Certe interviste di Sergej Lavrov vanno lette in “controluce”, pesandone e interpretandone anche le più sottili sfumature. Provando così a separare ciò che è propaganda, soprattutto a uso interno, dai messaggi diplomatici che lasciano intravvedere spiragli ad una soluzione negoziale della guerra in corso.
E’ il caso dell’intervista concessa dal ministro degli Esteri della Federazione Russa alla tv francese TF1, poi ripresa dalla Tass (l’agenzia di stampa del Cremlino). “La Russia non crede che le porte per la ripresa del dialogo con l’Occidente siano chiuse”: dice Lavrov . Per poi precisare: Putin “non rifiuta mai contatti con colleghi stranieri”. Nell’ennesima uscita pubblica sui media occidentali, il titolare della diplomazia di Mosca affronta tutti i temi legati al conflitto in corso in Ucraina, dalla situazione sul campo nel Donbass all’influenza della Nato, dal ruolo dell’Unione europea e dal suo sviluppo in ambito strategico-militare alle possibilità di dialogo con le istituzioni di Bruxelles.
Il futuro dell’Ucraina e i progressi verso la creazione di un “esercito europeo”
“Il futuro dei territori dell’Ucraina dove la Russia sta conducendo la sua operazione militare speciale dovrebbe essere deciso dai loro cittadini” chiarisce subito Lavrov, aggiungendo di non credere “che saranno felici di essere di nuovo governati dal regime neonazista che ha rivelato la sua natura totalmente russofoba. Tocca ai cittadini stessi decidere”. In un passaggio sul peso dell’Alleanza atlantica nell’Europa orientale, il ministro degli Esteri russo precisa: “La Nato non consentirà all’Unione europea di decidere dove e come utilizzare le sue forze armate. Hanno inventato una ‘bussola strategica’ per dare una dimensione militare all’Unione europea” ha spiegato ancora Lavrov, aggiungendo che “è improbabile che risulti utile perché, in ogni caso, l’Unione europea militarizzata è già considerata dall’Alleanza atlantica come un supplemento della Nato più che un’entità indipendente che decida da sé quando e come utilizzare le sue forze armate. Sono convinto che all’Unione europea non verrà consentito di farlo”.
Ciò che vuole la Russia e il dialogo con l’Europa
“Chiediamo solo ciò che il presidente Putin ha già annunciato dall’inizio dell’operazione speciale. Vale a dire, che il regime di Kiev smetta di uccidere civili nel Donbass come ha fatto per otto lunghi anni, dal colpo di stato in Ucraina nel 2014. Ecco perché i nostri obiettivi sono proteggere i civili del Donbass e smilitarizzare l’Ucraina. Cioè, non devono più esserci armi sul suo territorio che rappresentino una minaccia per la Federazione Russa” spiega Sergei Lavrov nell’intervista alla televisione francese. E continua: “Vogliamo anche ripristinare i diritti della lingua russa, in conformità con la Costituzione dell’Ucraina, che il regime di Kiev ha violato adottando leggi anti-russe. Ma dobbiamo anche denazificare l’Ucraina, perché le idee e gli atti neonazisti ora fanno parte della vita in Ucraina”, dice ancora Lavrov, tornando alle vecchie espressioni che la propaganda russa ha utilizzato all’inizio della guerra scoppiata il 24 febbraio. “Non vogliamo dire che la via per rinnovare un certo dialogo sia interrotta. Ma ora giudicheremo le intenzioni europee solo sulla base di azioni concrete” ha proseguito il titolare del ministero degli Esteri russo, mettendo in guardia: “Abbiamo imparato la lezione. In questo senso la situazione è cambiata rispetto alla fine della Guerra Fredda. All’epoca – continua – si parlava molto di valori umani universali, del futuro condiviso dell’Europa dall’Atlantico all’Oceano Pacifico. Erano parole nobili. Ma non appena si è trattato di fare dei passi concreti e di tradurre quegli slogan in azioni, l’Europa ha dimostrato riluttanza”.
I cultori dell’interventismo senza se e senza ma si precipiteranno, lo hanno già fatto, sull’armamentario propagandistico – la denazificazione etc… di cui fa uso e abuso Lavrov.
Noi di Globalist sabbiamo scelto un’altra strada. Quella che ci porta a sostenere la tesi degli spiragli. Laddove Lavrov parla della smilitarizzazione dell’Ucraina e, soprattutto, quando afferma: “Vogliamo anche ripristinare i diritti della lingua russa, in conformità con la Costituzione dell’Ucraina, che il regime di Kiev ha violato adottando leggi anti-russe…”.
In conformità con la Costituzione ucraina…Non è affermazione di poco conto. Implicitamente si fa riferimento ad un rafforzato sistema di autonomie e non all’indipendenza delle autoproclamate repubbliche del Donetsk e del Lubansk.
E’ uno spiraglio, forse. Ma perché non andare a vedere?
Un precedente da portare a galla.
Tanto più che il tema dell’autonomia all’interno di una Ucraina non centralistica e monoculturale, non data l’oggi.
Facciamo un passo indietro nel tempo. Settembre 2015. Scrive su geopolitica.info Giovanbattista Verricchio: “Alcuni mesi fa, alla vigilia di un vertice cruciale del Gruppo di Minsk sulla questione ucraina, il Ministro degli esteri Paolo Gentiloni si è fatto promotore di un’idea originale e molto interessante sotto il profilo comparativo proponendo una sorta di “via italiana” per la risoluzione del conflitto in analisi. Nella fattispecie Gentiloni ha suggerito di prendere a modello la soluzione politica adottata nel Südtirol / Alto Adige – amministrativamente corrispondente alla Provincia Autonoma di Bolzano – esempio di come una contesa internazionale possa essere risolta ovviando alla questione dell’integrità territoriale di un certo Stato con la concessione di larghe autonomie per la preservazione dell’elemento alloglotto locale. In effetti, in un’ottica di analisi comparata dei due casi, le analogie sono molte e l’approccio autonomista (peraltro sostanzialmente accettato e promosso dallo stesso Gruppo di Minsk) potrebbe servire a tracciare quella sorta di road map che tanto servirebbe alla diplomazia internazionale in questi mesi di stallo.
Partendo dal Sudtirolo, è ben noto come questa provincia sia stata annessa dall’Italia alla conclusione della Prima guerra mondiale a seguito della sconfitta degli Imperi centrali. Nonostante l’annessione, una larghissima maggioranza della popolazione locale era e rimase germanofona – cui si deve aggiungere anche il gruppo linguistico ladino presente in alcune valli – a fronte di una contenuta minoranza italiana. Gli eventi degenerarono con l’ascesa al potere del fascismo, il quale procedette a vari tentativi di italianizzazione forzata, mortificando per quanto possibile usi e costumi locali ed arrivando ad uno scellerato accordo con il Reich tedesco – le cosiddette Opzioni – il quale prevedeva il trasferimento, su base volontaria, della massa alloglotta tedesca e ladina oltre il confine italiano, verso l’Impero hitleriano. A guerra finita furono molte le voci che si levarono per un ritorno del Sudtirolo alla vecchia madrepatria austriaca, la quale era peraltro in via di ricostituzione dopo l’anschluss del ’38.
Le diplomazie internazionali, che pure considerarono questa opzione, la dovettero scartare per una serie di fattori geopolitici che segnarono la fine di ogni speranza separatista per i germanofoni a sud del Brennero i quali, rappresentati dai politici locali della Südtiroler Volkspartei e aiutati dal Governo austriaco, iniziarono le trattative con Roma per ottenere il riconoscimento di una forma di autonomia che tutelasse il particolarismo sudtirolese.
Queste trattative culminarono con l’Accordo De Gasperi – Gruber nel 1946. Molte aspettative e tutele previste dal testo in questione però rimasero lettera morta e la popolazione locale percepì il malcelato tentativo da parte del Governo centrale di continuare una subdola opera di italianizzazione al fine di risolvere il problema. La reazione fu tragica: mentre la Südtiroler Volkspartei proseguiva una campagna politica, pur pacifica, ma dai toni molto accesi, l’Austria chiamò più volte in causa l’Italia in sede ONU; a ciò va aggiunta la costituzione del BAS (Befreiungsausschuss Südtirol / Fronte di Liberazione del Sudtirolo) il quale inaugurò nel 1961 una stagione di violenza terroristica tra attentati dinamitardi e attacchi diretti alle forze dell’ordine che durò per oltre un decennio contando decine di morti e centinaia di feriti. La soluzione arrivò nel 1972 con la concessione di un Secondo Statuto di Autonomia, il quale, prevedendo per la Provincia di Bolzano una larga libertà in tema legislativo e amministrativo, oltre a molte garanzie effettive sulla tutela dell’elemento germanofono e ladinofono, contribuì prima a pacificare la popolazione e poi a chiudere definitivamente la vertenza internazionale con l’Austria negli anni ’90.
E l’Ucraina orientale? La situazione è per certi versi simile: l’Ucraina è un Paese che, stando alle rilevazioni statistiche del 2001, presenta una forte minoranza di russi etnici che compongono il 17,3% della popolazione; tale dato aumenta però fino al 29,6% se si considera chi parla il russo come prima lingua. Questa minoranza etno-linguistica non è sparsa in maniera omogenea in tutto il Paese, ma risulta particolarmente concentrata nella parte sud-orientale ovvero nel cosiddetto Donbass. Particolarmente negli oblast di Donestk e Luhansk, i russofoni dovrebbero aggirarsi rispettivamente tra il 74,82% e il 68,84%, sempre stando ai dati del censimento del 2001. A fronte di queste evidenze, che parlano di una non indifferente presenza russa nella popolazione ucraina e di una sua considerevole preponderanza in alcuni oblast del Donbass, il russo non è mai stato dichiarato seconda lingua del Paese, né lingua regionale nell’est ucraino.
Questa situazione, già di per sé potenzialmente critica, ha subito una grave involuzione dopo le dimostrazioni di Euromaidan e la defenestrazione del Presidente filo-russo Viktor Yanucovich il cui Partito delle Regioni trovava proprio nel Donbass la sua maggiore roccaforte di consenso.
La frattura politica e territoriale tra filo-russi e filo-occidentali ha portato in breve tempo all’organizzazione di milizie separatiste nel sud-est ucraino e alla promozione di referendum volti a richiedere la diretta annessione di quei territori alla Russia. L’escalation di violenza che ne è seguita ha portato alla costituzione di due Repubbliche Popolari, non riconosciute, ma protette dalla diplomazia e dalle risorse umanitarie della madrepatria riconosciuta dai ribelli. Va però specificato che la Russia, al contrario dell’Austria, almeno negli anni ’50/’60, non ha mai ufficialmente considerato l’annessione del Donbass alla propria Federazione come una delle opzioni sul tavolo, mentre ha sempre sostenuto la necessità di tutelare l’identità russa dell’Ucraina orientale attraverso una serie di atti legislativi che possano garantire una libera e pacifica convivenza tra i gruppi etnici presenti sul territorio, e tra le popolazioni ribelli ed il governo centrale.
Perché allora non uno Statuto di Autonomia, magari ancorato a livello costituzionale ed internazionale come è accaduto qui in Italia per il caso sudtirolese? Una riforma costituzionale che possa tutelare il particolarismo russofono nelle zone insorte è infatti la linea dettata dal Gruppo di Minsk e pare essere anche la più logica delle soluzioni; un’opzione, quella autonomista, considerata come la migliore anche dall’ex Presidente della Provincia di Bolzano Luis Durnwalder il quale, pochi giorni fa, si è recato in visita a Donetsk portando la sua solidarietà alle autorità separatiste della Novorossiya.
Nonostante la via autonomista sia stata tracciata dalle parti in causa e sia perseguita dai competenti organi sovranazionali, rimangono aperte tantissime sfide per il futuro: il legislatore dovrà ottemperare in maniera credibile agli impegni presi in sede internazionale, mentre i ribelli dovranno prima o poi accettare di tornare a far parte a tutti gli effetti di una nuova Ucraina e per fare questo ci sarà vitale bisogno di una struttura partitica o di un’élite che possa farsi promotrice delle istanze identitarie della popolazione locale seguendo però una metodologia pacifica e democratica, riconoscendo la legittima autorità statale e portando così la stessa popolazione che rappresenta a cessare ogni atto di ostilità, in quell’ operazione che Leonardo Morlino definirebbe come “ancoraggio”, un po’ come fece proprio la Südtiroler Volkspartei nell’Alto Adige travagliato degli anni ’60”.
Così Varricchio.
Per dire che l’idea di una Ucraina federale può essere quella giusta per conciliare ciò che oggi appare, e in diversi vorrebbero che restasse tale, inconciliabile.