Madeleine Albright è morta di cancro all’età di 84 anni, circondata dai suoi cari e dalla sua famiglia che ne ha annunciato il decesso su twitter. In un pezzo per l’Ansa, Claudio Salvalaggio ne ha tracciato le tappe più importanti della vita e della carriera politica.
Dopo aver servito come ambasciatrice degli Stati Uniti all’Onu, fu la prima donna a guidare la diplomazia americana, diventando così anche la donna più alta in grado nella storia del governo statunitense, durante il secondo mandato di Bill Clinton alla Casa Bianca (1997-2001). Albright non fu in linea di successione per la presidenza statunitense perché era nata nell’allora Cecoslovacchia. Proveniva da una famiglia di origini ebraiche e abbandonò la sua terra d’origine quando essa fu annessa al Terzo Reich. Dopo un soggiorno a Londra, la famiglia tornò in patria alla fine della seconda guerra mondiale, ma con l’avvento al potere del regime comunista si trasferì negli Stati Uniti nel 1948. La Albright fece i suoi studi liceali in Svizzera, poi si laureò in scienze politiche al Wellesley College nel Massachusetts e conseguì un dottorato in diritto pubblico presso la Columbia University di New York, quando era già sposata col giornalista Joseph Medill Patterson Albright, da cui divorziò nel 1982.
La sua carriera accademica cominciò alla Georgetown University di Washington, dove insegnò Affari internazionali. Ma poi seguì la strada della diplomazia, rompendo il soffitto di cristallo nel 1996 e diventando una brillante analista di geopolitica. Sotto Clinton contribuì a forgiare la politica americana dopo la guerra fredda, sostenendo l’allargamento della Nato e il suo intervento armato in Kosovo nella primavera 1999 per ‘ragioni umanitarie’. Nel 2000 si recò in Corea del Nord partecipando ad uno storico incontro con il leader nordcoreano Kim Jong-il. L’ex segretaria di stato è rimasta immersa nell’impegno civile e politico sino alla fine, prendendo posizione negli anni scorsi contro Donald Trump e la sua “strana ammirazione per i dittatori come Vladimir Putin”.
Un mese fa aveva firmato sul New York Times un editoriale che appare profetico: “Invece di spianare la strada alla grande Russia, l’invasione dell’Ucraina segnerà l’infamia di Putin, lasciando il suo Paese diplomaticamente isolato, economicamente in difficoltà e strategicamente vulnerabile di fronte ad una alleanza occidentale più forte e unita”. Le sanzioni occidentali, notava, “devasteranno non solo l’economia del suo Paese ma anche lo stretto circolo di amiconi corrotti, che a loro volta potrebbero sfidare la sua leadership. Quello che sarà di certo una guerra cruenta e catastrofica drenerà le risorse russe e costerà vite russe creando nello stesso tempo un incentivo urgente per l’Europa per tagliare la sua pericolosa dipendenza dall’energia russa”. Tra le altre conseguenze dell’aggressione russa, il rafforzamento del fianco orientale della Nato e una “fiera resistenza armata ucraina col forte supporto dell’Occidente”, indicava, evocando per Mosca lo scenario della fallita invasione sovietica dell’Afghanistan. Primo alto dirigente americano ad incontrare Vladimir Putin come presidente facente funzioni all’inizio del 2000, la Albright lo ricordava come una persona “piccola e pallida”, con “la freddezza di un rettile”, “imbarazzata dal crollo dell’Urss e decisa a restaurare la grandezza” del suo Paese.