Colonie che crescono, detenuti palestinesi lasciati morire: la Palestina sotto occupazione
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Colonie che crescono, detenuti palestinesi lasciati morire: la Palestina sotto occupazione

Così muoiono i detenuti palestinesi. Abbandonati con addosso un pigiama sul ciglio della strada e morti per disidratazione

Colonie che crescono, detenuti palestinesi lasciati morire: la Palestina sotto occupazione
Repressione in Israele
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Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

3 Febbraio 2022 - 14.40


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Così muoiono i detenuti palestinesi. Abbandonati con addosso un pigiama sul ciglio della strada e morti per disidratazione. Trattati come pericolosi terroristi anche se sei un ottantenne o un ragazzo afflitto da gravi disabilità. Così cresce il “battaglione della morte” che degrada moralmente l’orgoglio d’Israele: l’Idf, le Forze di difesa israeliane.  

Il battaglione della morte

Una storia raccontata, su Haaretz, da uno dei più autorevoli giornalisti israeliani: Zvi Bar’el

Scrive Bar’el: “Ho difficoltà a capire come, sebbene fossero consapevoli dello stato fisico ed emotivo del detenuto, non siano riusciti a vedere e comprendere l’angoscia di un essere umano creato a immagine di Dio, e lo abbiano lasciato così, nelle sue condizioni, nel mezzo della notte, su una strada buia … come se fosse un oggetto inutile”.

Questa non è una citazione dell’indagine condotta dalle Forze di Difesa Israeliane sulla morte dell’ottantenne Omar Abdalmajeed As’ad, morto in circostanze molto simili. Queste sono le parole da far rizzare i capelli del giudice Haim Liran, che ha condannato i poliziotti Baruch Peretz e Assaf Yekutieli, che hanno abbandonato il prigioniero Omar Abu Jariban sul ciglio della strada, vestito con un pigiama da ospedale e un catetere per l’urina attaccato al suo corpo.

Abu Jariban morì quella stessa notte per disidratazione. La sentenza è stata emessa nel 2012, quattro anni dopo l’incidente. I poliziotti non erano soldati combattenti del battaglione Netzah Yehuda e non appartenevano alla gioventù delle colline e agli Haredim (uomini ultra-ortodossi) che erano stati espulsi dalle loro yeshiva. Quattro anni dopo è scoppiato il caso Elor Azaria, che ha coinvolto un soldato della Brigata Kfir che ha confermato l’uccisione di Abdel Fattah al-Sharif. Non era un membro di Netzah Yehuda e anche il suo atto fu percepito come una grave deviazione dai “valori dell’Idf”. “Questo non è l’Idf, questi non sono i valori dell’Idf e questa non è la cultura dell’Idf”, affermò l’allora capo di stato maggiore Gadi Eisenkot.

Passarono altri quattro anni e, come in un ciclo cosmico, arrivò il turno della prossima vittima del tradimento dei valori. Questa volta fu Eyad Hallaq, un giovane con autismo, che fuggì per paura dalle forze della polizia di frontiera e fu colpito sette volte. All’epoca, l’allora primo ministro Benjamin Netanyahu disse: “Quello che è successo con Eyad Hallaq è una tragedia. Si tratta di una persona con disabilità, con autismo, che è stata sospettata – ingiustamente, come sappiamo – di essere un terrorista in un luogo molto sensibile”. E qui (la sfortuna non finirà mai?) la Polizia di Frontiera non fa parte nemmeno di Netzah Yehuda.

Questo ciclo letale si sta accorciando, apparentemente a causa del cambiamento climatico, e due anni dopo Omar Abdalmajeed As’ad è stato assassinato. Questa volta l’indagine è stata rapida e ancora una volta si è scoperto che la vittima non era un palestinese di 80 anni ma valori dell’Idf. “L’incidente ha evidenziato un fallimento morale e un errore di giudizio delle truppe, minando seriamente il valore della dignità umana”, secondo il portavoce dell’Idf.

L’editoriale principale di questo giornale e l’op-ed di Yagil Levy, un sociologo politico che studia l’esercito, hanno chiesto che il battaglione Netzah Yehuda sia sciolto immediatamente, come se fosse il solo e unico ascesso pieno di pus che mina sistematicamente i valori dell’Idf. Sbarazzatene e l’Idf sarà purificato. Come se avessero già dimenticato i principi della cultura della violenza enunciati dall’ex comandante della Brigata Kfir, il Magg. Gen. Itai Virov. Nella sua testimonianza a favore del 1° tenente Adam Malul, accusato di aver aggredito dei palestinesi, ha detto: “Ricorrere alla violenza e all’aggressività per evitare un’escalation e la necessità di usare maggiore violenza non solo è permesso, ma a volte è necessario. Un pugno, uno spintone, anche quando i [palestinesi] non sono coinvolti in uno [scontro] – se questo può far avanzare il successo della missione, è sicuramente un’opzione”.

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Unità della Polizia di Frontiera, della Polizia di Israele e dello Shin Bet operano secondo questi principi. Queste organizzazioni hanno contribuito più della loro parte a minare i principi, che sempre, incredibilmente, cadono vittime di “casi eccezionali”. Ma nessuno ha chiesto o chiederà lo scioglimento della Polizia di Israele, della Polizia di Frontiera o della Brigata Kfir e dei suoi simili. È più facile sparare ad un bersaglio fittizio.

Il fuoco che ora viene diretto con precisione su Netzah Yehuda può portare o meno all’eliminazione di questo tumore maligno, ma non sopprimerà le crescite secondarie create dalla cultura della violenza gratuita sul campo di battaglia senza legge, dove la stagione della caccia è aperta tutto l’anno. Spodestare gli ufficiali o rimproverare il comandante della brigata non causerà una rivalutazione della cultura dell’abuso e dell’uccisione in altre unità dell’Idf, nella polizia israeliana o nella polizia di confine. Questo è un gioco di prestigio progettato per risolvere ciò che non può essere risolto. L’occupazione non è una fucina di valori, è il terreno di coltura di mutazioni disumane”.

Così Bar’el.

Un popolo imprigionato

Il 17 aprile si celebra la Giornata Internazionale di Solidarietà con i Prigionieri Palestinesi. Di loro si è tornato a parlare, recentemente, seguendo la battaglia del giornalista Al-Qeeq, che ha scelto, insieme a tanti altri prigionieri politici palestinesi, lo sciopero della fame come forma di protesta pacifica contro forme di detenzione ingiustificate da un punto di vista del diritto internazionale e lesive della dignità umana. Detenzioni che si accompagnano, infatti, ad interrogatori violenti a cui vengono sottoposti perfino i bambini, e a torture intollerabili che hanno lo scopo di spegnere qualsiasi tipo di resistenza, anche solo psicologica, al regime di occupazione. Dopo l’occupazione israeliana della Cisgiordania nel 1967 – ha ricordato in occasione del 17 aprile l’ambasciata di Palestina in Italia –  i palestinesi accusati di reati in base alla legge militare israeliana e giudicati nei tribunali militari sono stati più di 800.000: tale cifra costituisce circa il 20 per cento del numero totale di palestinesi che abitano nei Territori Palestinesi Occupati (TPO), ovvero il 40% della popolazione maschile totale.

A seguito delle rivolte iniziate negli ultimi mesi del 2015 e che proseguono nel 2016, i prigionieri palestinesi sono in continuo aumento. Al primo marzo 2016 i prigionieri nelle carceri israeliane erano 7000, tra i quali: 700 prigionieri in detenzione amministrativa, 440 bambini (di cui 98 sotto i 16 anni), 68 donne, 6 membri del Consiglio Nazionale Palestinese (CNP), 343 prigionieri dalla Striscia di Gaza –  spesso arrestati al valico di Erez, malati, quando rientravano dopo avuto il permesso di cura in Israele, 70 prigionieri dei territori occupati nel ’48, cioè Israele, 450 cittadini di Gerusalemme Est, e 458 condannati a vita. I prigionieri sono distribuiti in circa 17 prigioni, tutte, tranne una – il carcere di Ofer – all’interno di Israele, in violazione dell’Art. 76 della quarta Convenzione di Ginevra, per cui le forze di occupazione non possono trasferire i detenuti nel proprio territorio. La conseguenza pratica di questo sistema è che molti detenuti hanno difficoltà ad incontrarsi con i loro difensori palestinesi e a ricevere visite dai familiari perché ai loro parenti vengono spesso negati, per “motivi di sicurezza”, i permessi per entrare in Israele.

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Israele è l’unico Paese al mondo dove i bambini palestinesi – e solo quelli palestinesi – vengono sistematicamente giudicati da tribunali militari, passando per trattamenti disumani.  Ogni anno vengono arrestati e processati in questi tribunali tra i 500 e i 700 minorenni. Ad oggi, sono più di 400 i ragazzi detenuti in condizioni disastrose nelle prigioni israeliane di Ofer e Mejido.

Nel corso degli ultimi 5 anni, Israele ha nettamente intensificato le detenzioni arbitrarie dei bambini palestinesi e il 2015, in particolare, ha visto il più alto trend di arresti, ben 2.179, specialmente durante gli ultimi tre mesi dell’anno, quando ne sono stati detenuti 1.500. Lo scorso mese di marzo, invece, dei 647 palestinesi arrestati in Cisgiordania e a Gaza, i ragazzi erano 126.

Di solito – prosegue il report – questi giovani vengono catturati ai posti di blocco o nel cuore della notte, ammanettati e bendati, per essere poi condotti, in un uno dei centri per gli interrogatori presenti in Israele.

Fin dall’inizio della pandemia la maggior parte dei detenuti (arabi e israeliani) ha vissuto nel terrore del contagio. Le condizioni delle carceri israeliane sono pessime, con un enorme sovraffollamento. Non sorprende che il fenomeno sia particolarmente grave nelle strutture che ospitano i palestinesi. La grandezza media di una cella di Gilboa è di 22 metri quadrati, da cui bisogna sottrarre circa sei metri quadrati per la doccia, il bagno e il cucinino. In ognuna di queste celle vivono sei persone, con meno di tre metri quadrati a testa. 

Fino alla settimana scorsa la situazione nei penitenziari sembrava sotto controllo. Il numero di detenuti infettati era relativamente basso, e i malati erano sparsi in diverse strutture. A luglio i contagiati erano sette, di cui soltanto due nelle prigioni di sicurezza. Nessuno a Gilboa. Ma il 3 novembre è arrivata la notizia che 66 palestinesi detenuti a Gilboa erano positivi. Il 5 novembre il numero è salito a 87: ben 21 contagiati in due giorni su una popolazione carceraria di 450 detenuti. In meno di una settimana il virus ha colpito il 20 per cento dei detenuti. 

I giudici della corte suprema hanno riflettuto su questa impennata dei contagi? Hanno pensato che i promotori della petizione sapevano bene di cosa stavano parlando, quando hanno sottolineato il rischio di un focolaio a Gilboa? Hanno pensato che forse le autorità carcerarie non si stanno impegnando al massimo per evitare un focolaio proprio nella struttura indicata dalla petizione? Ricordano cosa hanno sostenuto gli avvocati del Centro legale per i diritti delle minoranze arabe in Israele? In quell’occasione i giudici hanno ripetuto l’opinione del governo, ovvero che il “distanziamento fisico” per ostacolare il contagio non si applica ai detenuti, che invece devono essere considerati come componenti di un’unica unità familiare che vivono insieme in un singolo ambiente. Anche a Gilboa. Gli avvocati del Centro legale per i diritti delle minoranze arabe hanno sottolineato che le guardie carcerarie entrano in ogni cella circa cinque volte al giorno. ‘Non è come una casa privata dove si può impedire l’ingresso delle guardie per essere al sicuro’, hanno spiegato. ‘Le guardie entrano ed escono, poi rientrano a casa e il giorno dopo tornano al lavoro’.. 

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Israele e le sue istituzioni sono ormai drogati dal disprezzo per le vite dei palestinesi. È per questo che hanno respinto due petizioni che chiedevano l’adozione di misure facilmente applicabili, che avrebbero potuto ridurre il rischio di contagio tra i detenuti palestinesi”. Sono brani di un lungo articolo che Amira Hass, storica firma di Haaretz, la giornalista israeliana che più conosce la realtà palestinese, scrisse nel novembre del 2020 per il quotidiano progressista di Tel Aviv e pubblicato in Italia da Internazionale. 

Negligenza deliberata
 “È noto che le carceri israeliane sono vecchie, sporche e sovraffollate. Sono carenti di forniture igienico-sanitarie, anche le più basilari”, dichiara l’attivista palestinese ed ex detenuto Mohammed Abed Rabo, 48 anni. ‘Anche nel migliore dei casi nelle celle vivono tra i sei e i dieci detenuti, ma spesso sono di più’. All’ora dei pasti e durante le attività all’aria aperta più di 120 persone stanno insieme a distanza ravvicinata. 

Abed Rabo teme che il sovraffollamento sarà uno dei principali fattori della diffusione dell’epidemia tra i detenuti palestinesi. Inoltre, aggiunge, l’assenza di prodotti igienici come i disinfettanti per le mani e il sapone non farà che peggiorare le cose. ‘Già in condizioni normali i detenuti non hanno a disposizione i prodotti di base per lavarsi’, afferma Abed Rabo. Secondo gli avvocati di alcuni detenuti i servizi penitenziari israeliani non hanno fatto niente per affrontare il problema. 

‘Dovrebbero dare ai detenuti mascherine, guanti, disinfettanti per le mani e una quantità maggiore di sapone, oltre a concedergli la possibilità di lavare più spesso vestiti e lenzuola. Si limitano a metterli in quarantena’. Una quarantena, osserva Abed Rabo, che consiste nel finire in isolamento. ‘Come possono ricevere le cure adeguate se finiscono in quelle terribili celle? È così che si trattano degli esseri umani malati?’.

Per anni gli attivisti palestinesi per i diritti umani hanno documentato quella che hanno definito una politica di ‘negligenza medica deliberata’ da parte delle autorità carcerarie d’Israele. Dalla seconda intifada (2000-2005) 17 detenuti palestinesi sono morti come risultato diretto della negligenza dei medici. 

In un rapporto del 2016 il gruppo in difesa dei diritti umani Addameer, registrava la presenza di almeno duecento prigionieri con patologie croniche, tra cui una ventina di malati oncologici, altre decine affetti da disabilità fisiche e psicologiche e 25 ricoverati in modo permanente nella clinica del carcere di Ramla. 

‘Molti di questi pazienti hanno problemi respiratori e cardiologici, e malattie autoimmuni’, dichiara Abed Rabo, sottolineando che una parte significativa della popolazione carceraria è formata da uomini di mezz’età o anziani”, racconta Akram al Waara, in un reportage per Middle East Eye, pubblicato da Internazionale. 

Colonizzazione no stop

Nel frattempo, il ministero della Giustizia israeliano ha approvato un accordo tra il governo e i coloni in Cisgiordania, che autorizzerebbe in modo retroattivo l’insediamento di Eviatar, creato in modo illegale. L’approvazione non è definitiva perché manca l’assenso del ministero della Difesa israeliano, che nel 2021 ha firmato a favore del piano, ed è destinata a creare tensione nella coalizione al governo, costituita da partiti con posizioni opposte su uno Stato palestinese.

Tra colonizzazione e detenuti uccisi. Così muore la Palestina. 

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