Attenzione.: i neo-sionisti sono tornati. E rappresentano la faccia accomodante, “presentabile”, ” del suprematismo ebraico.
Di cosa si tratti lo racconta, con la consueta sapienza giornalistica e coraggio delle idee, l’icona del giornalismo radical israeliano: Gideon Levy
“Come funghi dopo un temporale, – scrive Levy su Haaretz – spuntano fuori, fanno capolino dalle loro tane, si strappano le maschere, si liberano dei loro travestimenti ed escono allo scoperto. Dopo aver temuto per anni di farlo, per non essere bollati come sostenitori di Satana, alias Benjamin Netanyahu, ora possono tornare ad essere gli Archie Bunkers che sono, gli Yair Lapid del ricco quartiere Gimmel di Ramat Aviv.
I borghesi ben pasciuti, infinitamente autocompiaciuti, che vogliono solo tranquillità, serenità, una bella vita e soprattutto continuare a sgobbare su se stessi e sul loro paese, che i loro padri hanno creato, senza che nessuno disturbi il loro banchetto autocompiaciuto.
La resistenza palestinese li disturba, così come Adam Raz con i suoi reportage del 1948, così come Moiz Ben Harosh con il suo odio per gli ashkenaziti. Tutto questo incrina la loro immagine di sé, così bella e illuminata ai loro stessi occhi. Questo è ciò che sta rubando il loro paese e lo sta portando giù per lo scarico, come hanno cantato nelle sessioni patriottiche con Saraleh Sharon.
Sono sui 40 e 50 anni, per lo più ashkenaziti, alcuni ex kibbutzim o moshavim, signori della terra. In gioventù, negli anni ’90, erano di sinistra. Erano così contenti di Oslo e così scioccati dall’assassinio di Yitzhak Rabin, che uccise anche la pace che era dietro l’angolo, se solo Yigal Amir non fosse esistito.
Erano i figli delle candele e dei sostenitori degli accordi di Ginevra, andavano ogni anno ai raduni di Rabin nella piazza omonima e cantavano: “Hai promesso la pace”. Un’intera generazione che chiedeva la pace. Poi Netanyahu è salito al potere, e si sono riversati nelle strade per scacciarlo. Che Guevara e Nelson Mandela fatti in casa.
Ora possono finalmente sdraiarsi sulle loro poltrone e rivelare le loro facce, essere di destra e nazionalisti senza essere sospettati di essere bibi-isti, che è la cosa peggiore in assoluto. Ora si può dire – in realtà sono tutti Yair Lapid, vuoti e di centro come lui, e le differenze tra loro e Naftali Bennett o Ayelet Shaked sono molto più piccole di quello che sembrano, se esistono davvero. Anche la differenza tra loro e Bezalel Smotrich è più piccola di quella tra loro e Ayman Odeh. Ecco perché l’attuale governo può esistere con tanta comodità. Non ci sono vere dispute ideologiche al suo interno.
Guardate come Merav Michaeli risponde a un attacco terroristico. Quando i palestinesi tendono un’imboscata a un’auto che scende da uno degli insediamenti più violenti e criminali di tutti e uccidono una delle persone che vi sono dentro, è “un attacco terroristico feroce e spaventoso”. Quando gli invasori dello stesso Homesh hanno torturato un ragazzo palestinese, l’hanno appeso a un albero e gli hanno bruciato i piedi, non abbiamo sentito dal ministro del Partito Laburista che è stato feroce e spaventoso. E quando i soldati hanno sparato in testa a un manifestante palestinese una settimana prima, Michaeli è rimasta in silenzio, proprio come quando le ONG palestinesi per i diritti umani sono state chiuse, e ha solo protestato “per come è stato fatto”. Dov’è la differenza ideologica tra lei e Bennett? O tra lui e Meretz, ora troppo impegnato a parlare dell’occupazione? E guardate cosa sta succedendo a Haaretz. Uri Misgav, il kibbutznik veterano di guerra in una serie di articoli penitenziali. Appena Netanyahu è caduto, sono cadute anche la maschera e la bandana. Improvvisamente la Nakba non è affatto solo una questione palestinese, il Golan rimarrà per sempre nelle mani di Israele. “Sviluppare il Golan è sbagliato anche adesso?” geme il cosacco derubato. E Ben Harosh non deve scrivere canzoni contro gli ashkenaziti, perché gli hanno dato dei premi. Uri Zaki, un pilastro del Meretz, nel suo nuovo lavoro sionista come presidente del Centro Herzl, scrive che non bisogna paragonare l’occupazione del Golan a quella della Cisgiordania perché il Golan è vuoto. Prima Israele ha cacciato 100.000 persone, e ora possiamo affermare che il Golan è vuoto e quindi non è occupazione. Uccide i suoi genitori e piange di essere orfano, poi si spaccia per di sinistra. Moran Sharir è anche dispiaciuto di non aver sostenuto “Il popolo è con il Golan”: “Siamo fortunati che allora non ci fosse un partner per la pace”.
Per concludere: .”I neo-sionisti sono tornati. Sia i suprematisti ebrei che quelli di destra. Basta non toccare la loro illuminazione. Sono meravigliosi, proprio come quelli di destra”.
Quell’accusa infamante
I premi Nobel per la pace Jimmy Carter, Desmond Tutu, Mairead Maguire. Organizzazioni per i diritti umani come Amnesty International, Human Rights Watch. E l’elenco potrebbe proseguire a lungo. Personalità e organizzazioni che hanno denunciato i crimini commessi a Gaza, e per questo sono stati considerati “antisemiti”.
La memoria torna a quell’estate di sangue del 2014. Ci sono anche sette premi Nobel per la Pace tra i 64 firmatari di una lettera aperta nella quale si chiede che venga applicato, nei confronti di Israele, un embargo internazionale per quanto riguarda la vendita delle armi. La lettera-appello è del 21 luglio 2014. La missiva, sul Guardian, chiede che il provvedimento venga preso per i “crimini di guerra e i possibili crimini contro l’umanità a Gaza”. “Israele – si legge nella lettera – ha ancora una volta scatenato tutta la forza del suo esercito contro la popolazione palestinese, in particolare quella della Striscia di Gaza, in un atto disumano e in una illegale aggressione militare. La capacità di Israele di lanciare questi attacchi impunemente deriva in gran parte dalla vasta cooperazione militare internazionale che intrattiene con la complicità dei governi di tutto il mondo. Chiediamo alle Nazioni Unite di attuare immediate misure di embargo militare nei confronti di Israele simili a quelle inflitte al Sudafrica durante l’apartheid”. Tra i firmatari dell’appello ci sono anche sette premi Nobel per la Pace: si tratta in particolare di Desmond Tutu, Betty Williams, Federico Mayor Zaragoza, Jody Williams, Adolfo Peres Esquivel, Mairead Maguire e Rigoberto Menchu. Ma non solo: il documento è stato sottoscritto anche da importanti accademici come Noam Chomsky e Rashid Khalidi, dai registi Mike Leigh e Ken Loach, dai musicisti Roger Waters e Brian Eno, dagli scrittori Alice Walker e Caryl Churchill e dai giornalisti John Pilger e Chris Hedges. Tra i firmatari, inoltre, ci sono anche due accademici israeliani: Ilan Pappe e Nurit Peled.
La destra israeliana e la stampa mainstream italiana li definirebbe antisionisti e, peggio ancora, antisemiti. Noi, al contrario, li consideriamo dei veri amici d’Israele. Perché un amico, un amico vero, non è quello che giustifica tutto quello che fai, ma che ha il coraggio di dirti che hai sbagliato e che proseguire su una certa strada è un errore esiziale. Vale per i singoli come per i popoli, gi stati e i governi. Israele incluso.
Israele, c’è ancora vita a sinistra?
Per provare a tornare ad una qualche rilevanza, la sinistra dovrebbe avere il coraggio delle idee, di saper andare controcorrente, e di dotarsi di una visione di lungo respiro. Quella delineata da un “Grande d’Israele”, recentemente scomparso: Zeev Sternhell. Così il grande storico israeliano ragionava in una intervista concessa, pochi mesi prima della sua morte, a chi scrive.
“Integrazione o apartheid: tertium non datur. Certo, sul piano dei principi resta la soluzione ‘a due Stati”, e qui c’è la responsabilità storica della comunità internazionale, non solo degli Stati Uniti e dell’Europa ma anche dei Paesi arabi, nel non aver forzato su questo punto quando ne era il tempo. Oggi, di fronte alla realtà degli insediamenti nella West Bank, ad una presenza di oltre 400mila israeliani-coloni, a me pare francamente improbabile, per non dire impossibile, realizzare questa soluzione. Ma a Gerusalemme come nella West Bank, non devono esistere due leggi e due misure, una per i cittadini ebrei e l’altra, penalizzante, per i palestinesi. Ritengo peraltro che la prospettiva di uno Stato binazionale democratico possa essere un terreno d’incontro, di iniziativa comune, tra quanti, nei due campi, credono ancora nel dialogo e nella convivenza. Mi lasci aggiungere che credere in uno Stato binazionale non significa che le comunità che ne fanno parte rinuncino alla propria identità. Integrazione non è sinonimo di omologazione, di azzeramento delle diversità. Io penso che siano nel giusto i Palestinesi a voler essere persone libere e di aspirare al benessere soprattutto per i giovani. Ecco, io credo che, nelle condizioni date, questa aspirazione sia più praticabile in uno Stato binazionale”.
Uno Stato binazionale di nome Israele guidato da un arabo…
“Per quel che conosco della realtà palestinese, non mi pare che sul piano politico sia un monolite, tutt’altro – fu la sua risposta alla domanda che gli posi -. E non mi riferisco solo alle divisioni tra le fazioni storiche, Hamas e al-Fatah, ma penso anche a quelle che separano laici e fondamentalisti. E per quanto riguarda Israele, non ne parliamo…Voglio dire che non va dato per scontato che in uno Stato binazionale il voto sia incardinato ad un principio assoluto di appartenenza etnica, che annulli totalmente visioni diverse, spesso opposte, di società, del rapporto tra Stato e religione, di parità di genere, di pluralità culturale che attraversano sia Israele che la società palestinese. D’altra parte già oggi Israele è uno Stato che ha come terza forza parlamentare una Lista, che già nella sua definizione, Lista Araba Unita, fa riferimento esplicito ad una popolazione, quella araba israeliana, che rappresenta oltre il 20% del Paese. So bene le difficoltà, le resistenze, gli ostacoli da superare, che non sono solo politici ma culturali, identitari. Ma credo anche che questo sia il momento per un Nuovo Inizio. Sin qui si è detto: due popoli, due Stati. E’ tempo di affermare ‘due popoli, uno Stato. Democratico’”.
Il j’accuse di Falk
L’ex relatore speciale delle Nazioni Unite sui diritti umani dei palestinesi (2008-2014), il professor Richard Falk, ha scritto nel 2009, subito dopo la seconda guerra a Gaza condotta da Israele, che: “Israele ha avviato la campagna di Gaza senza un’adeguata base legale o una giusta causa, ed è stato responsabile della stragrande maggioranza delle devastazioni e della sofferenza dei civili nel suo complesso. Il fatto che Israele si sia basato su un approccio militare per sconfiggere o punire Gaza è stato intrinsecamente ‘criminale’ e come tale ha dimostrato sia violazioni della legge di guerra che la perpetrazione di crimini contro l’umanità”.
Oltre ai crimini di guerra e ai crimini contro l’umanità, Falk estese la sua argomentazione legale a una terza categoria. “C’è un altro elemento che rafforza l’accusa di aggressione. La popolazione di Gaza era stata sottoposta a un blocco punitivo per 18 mesi quando Israele ha lanciato i suoi attacchi”.
“Alla fine, il problema non eludibile è capire se i crimini di guerra ascrivibili al comportamento di Israele a Gaza interessano, ed in tale caso, quanto. Io credo che siano importanti in considerazione di quella che potrebbe chiamarsi “la seconda guerra”, la guerra della legittimità, che spesso finisce per dare forma alle conseguenze politiche più dei risultati del campo di battaglia. Gli Stati Uniti vinsero ogni battaglia in Vietnam e persero la guerra; lo stesso vale per la Francia in Indocina e Algeria, e per l’Unione Sovietica in Afghanistan. Lo Scià dell’Iran crollò, come fece il regime dell’apartheid in Sudafrica, a causa delle sconfitte nella guerra della legittimità.
A mio giudizio l’affiorare di queste imputazioni contro Israele, durante e dopo i suoi attacchi su Gaza, hanno dato luogo ad importanti successi per i palestinesi sul fronte della legittimità. La percezione popolare molto diffusa della criminalità israeliana, specialmente l’aver intrapreso una guerra usando un armamento moderno contro una popolazione indifesa, ha spinto le persone in tutto il mondo a proporre il boicottaggio, il disinvestimento e le sanzioni. Questa mobilitazione esercita una pressione su governi ed imprese perché abbandonino le relazioni con Israele, e richiama alla memoria la campagna mondiale anti-apartheid che tanto fece per mutare il panorama politico in Sudafrica. Vincere la guerra della legittimità non è garanzia di realizzazione dell’autodeterminazione palestinese nei prossimi anni, ma cambia l’equazione politica in una misura non pienamente apprezzabile in questo momento. L’ordinamento globale offre una struttura legale capace di imporre il diritto penale internazionale, ma non si migliorerà senza la presenza della volontà politica. Israele sarà probabilmente immune da iniziative giudiziarie formali per accuse di crimini di guerra, ma affronterà le conseguenze che hanno origine dalla veridicità che queste accuse possiedono per l’opinione pubblica mondiale. Questa ricaduta sta rimodellando i fondamenti dello scontro Israele/Palestina e sta dando, rispetto al passato, di gran lunga più importanza alla guerra della legittimità (combattuta su un campo di battaglia politico globale)”.
Così scriveva Richard Falk il 15 marzo 2009 in un artico dal titolo I crimini di Israele. Appello per un’indagine sugli attacchi a Gaza.
Falk, professore emerito di diritto internazionale all’Università di Princeton, è di origine ebraica. Anche lui è un antisemita?
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