Il coraggio e la protervia. Il coraggio di una famiglia che non ha mai smesso di combattere per ottenere verità e giustizia per quel figlio e fratello barbaramente trucidato. La protervia di un regime che ha fatto di tutto per occultare la verità e calpestare la giustizia. E che oggi lascia quelle sedie vuote.
Il coraggio e la protervia
È iniziata stamani la prima udienza per l’omicidio di Giulio Regeni, ucciso a Il Cairo, in Egitto, nel 2016. Presenti nell’aula bunker di Rebibbia davanti alla Terza Corte d’Assise i genitori di Regeni, Paola e Claudio, e la sorella, Irene. In aula anche l’avvocato di famiglia, la penalista Alessandra Ballerini. Un’udienza “tecnica”, totalmente assorbita da questioni procedurali. Il primo nodo è quello legato all’assenza in aula dei quattro 007 egiziani accusati del sequestro e dell’omicidio del giovane ricercatore: il generale Sabir Tariq, i colonnelli Usham Helmi, Athar Kamel Mohamed Ibrahim, e Magdi Ibrahim Abdelal Sharif. La Presidenza del Consiglio dei ministri ha deciso di costituirsi parte civile nel processo. Nei confronti dei quattro il pm Sergio Colaiocco contesta i reati, a seconda delle posizioni, di sequestro di persona pluriaggravato al concorso in omicidio aggravato e concorso in lesioni personali aggravate. Nel procedimento si sono costituti parte civile i genitori del ricercatore trovato privo di vita nel febbraio del 2016. I giudici devono valutare se la mancata partecipazione è stata volontaria. La Procura di Roma ha ribadito che la pubblicità, mediatica e non solo, data all’inchiesta e al procedimento penale è tale da renderlo “fatto notorio”. Una posizione condivisa a suo tempo dal giudice dell’udienza preliminare che nel mandare a giudizio i quattro ha giudicato “volontaria” la decisione di non essere presenti in aula. Se anche la corte d’Assise farà sua questa impostazione il processo potrà proseguire con gli imputati giudicati in contumacia, altrimenti i giudici potrebbero sospendere il procedimento.
Pm, da imputati azioni per fuggire dal processo
“Una azione complessiva dei quattro imputati, e alcuni loro colleghi, compiuta dal 2016 e durata fino a poco fa, per bloccare, rallentare le indagini ed evitare che il processo avesse luogo in Italia. Da parte loro per 5 anni c’è stata una volontaria sottrazione, vogliono fuggire dal processo. Sono finti inconsapevoli”. Lo ha detto il procuratore aggiunto Sergio Colaiocco nel corso del suo intervento al processo Regeni e in particolare sul nodo dell’assenza in aula dei quattro 007 imputatati. “Qui non abbiamo una prova regina una intercettazione telefonica. Ma ci sono almeno 13 elementi – ha aggiunto – che dal 2016 a oggi, se messi insieme, fanno emergere che gli agenti si sono volontariamente sottratti al processo. La domanda è: perché gli imputati non sono presenti qui in questa aula, sono inconsapevoli o finti inconsapevoli? L’imputato ha diritto ad avere tutte le notifiche del processo ma anche il dovere di eleggere il proprio domicilio. L’Egitto su questo punto non ha mai risposto. In generale su 64 rogatorie inviate al Cairo, 39 non hanno avuto risposta. Abbiamo fatto quanto umanamente possibile per fare questo processo e sono convinto che oggi i quattro imputati sappiano che qui si sta celebrando la prima udienza”.
Una battaglia di legalità
Dopo cinque anni e mezzo di faticosa battaglia vogliamo un processo. Ma che sia regolare, siamo qui per proteggere la verità”. Lo hanno detto gli avvocati Alessandra Bellerini e Francesco Romeo, legali della famiglia di Giulio Regeni, nel corso del loro intervento al processo. I legali hanno fatto riferimento ai depistaggi clamorosi messi in atto dalla National Security e dagli imputati stessi per sviare le indagini ed evitare il processo. Dal finto movente omosessuale, all’uccisione della banda di rapinatori fino ad arrivare al film sulla vicenda di Regeni, andato in onda sui media egiziani e comparso anche sui social network, “evidentemente diffamatorio tanto che i genitori di Giulio hanno presentato una denuncia-querela alla Procura di Roma”. Ballerini ha ricordato che a Giulio furono “fratturati denti e ossa. Incise lettere sul corpo. La madre lo riconoscerà dalla punta del naso”. Tutto ciò è avvenuto “in un luogo di tortura della National Security. Giulio muore non per le torture ma per torsione del collo, perché qualcuno decide che doveva morire. In questi anni abbiamo subito pressioni e i nostri consulenti in Egitto sono stati arrestati e torturati”.
Testimoni “eccellenti”
Nella lista testi depositata Paola e Claudio Regeni chiedono di ascoltare come testimoni i presidenti del Consiglio che in Italia si sono succeduti negli ultimi cinque anni: Matteo Renzi, Paolo Gentiloni, Giuseppe Conte e il premier in carica Mario Draghi. La parte civile cita anche i ministri degli Esteri e i sottosegretari che, negli anni, hanno avuto la delega ai servizi segreti. In totale sono otto i testimoni sentiti dalla Procura che in questi mesi hanno fornito elementi determinati a ricostruire quanto avvenuto tra il gennaio e il febbraio del 2016 al Cairo. Otto persone che accusano in modo chiaro e credibile i quattro. Da tre testi, in particolare, sono arrivate conferme sul fatto che i servizi segreti cairoti avevano pianificato i depistaggi già nelle ore successive alla morte di Giulio, di cui erano a conoscenza il 2 febbraio, 24 ore prima del ritrovamento “ufficiale” del corpo, stabilendo di inscenare una rapina finita nel sangue. L’indagine dei pm di Roma è andata avanti di fatto senza alcuna collaborazione da parte delle autorità egiziane.
Le tappe di un’odissea che non ha fine
25 gennaio 2016: Viene diffusa la notizia della scomparsa di Giulio Regeni. Gli amici su Twitter lanciano l’hashtag #whereisgiulio. Si scoprirà poi che Giulio è stato prelevato da sconosciuti alla metropolitana della stazione Dokki.
3 febbraio 2016: Un corpo con evidenti segni di tortura viene ritrovato sul ciglio di una strada non lontana dal Cairo. Nella stessa giornata arriverà la conferma che si tratti del giovane ricercatore italiano.
4-7 febbraio 2016: Sono giorni convulsi in cui vengono fornite diverse ricostruzioni sulla morte di Regeni, dall’incidente stradale alla rapina. Mentre la salma fa ritorno in Italia, Roma apre un’inchiesta inviando una squadra in Egitto per far luce sulla vicenda.
12 febbraio 2016: Si celebrano a Fiumicello, il paese friulano dove era nato, i funerali di Giulio a cui partecipano familiari e amici, molti provenienti dall’Inghilterra.
24 marzo 2016: L’Egitto sostiene di avere ucciso gli assassini di Regeni che sarebbero i membri di una banda criminale, morti in una sparatoria con la polizia. Il ministero dell’Interno egiziano annuncia inoltre che, nell’abitazione della sorella del capobanda, è stata recuperata una borsa con all’interno i documenti di identità del ricercatore italiano.
8 aprile 2016: L’Italia, delusa per il primo incontro con le autorità egiziane, ferma la collaborazione con il Paese africano richiamando l’ambasciatore al Cairo, Maurizio Massari. L’11 maggio verrà sostituito con Giampaolo Cantini che non si insedia subito.
1 novembre 2016: Una delegazione della procura di Roma viene ricevuta al Cairo. Vengono chiesti e ottenuti alcuni oggetti personali di Giulio: passaporto, tesserini universitari e bancomat ritrovati nel mese di marzo.
23 gennaio 2017: Pubblicato da una televisione egiziana un video in cui si vede Giulio Regeni parlare con Mohamed Abdallah, capo del sindacato degli ambulanti egiziani, colui che ha affermato di aver denunciato il ricercatore italiano credendolo una spia.
14 agosto 2017: L’Egitto invia ai magistrati romani nuovi documenti relativi a un interrogatorio eseguito nei confronti dei poliziotti che si sono occupati del caso Regeni. La procura del Cairo e di Roma, in una nota congiunta, comunicano che si tratta di “un passo avanti nella collaborazione”.
4 settembre 2017: L’allora ministro degli Esteri italiano, Angelino Alfano, davanti alla Commissione esteri di Camera e Senato spiega la decisione di inviare l’ambasciatore Cantini in Egitto dove il 14 settembre prenderà incarico. “L’Egitto è un partner ineludibile per l’Italia, esattamente quanto l’Italia è un partner imprescindibile per l’Egitto”, dichiara Alfano.
11 gennaio 2018: La procura di Roma vorrebbe raccogliere la testimonianza di Maha Abdelrahman, tutor di Giulio Regeni a Cambridge. La polizia, che ne ha perquisito casa e ufficio, fa sapere di aver lavorato in un clima di perfetta collaborazione da parte della docente. Una tesi diversa è invece quella del pm Colaiocco che il 6 febbraio 2020, davanti alla commissione parlamentare, dirà: “Rimane per noi un mistero l’atteggiamento della professoressa che non ha mai collaborato con le indagini e non ha più risposto dopo il primo contatto formale”. A due anni dalla scomparsa di Regeni viene pubblicata una lettera di Giuseppe Pignatone, procuratore capo di Roma, in cui si specifica lo stato delle indagini. Si racconta degli ostacoli e delle complicazioni nel lavoro con la procura egiziana. Pignatone ricorda come il movente dell’omicidio vada ricondotto esclusivamente alle attività di ricerca dello studente.
29 novembre 2018: Il presidente della Camera Roberto Fico dichiara che “la Camera dei deputati sospenderà ogni tipo di relazione diplomatica con il Parlamento egiziano fino a quando non ci sarà una svolta vera nelle indagini e un processo che sia risolutivo”. Il 3 dicembre viene insediata la Commissione parlamentare di inchiesta sulla morte di Giulio Regeni il cui presidente è Erasmo Palazzotto di LeU.
4 dicembre 2018: La procura di Roma iscrive cinque persone nel registro degli indagati. Sono ufficiali della National Security egiziana. Nei loro confronti Pignatone e il pm Sergio Colaioco contestano il reato di concorso in sequestro di persona.
10 dicembre 2020: I magistrati romani chiudono le indagini nei confronti di quattro 007 egiziani (Tariq Sabir, Athar Kamel Mohamed Ibrahim, Uhsam Helmi e Magdi Ibrahim Abdelal Sharif, tutti per sequestro di persona e l’ultimo anche per omicidio). Per un quinto viene chiesta l’archiviazione.
31 dicembre 2020: I genitori di Giulio Regeni annunciano di voler procedere con un esposto-denuncia contro lo Stato italiano per violazione della legge 185/90 che vieta l’esportazione di armi “verso Paesi responsabili di violazione dei diritti umani accertati dai competenti organi e il governo egiziano è tra questi”.
20 gennaio 2021: I pm firmano la richiesta di rinvio a giudizio.
25 maggio 2021: Il gup Pierluigi Balestrieri manda a processo i quattro 007 dell’Egitto.
14 ottobre 2021: Al via il processo in Corte d’assise nell’aula bunker di Rebibbia. Gli imputati sono il generale Sabir Tariq, i colonnelli Usham Helmi, Athar Kamel Mohamed Ibrahim, e Magdi Ibrahim Abdelal Sharif per il reato di sequestro di persona pluriaggravato (nei confronti di quest’ultimo i pm contestano anche il concorso in lesioni personali aggravate e il concorso in omicidio aggravato). La presidenza del Consiglio deposita la richiesta di costituzione di parte civile.
Anche oggi che inizia il processo ai suoi boia, Giulio Regeni fa cose. Il nostro governo diventa parte civile (benvenuto!), mentre il ras d’Egitto rivendica il diritto di massacrare alzando il suo dito sporco di sangue. Sangue anche nostro. #veritapergiulioregeni #PatrickZaki, twitta Carlo Verdelli.
La sfida del presidente-depistatore
Il riferimento è a quanto proclamato, alla vigila dell’apertura del processo, dal presidente-depistatore, al secolo Abdel Fattah al-Sisi. “Non abbiamo bisogno che nessuno ci dica che i nostri standard sui diritti umani comportano violazioni. Sono responsabile di 100 milioni di anime, non è una cosa facile”.Così al -Sisi, parlando al vertice dei Paesi del gruppo di Visegrad a Budapest. In compagnia di cotanti autocrati liberticidi, il “faraone” sentiva di giocare in casa, ribadendo che l’Egitto non si piegherà ad alcun “diktat” europeo circa il rispetto dei diritti che hanno riportato dichiarazioni rese dal capo di Stato al summit del gruppo di Visegrad composto da Ungheria, Polonia, Repubblica ceca e Slovacchia. Sisi “ha detto ai leader del vertice: avete a che fare con uno Stato che rispetta se stesso e rispetta pienamente la sua gente. E ha detto: In Egitto c’è un potere che non si sottomette a nessun diktat”, riporta il quotidiano indipendente Al Masry Al Youm. Rivolgendosi esplicitamente “ai nostri amici europei”, Sisi ha sostenuto che “bisogna capire cosa sta succedendo in Egitto”. “L’Egitto rispetta il proprio popolo e non si sottomette ad alcun diktat”, hanno titolato in maniera identica i governativi Al Ahram e Al Gomhuria. Già in passato Sisi aveva respinto critiche e denunce internazionali sul rispetto dei diritti umani in Egitto. Solo il mese scorso, sfruttando l’occasione del varo della prima “strategia nazionale” sui diritti umani, l’ex-generale aveva sostenuto che voler imporre all’Egitto una visione occidentale della tutela di questi diritti fondamentali è un “approccio dittatoriale”.
Parole che, se ce ne fosse stato ancora bisogno, spazzano via ogni dubbio riguardo a quello che sarà l’atteggiamento dell’Egitto, indipendentemente dall’esito del processo ai quattro della National Security: ostruzionismo e mancato riconoscimento di una verità processuale che non combaci con le tesi del Cairo. Una verità che i giudici di Roma dovranno svelare. E’ il solo modo per onorare la memoria di Giulio Regeni, rapito, torturato e assassinato. Un assassinio di Stato all’ombra delle Piramidi.