive Francesca Paci su La Stampa “Al crocevia tra le umane sorti e progressive e la ragion di Stato sta Parick George Zaki, un simbolo ormai che, forzando parecchio la mano, può evocare addirittura l’accanimento contro Dreyfus, il capro espiatorio per eccellenza della cattiva coscienza allora antisemita. Zaki, il volto di una generazione bruciata a Tahrir ma anche l’epigono delle speranze copte in un regime inizialmente considerato salvifico, rappresenta molto più del ragazzo che è. Per l’Egitto, dove lo scontro con l’intellighenzia liberal e cosmopolita è l’estrema fase della guerra per accaparrarsi la narrazione degli ultimi vent’anni. E per l’Italia, che non ha rinunciato a chiedere verità e giustizia per Giulio Regeni ma che, incassando un rimpallo dietro l’altro, si è fatta afona, defilata. Per questo non possiamo mollare Zaki. Perché è un simbolo e porta dentro di sé tutti gli innominabili Regeni egiziani. Insiste, il portavoce di Amnesty International Riccardo Noury a domandare “all’amico al Sisi” una prova del legame che unisce l’Italia all’Egitto. Insistono i compagni bolognesi, le tante amministrazioni che hanno già concesso la cittadinanza, insiste chi pure non si aspetta nulla dall’udienza di oggi. Per l’Egitto e per l’Italia. O Zaki o mai”.
Quel carcere, un inferno.
Così Antonella Napoli tratteggia, in un articolo per Avvenire, del carcere di massima sicurezza in cui è imprigionato Patrick: “Una grande tomba di cemento, il simbolo del terrore del regime egiziano guidato dal presidente Abdel Fattah al–Sisi. Basta attraversare l’ingresso sorvegliato da blindati e uomini armati nelle torrette collocate lungo il perimetro del penitenziario di Tora, a soli venti miglia a sud dal Cairo, per capire che la definizione coniata dagli attivisti per i diritti umani rispecchia pienamente l’essenza della famigerata struttura carceraria. Questa immensa prigione divisa in quattro blocchi, tra cui la sezione di massima sicurezza conosciuta come “lo scorpione”, rappresenta per uomini e donne, che potrebbero non affrontare mai un processo, un campo di detenzione preventiva senza via di uscita. Ancor più oggi, con il rischio elevato di contrarre il Covid–19…”.
Ed ancora: “Le uniche aree ristrutturate sono quelle riservate agli uffici amministrativi, una piccola clinica medica e due edifici per il personale che includono la sala di riposo degli ufficiali, la biblioteca, la lavanderia e la cucina centrale. Le sezioni H1 e H2, che si trovano a destra dell’accesso principale, circondate da un muro con due porte realizzate con griglie e lamiere di ferro per bloccare la visione dal cortile esterno, e le sezioni H3 e H4, a sinistra, anch’esse circondate da pareti interne e due ingressi blindati, sono pressoché invivibili. Soprattutto d’estate quando le temperature raggiungono i 50 gradi e dalle acque del Nilo, poco distante, salgono nugoli di zanzare. Ogni sezione è composta da quattro aree di 20 celle di circa tre metri per tre metri e mezzo, dove vengono stipati fino a 15/20 detenuti. Ogni locale ha un piccolo bagno, un lavabo e piani di cemento per dormire.
Un incubo. Ma è il blocco 4, quello di massima sicurezza, il luogo dove le condizioni di vita diventano insostenibili e si consuma il dramma, l’orrore, delle torture più atroci: cibo infestato da insetti e distribuito in contenitori sporchi, umiliazioni e sevizie continue. «I pochi prigionieri sopravvissuti ci hanno raccontato di metodi cruenti sistematici nel carcere di Tora, in particolare nella sezione ‘Scorpion’ – racconta Ahmed Alidaji, ricercatore di Amnesty International al Cairo fino al 2017 – Io stesso ho raccolto la denuncia di un giovane che insieme ad altri 19 compagni di prigionia è stato denudato e frustato con bastoni sulla schiena, sui piedi e sui glutei dopo che i soldati avevano trovato nella cella una radio tascabile e un orologio. Stessa sorte per un gruppo di 80 occupanti di un intero blocco quando uno di loro è stato scoperto in possesso di una penna. A chi si ribella viene riservato un trattamento anche peggiore. Gli agenti penitenziari, dopo avergli affibbiato nomi femminili, li violentano a turno come “punizione” per aver violato le regole della prigione’ conclude l’attivista.
Non sorprende che ai prigionieri della ‘Scorpion’ venga negato il permesso di vedere i familiari, anche se le autorità carcerarie affermano che sia una misura necessaria per impedire ai leader di gruppi terroristici di inviare istruzioni per attacchi contro turisti, stranieri e forze di sicurezza. Ma la gran parte dei detenuti accusati di terrorismo non ha mai commesso reati o azioni che giustifichino la grave incriminazione. Come Patrick Zaki, lo studente egiziano dell’Università di Bologna imprigionato nel carcere di Tora da otto mesi e ancora in attesa di giudizio”.
Più della metà dei detenuti nelle carceri lo sono per motivi politici. Per contenerli, il governo ha dovuto costruire 19 nuove strutture carcerarie. Il generale-presidente esercita un potere che si ramifica in tutta la società attraverso l’esercito, la polizia, le bande paramilitari e i servizi segreti, i famigerati Mukhabarat, quasi sempre più di uno. Al-Sisi si pone all’apice di un triangolo, quello dello Stato-ombra: esercito, Ministero degli Interni (e l’Nsa, la National Security Agenc.) e Gis (General Intelligence Service, i servizi segreti esterni). Se lo standard di sicurezza si misurasse sul numero degli oppositori incarcerati, l’Egitto di al-Sisi I° sarebbe tra i Paesi più sicuri al mondo: recenti rapporti delle più autorevoli organizzazioni internazionali per i diritti umani, da Human Rights Watch ad Amnesty International, calcolano in oltre 60mila i detenuti politici (un numero pari all’intera popolazione carceraria italiana): membri dei fuorilegge Fratelli musulmani, ma anche blogger, attivisti per i diritti umani, avvocati…Tutti accusati di attentare alla sicurezza dello Stato. Lo Stato di polizia all’ombra delle Piramidi.
Roma, c’è un problema
Cosa sia la “giustizia” nel regno del presidente-carceriere, Globalist lo ha raccontato con decine di articoli e interviste. Il problema non è al Cairo. Il problema è a Roma. Perché solo un Paese senza spina dorsale avrebbe potuto accettare la sequela infinita di provocazioni, schiaffi in faccia, umiliazioni a getto continuo ricevute dal regime egiziano. L’Italia questa schiena dritta ha dimostrato di non averla. Non l’ha il ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, e, spiace dirlo, non l’ha neanche il presidente del Consiglio, Mario Draghi. All’Egitto che fa sfregio di legalità, nel caso Zaki e in quello Regeni, l’Italia ha risposto con una versione miserabile di realpolitik. All’Egitto abbiamo concesso tutto e di più: invece di sanzionarlo, gli abbiamo venduto pure le fregate. Un cedimento continuo. Non abbiamo neanche avuto il coraggio di fare il minimo sindacale: richiamare il nostro ambasciatore al Cairo. Proni, succubi, ambigui, ipocritamente realisti, doppiogiochisti. Così l’Italia si è mostrata nella vicenda Zaki come in quella Regeni. E il titolare della Farnesina ha anche l’ardire di rivendicare un ruolo di primo piano dell’Italia nel Mediterraneo. La linea rossa della spudoratezza è stata ampiamente superata.