Israele, c'è vita a sinistra? Quando stare al governo non vuol dire "governare"
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Israele, c'è vita a sinistra? Quando stare al governo non vuol dire "governare"

Il suo nome è Hagai El-Ad, ed è il direttore esecutivo di B’Tselem, l’ong israeliana che monitorizza la situazione nei T.O. in materia di diritti umani.

Urna in Israele
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Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

4 Ottobre 2021 - 12.33


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Presidente Biden, non contribuisca a spacciare un Bantustan per uno Stato. E se vuole saperne di più, trovi il tempo per leggere quanto scritto da chi la realtà dei Territori palestinesi occupati la conosce come pochi altri. Non si allarmi: non è un affiliato ad Hamas. E’ un cittadino d’Israele. Il suo nome è Hagai El-Ad, ed è il direttore esecutivo di B’Tselem, l’ong israeliana che monitorizza la situazione nei T.O. in materia di diritti umani.

Prospettiva-Bantustan

Scrive El-Ad su Haaretz:” Restringere il conflitto  è la calda merce politica israelo-palestinese mainstream di questi tempi.  Già nella sua primissima intervista come primo ministro designato, nel giugno di quest’anno, il futuro premier israeliano Naftali Bennett ha proclamato che ‘ridurre il conflitto’ era la sua ‘filosofia’ per gestire il futuro dei palestinesi.  Alla fine di agosto, il nuovo premier ha portato questa stessa merce alla Casa Bianca nel suo primo incontro con il presidente americano Joe Biden: crescita continua degli insediamenti per gli israeliani, senza libertà, diritti o indipendenza per i palestinesi e certamente senza negoziati; il tutto senza annessioni formali e una migliore “qualità della vita” per i palestinesi obbedienti.  E questa settimana, nel suo discorso inaugurale davanti all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, Bennett ha ulteriormente ridimensionato la questione – al punto di non menzionarla nemmeno. In un’intervista al New York Times pochi giorni prima del suo primissimo incontro come primo ministro con il presidente Biden, Bennett ha descritto il suo governo come impegnato a ‘trovare il terreno di mezzo in modo tale che noi  [israeliani] possiamo concentrarci su ciò su cui siamo d’accordo”. In quell’intervista, Bennett ha spazzato via le documentate da parte di gruppi di diritti umani palestinesi, israeliani e internazionali, che la politica israeliana, dalle quali emerge con nettezza che  la sua ‘terra di mezzo’- è apartheid. La visita di Bennett a Washington è stata considerata un successo. Solo pochi giorni fa, nel suo primo discorso come presidente davanti all’Assemblea Generale dell’Onu, Biden ha detto, a proposito di una soluzione a due Stati: ‘Siamo molto lontani da quell’obiettivo’. Questa è la soluzione dei due Stati in cui lui continua a credere e che Bennett rifiuta apertamente. Verso la fine del suo discorso all’Assemblea generale delle Nazioni Unite, Biden ha parlato in modo commovente del coraggio delle persone in Bielorussia, Birmania, Siria, Cuba, Venezuela, Sudan, Moldavia e Zambia, nella lotta per la democrazia e la dignità umana. In qualche modo, in questa parte del suo discorso, i palestinesi sono stati cancellati. Infatti, sembrano essere ‘molto lontani’ da un presidente americano che osa identificarsi con la loro causa, la loro libertà e la loro lotta per la dignità umana. Il modello di lunga data di Israele per riuscire a farla franca con l’apartheid senza subire conseguenze internazionali si basava di solito sul fatto di pagare il necessario servizio verbale ai ‘negoziati’ e all’interminabile ‘processo di pace’, mentre si caratterizzava attentamente per un personaggio digeribile a livello internazionale – pensate a Shimon Peres sotto Ariel Sharon – per gestire il marketing all’estero. Anche Netanyahu ha seguito attentamente questo copione: si pensi al suo discorso di Bar Ilan, fino all’ingresso di Donald Trump alla Casa Bianca. Ma ora, con Trump fuori dalla Casa Bianca (almeno fino al 2024), è diventato essenziale per Israele ricalibrare la sua immagine. Dopo quattro anni di aperto allineamento con Trump – e con il trumpismo – Israele aveva bisogno di un non-Netanyahu per prendere le distanze da quei residui tossici. In questo senso chiave, le élite politiche di Israele hanno abilmente soppesato i chiari benefici di avere un non-Netanyahu come primo ministro – persino un ex leader dei coloni a capo di un governo di coalizione molto insolito – per gestire meglio un presidente democratico alla Casa Bianca. 

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Ciò che è notevole in questo stato di cose è che semplicemente non essendo guidato da Netanyahu, Israele riesce a riavviare la sua immagine internazionale senza alcun cambiamento sostanziale nella politica. Il suo attuale premier non-Netanyahu non ha nemmeno bisogno di spruzzare in giro il buon vecchio lip service – infatti egli, molto sinceramente, dichiara apertamente che non ci saranno negoziati e nessuna indipendenza palestinese. Come può essere digeribile a livello internazionale? Semplicemente perché Bennett non è Netanyahu. Proprio come con la ‘crisi’ del 2020 riguardante la potenziale annessione formale, la preoccupazione qui non riguarda una politica significativa, la libertà o la dignità umana. Si tratta solo di apparenze e negabilità. L’annessione formale era una falsa pista – Israele fa quello che vuole ovunque in Cisgiordania a prescindere – ma se fosse passata attraverso la formalizzazione, sarebbe stato un enorme imbarazzo per l’UE (e per un presidente americano non-Trump) in quanto avrebbe esposto la riluttanza internazionale a ritenere Israele responsabile. Inoltre, avrebbe pubblicamente sgonfiato l’aria del palloncino della soluzione dei due Stati che la comunità internazionale ha gonfiato con vuota retorica per decenni. Lo stesso vale per quanto riguarda un Netanyahu contro un non-Netanyahu che continua a guidare il governo di apartheid di Israele sui palestinesi: si consideri quanto sarebbe stato politicamente più complicato per il presidente Biden accettare il no-negoziati-più-insediamenti da un primo ministro Netanyahu. Ma da un non-Netanyahu? Facile. E nella realtà, sul terreno? I palestinesi sono stati per decenni testimoni – e hanno lottato contro – l’effettiva riduzione delle loro terre, libertà e diritti. Sanno fin troppo bene che ‘restringere il conflitto’ – cioè permettere a Israele di continuare con le sue implacabili politiche contro di loro finché il furto delle loro terre non viene formalizzato attraverso l’annessione ufficiale – significa un ulteriore restringimento del loro mondo.  Ridotto fino a che punto? Da qualche parte tra le dimensioni di un Bantustan e una cella di prigione: i palestinesi obbedienti potrebbero vedere il loro Bantustan permesso di migliorare economicamente; quelli disobbedienti – Israele rifiuta qualsiasi forma di opposizione o protesta palestinese – dovrebbero aspettarsi di affrontare misure che vanno dal rifiuto dei permessi, al carcere, alla fucilazione. Mentre gli insediamenti continuano a espandersi e le case palestinesi continuano a essere demolite, mentre si costruiscono infrastrutture permanenti che aprono la strada a un milione di coloni israeliani in Cisgiordania, mentre Gaza rimane sotto blocco e i palestinesi continuano a essere uccisi impunemente dalle forze di sicurezza israeliane – ‘restringere il conflitto’ sono le parole magiche che un primo ministro di Israele non-Netanyahu deve articolare affinché la comunità internazionale accetti una Palestina sempre più piccola. La ‘terra di mezzo’ israeliana di milioni di palestinesi – metà della popolazione che vive sotto il controllo di Israele – che sopportano una forma o l’altra di sottomissione, con solo la metà ebrea della popolazione che ha pieni diritti (cioè l’apartheid) ha così ottenuto un prolungamento della vita. È bastato che un non-Netanyahu lo ribattezzasse come una filosofia di ‘contrazione del conflitto’ . Questa ridenominazione di idee stantie ora rigurgitate – pensate alla ‘pace economica’ o alle ‘misure di rafforzamento della fiducia’ – fornisce ai politici delle capitali occidentali una rinnovata negabilità per ciò che stanno effettivamente facendo: continuare a sostenere l’apartheid israeliana. Ma le persone di coscienza non riusciranno mai a non vedere i blocchi di cemento, le sbarre e i muri che Israele impone a metà della popolazione tra il fiume e il mare.  Salvare la faccia per politiche fallimentari può durare ancora per molto, perché, come ha detto lo stesso presidente Biden alle Nazioni Unite, ‘Il futuro apparterrà a coloro che abbracciano la dignità umana, non la calpestano’. Finora, quando si tratta della Palestina, Biden ha dimenticato il suo stesso consiglio e i suoi valori proclamati: Questo è molto spiacevole. I palestinesi ne stanno pagando il prezzo. Ma la politica estera degli Stati Uniti non deve rimanere per sempre dalla parte sbagliata della storia. Poiché gli attivisti palestinesi e gli alleati stanno cambiando il discorso a Washington e altrove, alla fine la politica seguirà.  È tempo di spingere oltre e più velocemente, perché il potere di dire la verità ridurrà le bugie, le distorsioni e le scuse. La Palestina non rinsecchita non è solo il futuro che dobbiamo abbracciare: è il futuro che possiamo rendere reale”, conclude il direttore di B’Tselem.

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La parola ad Odeh

Andare nella direzione indicata da El-Ad significa accantonare definitivamente il “Piano del secolo” di Donald Trump. Anche in quel Piano c’era un riferimento allo “Stato” palestinese.

 Definirlo Stato è ridicolo – insorge Ayman Odeh, leader della Joint List, rieletto alla Knesset, il Parlamento israeliano – Quello che è configurato è una sorta di Bantustan” nel quale i palestinesi verrebbero ingabbiati. Quello pseudo Stato non avrebbe il controllo dei suoi confini e dipenderebbe in tutto da Israele. Questo piano è stato partorito per essere rifiutato dalla dirigenza palestinese in modo tale da poter dire ‘ecco, vedete, non sanno dire altro che no’. 

Una linea che si ritrova nella lettera appello di 50 ministri e leader europei: “Il piano (americano)contraddice i parametri concordati a livello internazionale per il processo di pace in Medio Oriente, le risoluzioni delle Nazioni Unite pertinenti, compresa la risoluzione 2334 del Consiglio di Sicurezza, e i principi fondamentali del diritto internazionale – rimarcano i firmatari – Invece di promuovere la pace, rischia di alimentare il conflitto, a spese dei civili israeliani e palestinesi e con gravi implicazioni per la Giordania e per l’intera regione, dove ha trovato, così come in Europa e negli Stati Uniti, una diffusa opposizione.  Il piano concede l’annessione di parti ampie e vitali del territorio palestinese occupato e legittima e incoraggia l’attività illegale degli insediamenti israeliani. Riconosce solo le rivendicazioni di una parte su Gerusalemme e non offre una soluzione giusta alla questione dei rifugiati palestinesi. Prevede un futuro “Stato” palestinese senza controllo né sovranità sul suo frammentato territorio. La mappa presentata nel piano propone delle enclave palestinesi sotto il controllo militare israeliano permanente, che evocano agghiaccianti associazioni con i bantustan del Sudafrica”. Ed ancora: “Peace to Prosperity” non è una roadmap in grado di portare alla soluzione dei due Stati, né a qualsiasi altra soluzione legittima del conflitto. Il piano prevede una formalizzazione della realtà attuale nei territori palestinesi occupati, dove due popoli vivono fianco a fianco senza godere di pari diritti. Un esito con caratteristiche simili all’apartheid – un termine che non usiamo con leggerezza. La comunità internazionale, in particolare l’Unione Europea, deve impedire che questo scenario si verifichi, al fine di preservare la dignità e i diritti dei palestinesi, il futuro della democrazia israeliana e l’ordine internazionale basato sul diritto…”..

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D’altro canto, ad annientare la soluzione a “due Stati” non è sstato olo il duo Trump&Netanyahu. Perché del loro l’hanno messo, e tanto, i fratelli-coltelli arabi.

I fratelli-coltelli arabi

In apparenza sono tutti a fianco dei “fratelli palestinesi” nel loro rigetto del “Piano del secolo”. In apparenza. Perché se si va oltre le esternazioni ufficiali, assolutamente scontate, si scopre, anche grazie all’aiuto di autorevoli fonti diplomatiche e analisti internazionali, che la realtà, nel campo arabo, è molto più complessa e sfaccettata, e molto meno solidale con la “causa palestinese”. D’altro canto, la questione palestinese non è più da tempo una priorità nell’agenda, e negli interessi, dei paesi arabi più influenti o di attori regionali con disegni di potenza, come la Turchia e l’Iran. 

“E’ indubbio –  osserva il professor Nabil el-Fattah, già direttore del Centro di Studi Strategici di Al-Ahram (Il Cairo) – che da tempo non c’è leader arabo o musulmano che non abbia cercato di gestire in proprio la vicenda palestinese, inserendola all’interno dei propri disegni di potenza. Oggi Trump si fa forte della debolezza della leadership palestinese per forzare con il suo Piano”. Resta il fatto che non solo le monarchie del Golfo ma anche un Paese sunnita centrale in Medio Oriente, l’Egitto del presidente-generale Abdel Fattah al-Sisi, non abbiano cavalcato la retorica dell’indignazione anti-americana, e anti-israeliana, che in altri tempi aveva funzionato come fondamentale collante interno. Ma i tempi sono cambiati. E l’indignazione lascia il campo agli affari e a nuove alleanze. Con buona pace della “causa palestinese”.

D’altro canto, non è che i leader della destra israeliana non abbiano evocato la possibilità di uno Stato palestinese. Di cosa si trattasse,  nella realtà, lo ha spiegato molto bene a Globalist Hanan Ashrawi, il volto e l’immagine internazionale della delegazione palestinese che avviò i negoziati di Oslo-Washington. La prima donna ad essere nominata portavoce della Lega Araba. Più volte ministra dell’Autorità nazionale palestinese, parlamentare, paladina dei diritti umani nei Territori palestinesi. Insomma, una figura di primissimo piano. 

Quello della destra israeliana, spiega Ashrawi, “è solo fumo negli occhi per nascondere al mondo una politica di colonizzazione che ha reso impossibile attuare questa soluzione. Stato indipendente significa uno Stato compatto territorialmente, con piena sovranità su tutto il proprio territorio, sulle risorse idriche, con confini riconosciuti internazionalmente. Uno Stato del genere è configurato, anche nelle sue dimensioni territoriali, dalle risoluzioni Onu 242 e 338, quelle che indicano la Cisgiordania, la Striscia di Gaza e Gerusalemme Est come Territori palestinesi occupati. Questo non è uno Stato. E’ un Bantustan.  Mi auguro che il presidente Biden non continui su questa strada. Dice di essere favorevole alla soluzione a due Stati. Bene, ha gli strumenti per poter incidere. Non chiediamo un presidente con la kefiah ma neanche con la kippah”.

Una richiesta ragionevole, non crede Presidente Biden?

 

 

 

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