Una notte con Suleiman, al confine bielorusso e dell'umanità
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Una notte con Suleiman, al confine bielorusso e dell'umanità

La testata OKO.Press racconta una storia direttamente dal confine tra Bielorussia e Polonia, dove si sta consumando una tragedia umanitaria

Una notte con Suleiman, al confine bielorusso e dell'umanità
Il confine polacco-bielorusso
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Onofrio Dispenza Modifica articolo

23 Novembre 2021 - 17.45


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Come il Mediterraneo, la linea di confine tra Bielorussia e Polonia ogni giorno racconta storie di ingiustizia. Nel Mediterraneo, le onde alte, le barche sfondate e le minacce dei libici, nella terra del Nord segnata dal filo spinato e dagli uomini in armi, il cinismo dei regimi, la debolezza dell’Europa. Storie su storie, dove – per fortuna – qui come nel Mediterraneo, entrano in scena coraggio, determinazione e umanità dei volontari.

Nei boschi che si affacciano sul filo spinato alzato dal regime di Varsavia, che gioca alla guerra col regime bielorusso manovrato da Mosca, i volontari preferiscono muoversi di notte. Sfidano le contrapposte guardie di frontiera, con l’aiuto delle segnalazioni di chi abita nei villaggi di frontiera raggiungono i profughi, li sfamano, li dissetano, li vestono, li curano delle ferite.

Accanto ai volontari, a chi mette una lanterna verde alla finestra per far capire ai profughi che in quella casa possono bussare, accanto a medici e infermieri, ci sono i giornalisti delle poche testate libere, testimoni della resistenza alla svolta autoritaria e liberticida di Varsavia. Hanno radici nel cattolicesimo del Paese, ma sono espressione delle parrocchie più che dei vertici della Chiesa polacca.

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OKO.press racconta una notte della sua Magdalena Chrzczonowicz, vice caporedattore del giornale.

Arriva una richiesta di aiuto dal bosco che costeggia un vicino villaggio: “Sto morendo di freddo!”. Si parte, si cerca dapprima, invano, in una radura, si chiedono alla centrale altri dettagli per raggiungere chi implorava aiuto. E’ nel bosco che Suleiman si fa avanti, viene allo scoperto. E’ solo, ha 24 anni, è siriano, arriva qui dalle alture del Golan, tra Siria, Israele e Libano. “Sei druso?”, gli chiede uno dei soccorritori che parla arabo. “Si”, risponde il giovane, sorpreso che tra loro c’è chi parla l’arabo. Druso, dunque, un motivo in più per fuggire da una terra dove lui e la sua gente, minoranza, pagavano due volte il clima di guerra continua, il braccio di ferro con Israele. 

Suleiman studiava per diventare tecnico di laboratorio medico. Da Beirut è andato in Bielorussia, in treno. Alle spalle si lasciava 15 anni di vita vissuta senza un giorno di pace. Ovunque armi, dice, così non si poteva vivere.

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Gli viene dato un brodo caldo, gli hanno portato acqua, da mangiare, un paio di scarpe – quelle ai piedi hanno la suola consumata – un cappotto, una coperta termica.

“I bielorussi mi hanno spinto verso il confine polacco, le guardie hanno tagliato il filo spinato, mi hanno spinto oltre, i polacchi mi hanno respinto tre volte nuovamente in Bielorussia”. E con le cattive, picchiato. Il giovane ha pure provato ad attraversare a nuoto il fiume di confine. E’tornato indietro per non morire. Qui da tempo è già inverno pieno, l’acqua è gelida e tra i profughi morti, si contano diversi assideramenti.

I soccorritori gli passano un pacchetto di sigarette, una scatola di fiammiferi. Fumano insieme. Poi Suleiman chiede: “Ci facciamo una foto insieme, voglio portarla con me, mostrarla agli amici quando avrò raggiunto la Germania”. Sorridono. A quel punto, e Suleiman a mostrare una sua foto, di quando era nel Golan, di quando studiava, per far vedere com’era, che non era così com’è adesso, sporco, smunto, e con la barba incolta. Ha le mani ferite. Gliele disinfettano. E’ allora che il ragazzo si vergogna delle unghie nere di sporcizia. Prova a pulirle aiutandosi con uno dei fiammiferi che estrae dalla scatola. Il sogno europeo può continuare a vivere.

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