Nelson Mandela ha vissuto non una, ma molte vite. È stato il figlio di un capo thembu, destinato a diventare consigliere di re nella sua regione natale, il Transkei; uno studente e un avvocato nero nel Sudafrica della segregazione razziale voluta dai nazionalisti bianchi; un attivista anti-apartheid e un leader dell’African National Congress. È diventato il prigioniero politico più famoso del mondo, tra il 1964 e il 1990, un Premio Nobel per la Pace e poi il primo presidente del Sudafrica democratico, dal 1994 al 1999. Dopo il suo ritiro dalla politica non ha smesso di essere una figura simbolo, utilizzata addirittura come sponsor di iniziative benefiche.
Della vita di Mandela, che ha attraversato il “secolo breve” (era nato nel 1918) e l’inizio di quello successivo, è stato scritto molto, se non tutto il possibile, così come del suo pensiero politico. Ma forse non esiste modo migliore, per ricordarlo, che affidarsi alle sue stesse parole. E – più precisamente – al bilancio che lo stesso ‘Madiba’ (soprannome che richiama il suo clan di appartenenza) affidava a una delle pagine conclusive della sua autobiografia, ‘Lungo cammino verso la libertà’:
“Non sono nato con la sete di libertà, sono nato libero, libero in ogni senso che potessi conoscere. Libero di correre nei campi vicino alla capanna di mia madre, di nuotare nel limpido torrente che scorreva attraverso il mio villaggio, di arrostire pannocchie sotto le stelle, di montare sulla groppa capace dei lenti buoi (…).
Solo quando ho scoperto che la libertà della mia infanzia era un’illusione, che la vera libertà mi era già stata rubata, ho cominciato a sentirne la sete. Dapprima, quand’ero studente, desideravo la libertà per me solo, l’effimera libertà di stare fuori la notte, di leggere ciò che mi piaceva, di andare dove volevo. Più tardi a Johannesburg, quand’ero un giovane che cominciava a camminare sulle sue gambe, desideravo le fondamentali e onorevoli libertà di realizzare il mio potenziale, di guadagnarmi da vivere, di sposarmi e di avere una famiglia, la libertà di non essere ostacolato nelle mie legittime attività.
Ma poi lentamente ho capito che non solo non ero libero, ma che non lo erano nemmeno i miei fratelli e sorelle (…). La libertà è una sola: le catene imposte a uno di noi pesano sulle spalle di tutti, e le catene del mio popolo erano anche le mie (…).
Sapevo che l’oppressore era schiavo quanto l’oppresso, perché chi priva gli altri della libertà è prigioniero dell’odio, è chiuso dietro le sbarre del pregiudizio e della ristrettezza mentale. L’oppressore e l’oppresso sono entrambi derubati della loro umanità.
Da quando sono uscito dal carcere è questa la mia missione, affrancare gli oppressi e gli oppressori. Alcuni dicono che il mio obiettivo è stato raggiunto, ma so che non è vero. Non abbiamo compiuto l’ultimo passo del nostro cammino, ma solo il primo su una strada che sarà ancora più lunga e più difficile; perché la libertà non è soltanto spezzare le proprie catene, ma anche vivere in modo da rispettare ed accrescere la libertà degli altri. La nostra fede nella libertà deve essere ancora provata”.
Il cammino verso la libertà inteso come una missione che non tollera pause, la consapevolezza che “insieme alla libertà vengono le responsabilità”: questo è il lascito di Mandela, e va oltre il Sudafrica, o la ristretta cerchia degli uomini politici. Siamo tutti eredi di Madiba.