Caso Regeni: tra giustizia o licenze (Eni) il Governo ha scelto le seconde
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Caso Regeni: tra giustizia o licenze (Eni) il Governo ha scelto le seconde

Eni si è aggiudicata dal ministero del Petrolio egiziano cinque nuove licenze esplorative, di cui quattro in qualità di Operatore, nell'offshore e onshore egiziano

Caso Regeni: tra giustizia o licenze (Eni) il Governo ha scelto le seconde
Giulio Regeni
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11 Gennaio 2022 - 17.30


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“Siamo soddisfatti che la nostra battaglia di giustizia possa proseguire Noi e con noi il ‘popolo giallo’ e la scorta mediatica in sei anni non abbiamo mai avuto tentennamenti. Adesso chiediamo al governo di fare la sua parte e di rispondere alle istanze del giudice e alle nostre pretese di giustizia. Il nostro Paese, il nostro Governo, scelga da che parte stare, se dalla parte di chi tortura e uccide e invoca impunità o di chi chiede il rispetto di diritti inviolabili”. Così Alessandra Ballerini, l’avvocato della famiglia di Giulio Regeni al termine dell’udienza preliminare di ieri al termine della quale i giudici hanno chiesto l’intervento del governo per sbloccare il processo a carico dei 4 agenti della National Security egiziana imputati del sequestro, le torture e l’omicidio di Giulio Regeni. 

Speranza e realtà

Il governo scelga da che parte stare. In decine di articoli e interviste, Globalist ha documentato da che parte il governo italiano, quello precedente e l’attuale, sta. 

Una risposta indiretta, ma chiarissima, viene da una notizia che c’entra, eccome se c’entra, con quanto sopra. 

La notizia è questa: recita un’agenzia Ansa “Eni si è aggiudicata dal ministero del Petrolio egiziano cinque nuove licenze esplorative, di cui quattro in qualità di Operatore, nell’offshore e onshore egiziano, dopo la positiva partecipazione al bando “Egypt International Bid Round for Petroleum Exploration and Exploitation” 2021 precedentemente annunciato dalla Egyptian General Petroleum Corporation e dalla Egyptian Natural Gas Holding Company attraverso l’Egypt Exploration and Production Gateway.   Nel renderlo noto con un comunicato, il gruppo energetico italiano spiega che le licenze si trovano nel Mediterraneo Orientale (Blocco “EGY-MED-E5” in partnership con BP 50%-50% e Blocco “EGY-MED-E6” IEOC 100%), nel Golfo di Suez (Blocco “EGY-GOS-13” IEOC 100%) e nel Deserto Occidentale (Blocchi “Egy-WD- 7” in partnership con APEX 50%-50% e “EGY-WD-9” IEOC 100%) con una superficie totale di circa 8.410 chilometri quadrati. Le licenze, prosegue Eni, “sono collocate all’interno di bacini prolifici con un contesto geologico petrolifero collaudato in grado di generare idrocarburi liquidi e gassosi, e possono contare anche su impianti di produzione e lavorazione vicini, oltre a un mercato esigente che consentirà una rapida valorizzazione delle potenziali scoperte esplorative”. 

Questi risultati, si rileva nella nota, “sono in linea con la strategia di Eni di continuare a esplorare e produrre gas per sostenere il mercato interno egiziano e contribuire all’esportazione di Gnl, grazie al recente riavvio dell’impianto di Gnl di Damietta”. 

Eni è presente in Egitto dal 1954 dove è attualmente il principale produttore del Paese equity di idrocarburi pari a circa 350.000 barili di petrolio equivalente al giorno”.

Giustizia o licenze: il Governo ha scelto. Cosa? La risposta è in questo comunicato.

C’è un giudice a Roma

Dopo la richiesta in aula del procuratore aggiunto, Sergio Colaiocco, il gup di Roma, Roberto Ranazzi, ha fissato una nuova udienza per il prossimo 11 aprile disponendo nuove ricerche degli imputati da compiere in Italia attraverso i Carabinieri del Ros e la trasmissione degli atti al Governo italiano per verificare eventuali esiti della rogatoria inoltrata all’Egitto nel 2019 e capire se ci siano margini per un’interlocuzione con le autorità egiziane. L’avvocato della famiglia, Alessandra Ballerini, ha commentato: “Ora tocca al governo dare una risposta”. Adesso si attende la risposta dell’esecutivo che fino a oggi ha cercato di attuare una strategia più dialogante con il regime di Abdel Fattah al-Sisi che, però, non è riuscita a portare i risultati sperati, visto che dal Cairo non è mai arrivata alcuna risposta alla rogatoria del 2019 con la quale si chiedeva l’elezione di domicilio per quelli che allora erano i 5 indagati per l’uccisione del ricercatore di Fiumicello. Ma la comunicazione ufficiale agli agenti della Nsa non è mai arrivata ed è proprio questo aspetto che sta bloccando lo svolgimento regolare del processo. Ieri, secondo quanto disposto dal gup, i Carabinieri per accertare il luogo di residenza o di lavoro degli imputati potranno utilizzare banche dati delle forze dell’ordine, elenchi telefonici e social network.

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L’udienza dii ieri, a due settimane dal sesto anniversario del sequestro di Regeni in Egitto, si era aperta con un sit-in a Piazzale Clodio, proprio davanti ai cancelli della Procura, alla presenza dei genitori del giovane friulano, Paola Deffendi e Claudio Regeni, e del loro avvocato, tutti stringendo tra le mani lo striscione giallo con scritto Verità per Giulio Regeni.

“La questione che riguarda la verità e la giustizia sulla morte di Giulio Regeni non è più solo una questione giudiziaria, ma è anche una questione politica che investe direttamente la responsabilità del nostro governo, non solo nell’ottenere gli indirizzi e la possibilità di notificare gli atti ai quattro imputati e quindi di svolgere il processo in Italia, ma più in generale di ottenere la collaborazione dell’Egitto affinché i responsabili della morte di Giulio Regeni siano processati e puniti per il reato che hanno commesso. Se il Governo non riesce a farlo, perde di credibilità sul piano internazionale, ma soprattutto viene messa in discussione la sua capacità di proteggere la vita e la dignità dei cittadini italiani nel mondo”, è stato il commento duro del deputato di LeU, Erasmo Palazzotto, presidente della Commissione parlamentare d’inchiesta sulla morte del ricercatore friulano, intervenuto a Che giorno è su Rai Radio1. Palazzotto non accetta inoltre l’interpretazione fornita dalle istituzioni negli ultimi anni secondo cui un approccio più dialogante abbia portato a dei risultati concreti nelle indagini sull’uccisione di Regeni: “Nel rapporto bilaterale con l’Egitto in questi anni la strategia italiana è stata sconfitta – aggiunge – Si è ribadito spesso che mantenere una linea di rapporto, aumentando la collaborazione con l’Egitto avrebbe favorito la cooperazione sul piano giudiziario. Questa strategia ha chiaramente fallito. È stata trascurata invece la necessità di costruire alleanze internazionali e di chiedere ai Paesi europei, come al Regno Unito, di esercitare pressioni nei confronti dell’Egitto affinché cooperasse”.

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Conclusioni inequivocabili

“I responsabili dell’assassinio di Giulio Regeni sono al Cairo, all’interno degli apparati di sicurezza e probabilmente anche all’interno delle istituzioni”. E’ quanto si legge nella relazione della Commissione parlamentare d’inchiesta sulla morte del dottorando italiano rapito al Cairo il 25 gennaio 2016 e ritrovato morto il 3 febbraio. Duro attacco anche alla magistratura egiziana ritenuta “ostile” e “lesiva” verso i colleghi italiani.

Giulio poteva essere salvato 

“C’è stato tutto il tempo per intervenire e per salvare la vita a Giulio Regeni. La responsabilità di questa inerzia grava tutta sulla leadership egiziana”. E’ la pesante accusa lanciata dalla Commissione parlamentare. “Gli elementi raccolti dalla commissione tendono ad escludere la casualità del ritrovamento” del corpo di Regeni “non solo perché l’occultamento di un cadavere avrebbe potuto avvenire in ben altro modo, ma anche per la vicinanza ad una sede degli apparati di sicurezza, circostanza pregnante come che la si voglia interpretare”. “Nei giorni della scomparsa non solo le istituzioni italiane hanno cercato Regeni. Tutta la rete degli amici, colleghi di Regeni si mobilita inoltre nelle ricerche, a cominciare dalla supervisor di Cambridge, la professoressa Maha Abdelrahman”. “È ipotizzabile che l’accanimento su Regeni sia il frutto del combinato disposto tra l’aspirazione ad una ricompensa da parte del sindacalista Said Abdallah – peraltro probabilmente non nuovo ad essere impiegato dai servizi segreti come dimostrerebbe il fatto che fosse in possesso dei contatti giusti per attivarli tempestivamente – e l’aspirazione a fare carriera di un’unità della National Security, desiderosa di recuperare nel nuovo regime il terreno perduto in termini di influenza politica rispetto all’epoca di Mubarak”, scrivono ancora i membri della Commissione parlamentare  d’inchiesta.

Da Egitto ostruzione a giustizia

“La mancata collaborazione delle autorità del Cairo si configura come un’oggettiva ostruzione al naturale decorso della giustizia italiana che reclama un’adeguata presa di posizione politica”. Lo afferma la Commissione parlamentare di inchiesta sulla morte di Giulio Regeni nella relazione finale. “E’ intollerabile – prosegue il documento – che da parte egiziana si ritenga di poter impunemente contravvenire alle più elementari concezioni del diritto ignorando che favorire la celebrazione del processo, ovvero parteciparvi da parte degli imputati, non implicherebbe affatto la sanzione della loro colpevolezza, ma significherebbe soltanto rispettare veramente e non solo formalmente l’ordinamento italiano”.

Il documentario “confezionato” per scagionare le istituzioni 

“Il progressivo arroccamento ostruzionistico dell’Egitto – si legge nella relazione – nei confronti dell’impegno delle istituzioni italiane per la  ricerca della verità e della giustizia sulla morte di Giulio Regeni è ben esemplificato dalla diffusione “ad orologeria”, alla fine dello scorso mese di aprile, di un documentario che ricostruirebbe il soggiorno al Cairo del giovane ricercatore, assolvendo da ogni responsabilità le autorità egiziane e riproponendo velatamente le trite allusioni ad una possibile attività spionistica ascrivibile alla sua affiliazione all’Università di Cambridge. Al di là del topos francamente poco più che letterario, qui rileva il fatto che il filmato, la cui realizzazione ha peraltro richiesto la destinazione di un non trascurabile finanziamento, sia stato diffuso sui social media in concomitanza con l’udienza preliminare allo svolgimento del processo e quindi trasmesso da una rete televisiva egiziana notoriamente compiacente”.  E ancora: “pur scontandone la sicura buona fede, lascia perplessi che talune personalità italiane politiche e militari, che pure hanno ricoperto importanti incarichi, abbiano potuto farsi coinvolgere in una simile operazione di contro- informazione, questa si’ tipica degli apparati di intelligence”.

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“Giulio non utilizzato da servizi esteri” 

“Un’altra ipotesi, talora ventilata sulla stampa e naturalmente spesso fatta propria dai media egiziani ed infatti ripresa nel documentario diffuso a fine aprile 2021, verte sull’eventualità che Giulio Regeni, anche non consapevolmente, possa essere stato utilizzato da servizi segreti di paesi terzi, ad esempio da quelli britannici. La commissione ha approfondito tale aspetto nel corso dei suoi lavori, avendo avuto modo di registrare come sia nell’ambito delle indagini svolte nel Regno Unito dagli inquirenti italiani, sia nelle attività informative dei nostri apparati di intelligence non vi sia alcun elemento che possa suffragare tale ipotesi”. E’ un passaggio della relazione finale della Commissione parlamentare di inchiesta sulla morte di Giulio Regeni.

Stato di polizia

“Il popolo egiziano ha vissuto in passato sotto governi dispotici, ma gli attuali livelli di repressione in Egitto non hanno precedenti nella sua storia moderna”, rimarca Bahey El-din Hassan, direttore del Cairo Institute for Human Rights Studies. “Le conseguenze sono potenzialmente terribili sia per i diritti umani che per la stabilità del Paese”. Nell’agosto 2020 il signor Hassan è stato condannato a 15 anni di carcere in contumacia da un tribunale per terrorismo in relazione al suo lavoro di difesa dei diritti umani nel Paese.

Nell’Egitto di al-Sisi i “desaparecidos” si contano ormai a migliaia. E più della metà dei detenuti nelle carceri lo sono per motivi politici. Per contenerli, il governo ha dovuto costruire 19 nuove strutture carcerarie. Il generale-presidente esercita un potere che si ramifica in tutta la società attraverso l’esercito, la polizia, le bande paramilitari e i servizi segreti, i famigerati Mukhabarat, quasi sempre più di uno. Al-Sisi si pone all’apice di un triangolo, quello dello Stato-ombra: esercito, Ministero degli Interni (e l’Nsa, la National Security Agenc.) e Gis (General Intelligence Service, i servizi segreti esterni).   Se lo standard di sicurezza si misurasse sul numero degli oppositori incarcerati, l’Egitto di al-Sisi I° sarebbe tra i Paesi più sicuri al mondo: recenti rapporti delle più autorevoli organizzazioni internazionali per i diritti umani, da Human Rights Watch ad Amnesty International, calcolano in oltre  60mila i detenuti politici (un numero pari all’intera popolazione carceraria italiana): membri dei fuorilegge Fratelli musulmani, ma anche blogger, attivisti per i diritti umani, avvocati…Tutti accusati di attentare alla sicurezza dello Stato. 

Lo Stato di polizia all’ombra delle Piramidi. Con il quale l’Italia continua a fare affari.

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