Sì, Abraham Bet Yehoshua è stato un Grande d’Israele. E lo è stato non solo per i romanzi e saggi che ha scritto, una eredità internazionale di incommensurabile valore letterario, ma per come ha vissuto il suo essere intellettuale. Un intellettuale che dalla classica torre d’avorio non è sceso, perché non c’è mia salito e vissuto. Un grande per la passione civile che lo ha sempre animato, per il suo schierarsi a favore del dialogo e del riconoscimento dei diritti, e dell’identità, dell’altro da sé: il popolo palestinese.
Sulla sua vita, spensai ieri all’età di 85 anni, hanno scritto in tanti. In Israele, in Italia, nel mondo. Ai lettori di Globalist proponiamo il ritratto di Yehoshua vergato da Avi Garfinkel, scrittore e docente di cultura. Un ritratto impegnativo, che vale la pena leggere e conservare.
Scrive Garfinkel su Haaretz: “Per la maggior parte della sua vita, lo scrittore A.B. Yehoshua, che ha compiuto 85 anni all’inizio di questo mese, ha vissuto in città miste, ebraico-arabe: Gerusalemme e Haifa. Tuttavia, più o meno nello stesso momento in cui si è trasferito a Givatayim, una delle città più omogenee d’Israele, ha fatto un’inversione di rotta mozzafiato. Dopo aver sostenuto la soluzione dei due Stati per 50 anni, ha annunciato, in una serie di articoli di opinione su questo giornale, che considera tale soluzione impraticabile. Ciò che deve essere fatto, ha scritto, è dare a tutti gli arabi della Cisgiordania e di Gerusalemme Est la cittadinanza nel quadro di un unico Stato congiunto ebraico-arabo. Nel 2016 ha suggerito che Israele inizi immediatamente a concedere lo status di residenza e la cittadinanza ai circa 100.000 arabi che vivono nell’Area C della Cisgiordania (che è sotto controllo israeliano), dando così risonanza al piano dell’ex direttore generale del Consiglio degli insediamenti di Yesha, Naftali Bennett, oggi primo ministro.
Non capita tutti i giorni che un ultraottantenne cambi opinione, e non tutte le società hanno sperimentato una revisione di approccio come questa da parte del suo più grande scrittore vivente, tanto meno sulla questione che ha diviso la società fin dalla nascita dello Stato: il conflitto con gli arabi. Lo stupore è ancora maggiore se si tiene conto del fatto che nei suoi scritti – sia nei saggi che nella narrativa – Yehoshua si è spesso espresso in modo feroce contro l’idea di sfumare i confini in generale, e tra ebrei e palestinesi in particolare:
“Dopo la Guerra dei Sei Giorni, il confine, che è la pietra angolare di ogni [esempio di] sovranità nel mondo, ha cominciato a diventare più sfumato. Sebbene non abbiamo annesso il territorio conquistato… abbiamo comunque annullato l’esistenza fisica del confine netto che separava due popoli diversi, e abbiamo iniziato a disperderci in insediamenti – emulando ancora una volta la diaspora – all’interno del tessuto di vita di un altro popolo… Oggi [nella seconda intifada] paghiamo il prezzo di un non-frontiera in forma cruda e sanguinosa, perché ogni giorno un nemico entra nel sistema circolatorio del nostro essere, senza che possiamo nemmeno identificarlo…”.
“I palestinesi si trovano in una situazione di follia che ricorda la follia del popolo tedesco durante il periodo nazista. Guardo con terrore alla profondità dell’odio suicida con cui i palestinesi si rapportano a noi. Anche i tedeschi si rapportavano a noi con lo stesso tipo di odio. Questo è un aspetto che deve essere chiarito: cosa sta accadendo tra noi e gli altri popoli tra i quali viviamo. Che cosa ha portato i tedeschi e che cosa sta portando i palestinesi a possedere un tale odio nei nostri confronti… La sostanziale, quasi anarchica, assenza di confini nell’identità ebraica che si annida all’interno di un’identità diversa, suscita naturalmente resistenza”.
Come dimostrano queste citazioni (tratte da un discorso del 2002), la nuova posizione non è solo un cambiamento da parte di Yehoshua. Infatti, proprio ciò che egli indicava come problema – l’assottigliamento dei confini, la non separazione tra ebrei e palestinesi – ora lo propone come soluzione!
Fino a pochi anni fa, Yehoshua presentava l’incursione nella sfera dell’altro e l’assenza di un confine chiaro tra sé e l’altro come fonte di inimicizia e violenza. Questa è anche la spiegazione che egli ha offerto per l’antisemitismo che ha preso di mira gli ebrei nella diaspora: Proprio perché gli ebrei erano così abili nell’integrarsi nella società circostante, generavano paura e odio tra i gentili, che temevano la penetrazione subdola e clandestina di un corpo estraneo al loro interno. (È interessante notare, in questo contesto, che il libro per bambini di Yehoshua del 2005, “Il topo di Tamar e Gaya”, parla dell’incursione e della “naturalizzazione” di un topo nella casa di una famiglia e descrive il topo in termini che ricordano lo stereotipo dell’ebreo della diaspora: “piccolo topo”, “topo molto intelligente”, “topo scaltro” e anche “molto miserabile”).
Infatti, non solo il saggista Yehoshua, ma anche lo scrittore di narrativa Yehoshua attribuisce un’importanza immensa e positiva alla nozione di confine. I romanzi e i racconti di Yehoshua sono pieni di sconfinamenti, invasioni e incursioni di individui in aree e luoghi proibiti. Non c’è quasi opera che non contenga un personaggio che tenta di varcare una soglia, di entrare in una stanza sconosciuta, di accedere a un luogo che gli è precluso, di violare la privacy, di contaminare o profanare una sorta di sacralità con la sua stessa presenza.
Nel romanzo “Fuoco amico” (2007), al protagonista viene chiesto: “Perché voi ebrei riuscite a penetrare in ogni sorta di luogo straniero e a insediarvi nell’anima degli altri?”. Questo concetto è molto appropriato anche per il giovane arabo Na’im nel primo romanzo di Yehoshua, “L’amante” (1977), soprattutto verso la fine del libro, quando Na’im completa la sua integrazione mimetica nella società ebraica, mostrando al contempo la padronanza dell’opera del poeta nazionale ebraico Haim Nahman Bialik.
In un’intervista al mensile americano-ebraico Sh’ma, Yehoshua ha sostenuto che il suo romanzo più lungo, “La sposa liberata”, del 2001, avrebbe potuto intitolarsi anche “Confini”. Il romanzo descrive una produzione bilingue, in occasione di un festival di poesia a Ramallah, de “Il Dybbuk”, l’opera ebraica paradigmatica che tratta del pericolo della penetrazione di un corpo estraneo nell’io.
Nel complesso, la carriera letteraria di Yehoshua è caratterizzata da un impegno ricorrente con i confini. Disegnare i confini prima che avvenga un disastro, implora Yosef Mani ai suoi vicini arabi in “Mr. Mani” (1990), “Trovatevi un’identità prima che sia troppo tardi!”. Yosef, tuttavia, non ascolta il suo stesso consiglio e non riesce a salvaguardare i confini, quando decide “di penetrare in un luogo che agli ebrei era precluso”: Yosef viene ucciso dal padre sul Monte del Tempio, cioè sul Monte Moriah, esempio lampante di “luogo che agli ebrei era precluso”. L’immagine dei saggi della miscela letale di sangue diverso risuona all’inizio di “Mr. Mani”, quando un neonato che riceve una trasfusione muore apparentemente a causa di “gruppi sanguigni incompatibili”.
Yehoshua, nella sua nuova posizione a favore di un unico Stato condiviso da ebrei e palestinesi, svolge qui il ruolo tradizionale del mentore spirituale nelle culture dell’Estremo Oriente, la persona che ci guida in questo processo e ci aiuta a smantellare i nostri muri dell’ego.
Uno dei segni della demenza di Luria, il protagonista del romanzo di Yehoshua del 2018 “Il tunnel”, è la sua tendenza a entrare in luoghi in cui non dovrebbe essere e ad aprire porte proibite (come quella del teatro dell’opera). Non è un caso che cucini piatti indeterminati e che superano i confini, come “una quiche di tagliatelle intrecciate come il cervello umano”.
Allo stesso modo, Zvi, l’amico del narratore nel racconto “Tre giorni e un bambino” del 1965, sconfina nel narratore quando invade il suo appartamento, il che lo porta quasi alla morte, quando viene morso da un serpente che era stato liberato lì. L’intrusione di Zvi nella relazione tra il narratore e la sua compagna, di cui Zvi è innamorato, evoca l’intrusione edipica di un bambino tra i suoi genitori e chiarisce la natura primordiale e universale dell’invasione del territorio proibito. Come molti dei personaggi di fantasia di Yehoshua, il narratore di “Tre giorni e un bambino” infonde a questa pericolosa tendenza all’invasione un aspetto nazionale-locale quando, di sua iniziativa, porta la sua classe a fare un’escursione nella Gerusalemme precedente al giugno 1967 e attraversa con loro il confine.
Cosa può spiegare una trasformazione così estrema dell’approccio? Yehoshua, da parte sua, offre due spiegazioni: il riconoscimento che la soluzione dei due Stati non è fattibile e la preoccupazione per l’immagine morale di ebrei e palestinesi. Da un punto di vista puramente logico, queste ragioni possono essere sufficienti. Tuttavia, un cambiamento così drastico potrebbe anche avere radici più profonde, come Yehoshua, che ha sempre attinto a motivi psicoanalitici nel suo lavoro, sarebbe senza dubbio il primo a riconoscere.
Come ha notato lo psicologo Amos Prywes, che tiene una rubrica online sull’edizione ebraica di Haaretz, lo psicoanalista Emmanuel Gant considerava l’aspirazione a superare i confini del nostro io e a tornare a uno stato di unità primaria con il mondo come un impulso umano universale. Yehoshua, con la sua nuova posizione a favore di uno Stato condiviso da ebrei e palestinesi, sta svolgendo il ruolo tradizionale del mentore spirituale nelle culture dell’Estremo Oriente, la persona che ci guida in questo processo e ci assiste nello smantellamento dei nostri muri dell’ego – o un muro letterale nel caso israelo-palestinese. Così, nel 2002, all’apice della seconda intifada, quando scrisse i commenti stridenti sopra citati per condannare la violazione dei confini, Yehoshua disse al poeta Yotam Reuveni in un’intervista: “Gli arabi della Terra d’Israele sono parte della mia identità. Sono una componente dell’identità di questa terra. Di conseguenza, sento per loro un calore umano e persino una certa intimità… Non sono totalmente estranei anche quando sono nemici. Li sento anche dentro di me”.
In altre parole, ciò che Yehoshua proibiva era in realtà – come spesso accade per molti divieti – ciò che desiderava forse più di ogni altra cosa. In “Un viaggio alla fine del millennio” (1997), il protagonista, Ben Attar, si sposa con due donne, che condividono felicemente lo stesso marito – come gli ebrei e i palestinesi sono destinati a condividere lo stesso Stato. Ulteriori accenni al desiderio di mescolanza si trovano nel romanzo del 1994 “Il ritorno dall’India” (intitolato “Open Heart” in inglese), che è pieno di diversi tentativi di dissolvere i confini del sé e di fondersi con l’altro, “in accordo con la gentile filosofia buddista secondo cui non eravamo due anime che entravano in un legame eterno, ma solo due fiumi, ciascuno sicuro della profondità e dell’indipendenza della propria corrente, e non sarebbero stati in pericolo se le nostre acque si fossero leggermente mescolate”. In un’inversione della storia del neonato in “Mr. Mani”, in “Open Heart” la vita di Einat viene salvata grazie a una trasfusione di sangue fornita dal protagonista.
La passione per l’unità è particolarmente evidente in “Molcho” (“Cinque stagioni” in inglese), un romanzo del 1987 in cui il protagonista è ossessionato dalle immagini del muro di Berlino e della Gerusalemme divisa. Dopo la morte della moglie, che era stata così scrupolosa nel rispettare i confini e nel non alloggiare in casa di estranei, Molcho si libera e lo fa. La morte dell’amata moglie, per quanto tragica e triste, lo libera anche di dare libero sfogo ai suoi desideri nascosti, tra cui l’impulso universale di cui parla l’analista Gant, di violare i confini tra sé e l’estraneo.
L’unità degli estremisti
Tuttavia, come osserva Prywes, “c’è una linea sottile tra lo scoprirsi nel mondo dell’altro e il perdersi in esso. Tra l’espandere e rendere malleabili i confini del sé e la sensazione che essi stiano per scoppiare e venire inghiottiti. Tra l’esperienza di darsi e quella di sottomettersi”. A questo proposito, ricordiamo il romanzo del 2015 di Michel Houellebecq, “Sottomissione”, il cui titolo è sia una traduzione letterale della parola “Islam” sia uno scenario da incubo in cui un Paese laico-cristiano perde la sua identità e i suoi valori liberali a causa dell’aumento del potere dei migranti musulmani fondamentalisti al suo interno.
Le rivolte, i linciaggi, le fiaccolate e altri disordini scoppiati lo scorso maggio hanno dimostrato che la coesistenza arabo-ebraica entro i confini della Linea Verde non poggia su una “base stabile e concreta”, ma su un vetro sottile.
Per quanto riguarda la perdita di identità, Yehoshua si è contraddetto. Nel suo articolo del 2018 su Haaretz a favore di un unico Stato, ha scritto: “L’identità ebraica (comunque la si interpreti) è esistita per migliaia di anni come una piccola minoranza all’interno di grandi e potenti nazioni, quindi non c’è motivo per cui non possa esistere anche in uno Stato israeliano, anche se contiene una minoranza palestinese così grande da poter essere definito uno Stato binazionale”. Tuttavia, ciò differisce da quanto disse allo scrittore Dror Mishani lo stesso anno, in un’intervista rilasciata in occasione della pubblicazione di “The Tunnel”:
Mishani: “Nella storia degli shabazim [acronimo che indica i palestinesi che vivono in Israele senza autorizzazione] tra le rovine nabatee, sta forse alludendo al fatto che se riducessimo la nostra “identità”, se la dimenticassimo e la lasciassimo crollare, qui emergerebbe una nuova identità? Così come oggi non c’è un’identità nabatea, forse in futuro non ci sarà un’identità “israeliana”?”.
Yehoshua: “Senza dubbio. Guardate come cerchiamo di aggrapparci all’identità ebraica e come ci sfugge. Dobbiamo trovare un modo diverso di pensare alla nostra identità nello Stato binazionale in cui già ci troviamo, che ci piaccia o no”.
L’idea di uno Stato unico pone un pericolo non solo per l’identità ebraica, ma anche per il corpo ebraico (e palestinese) – il pericolo di una realtà bosniaca o ruandese, yemenita o siriana: una guerra civile letale, intrisa di sangue, con decine di migliaia o addirittura centinaia di migliaia di morti. È vero che tutto è possibile, quindi forse noi ebrei e palestinesi saremo fortunati e riusciremo a lasciarci alle spalle il sanguinoso passato e a porre fine alle guerre e al ciclo di reazioni e vendette. Ma se ciò non dovesse accadere? Il rischio non è troppo grande? Che immagine assumerà lo Stato unico una volta che avrà una maggioranza araba, un primo ministro, un ministro della difesa e un capo di stato maggiore palestinesi? Come reagiranno i milioni di nuovi cittadini palestinesi quando dalla Striscia di Gaza verranno lanciati razzi verso Israele? Non useranno il loro diritto democratico per decidere di concedere il diritto al ritorno entro i confini della Linea Verde a milioni di rifugiati palestinesi? E che immagine morale avrà uno Stato del genere, in cui sciovinisti ebrei e arabi, fanatici religiosi e omofobi costituiranno una solida maggioranza della popolazione?
Perché dobbiamo ricordarlo: L’unione che viene qui proposta non è solo tra A.B. Yehoshua e Sari Nusseibeh, ma anche – e anzi soprattutto – tra Itamar Ben-Gvir, Bezalel Smotrich ed Elor Azaria, da una parte, e i loro omologhi palestinesi, che continuano a essere finanziati dall’Iran. Perché principalmente? Perché la catena non è più forte del suo anello più debole. Ogni litigio tra vicini, incidente stradale o atto di stupro che coinvolga individui dei due popoli nello Stato unico potrebbe degenerare nel caos generale.
A questo punto della discussione, gli intellettuali della sinistra radicale di solito si alzano e spiegano, nella tradizione di Karl Marx e altri, che le preoccupazioni per una guerra civile tra ebrei e arabi sono paure irrazionali inculcate in noi dallo Stato – il risultato delle bugie del sistema educativo sionista, dei traumi dell’Olocausto, sfruttati da leader manipolatori e assetati di potere, e coltivati dai media assetati di ascolti, dell’incitamento di Benjamin Netanyahu e di altri atti di lavaggio del cervello volti a creare sudditi obbedienti al servizio del progetto coloniale israeliano.
A quanto pare, questo non è il punto di vista di Yehoshua, che è consapevole dei pericoli contenuti nel suo piano e li ha ammessi con franchezza. A coloro che si mostrano sprezzanti nei confronti dei timori di una soluzione a uno Stato, vale la pena di ricordare che nessuno può prevedere il futuro, raccomandando loro di leggere il Patto di Hamas e altre dichiarazioni dei suoi leader. Hamas oggi ha il sostegno della maggioranza dei palestinesi della Cisgiordania e di Gerusalemme Est, cioè di coloro ai quali Yehoshua vuole concedere la cittadinanza e il diritto di voto nello Stato comune.
E a proposito di Marx: Sarebbe il primo a comprendere la debolezza dell’ottimismo sulle prospettive di vita pacifica tra arabi ed ebrei in un quadro di uno Stato unico, alla luce della grande disparità economica tra i popoli; dopo tutto, il PIL pro capite in Israele è nove volte quello dell’Autorità Palestinese. In un’arguta novella pubblicata di recente, un autista italiano spiega alla figlia ebrea di una ricca famiglia che il fatto che gli ebrei a volte eccellano più dei cattolici non li rende più amati. La novella si intitola “L’unica figlia” e il suo autore è A.B. Yehoshua (la versione inglese è prevista per il 2022). La difficoltà di realizzare la visione di uno Stato unico ha quindi anche una dimensione economica, di cui l’autore è ben consapevole.
Yehoshua ha pubblicato la sua visione dello Stato unico nel 2018 e da allora la realtà ha fornito un’altra confutazione della sua analisi. All’epoca, tre anni fa, Yehoshua scrisse su Haaretz: “Eppure, sembra che la cittadinanza imposta o concessa ai palestinesi in Israele alla conclusione della guerra d’indipendenza nel 1949 abbia creato una base stabile e concreta per le relazioni tra la maggioranza e la minoranza nello Stato ebraico, con la sua grande minoranza nazionale e non territoriale del 20%”. Anche un osservatore esterno con un alto senso della moralità umana darebbe a entrambe le parti – ebrei israeliani e palestinesi israeliani – voti alti per la saggezza della coesistenza che hanno sviluppato durante i 70 anni di esistenza dello Stato”.
I disordini, i linciaggi, le incendiarie e gli altri disordini scoppiati durante l’Operazione Guardiano delle Mura a maggio hanno dimostrato che la coesistenza arabo-ebraica all’interno dei confini della Linea Verde non poggia su una “base stabile e concreta”, ma su un vetro sottile, che può essere facilmente frantumato – ed è stato, infatti, frantumato. A questo proposito, vale la pena citare ciò che Sami Abu Shehadeh, leader del partito Balad – una fazione della Lista comune – ha detto qualche settimana fa in riferimento ai disordini degli arabi israeliani della scorsa primavera: “Gli ebrei hanno perso perché i giovani di Lod hanno deciso che questa volta erano uniti… Gli attacchi ad Al-Aqsa e nel quartiere di Gerusalemme Est di Sheikh Jarrah hanno scosso tutta la Palestina… Ma i ragazzi di Lod si sono rotti il naso”. La mossa necessaria per guarire il naso rotto degli ebrei implica forse un aumento drastico della quota degli arabi nello Stato?
In effetti, la soluzione di uno Stato palestinese accanto a un Israele ebraico sembra essere impraticabile nel prossimo futuro. Ma dalla temporanea impossibilità di una particolare soluzione (due Stati), non consegue la conclusione che esista un’altra soluzione (uno Stato) possibile, o addirittura preferibile. Yehoshua ha ragione nel dire che la situazione attuale è intollerabile in termini di sicurezza, umanità e moralità. Merita un grande elogio per aver cercato di trovare nuove risposte, dimostrando una creatività, una flessibilità e una disponibilità a rivedere un approccio che non sono tipiche nemmeno di chi è molto più giovane di lui. Molti elementi del suo piano, tra cui la necessità di fermare l’espansione degli insediamenti e di interrompere gli abusi sui palestinesi, sono indubbiamente corretti.
Tuttavia, la flessibilità non è sempre più alta della testardaggine. Nel contesto del conflitto palestinese, è preferibile adottare l’affermazione emotiva, persino anti-intellettuale, dell’amico e collega di Yehoshua, lo scrittore David Grossman: “Io ho sumud [in arabo “fermezza”, una strategia palestinese] per la pace”. Non pace subito, non uno Stato, ma pazienza e tolleranza. Anche il campo della pace non teme un lungo cammino. È un campo che crede nella pace tra Israele e una Palestina accanto ad esso, non al suo interno – una pace che, anche se tarda, arriverà sicuramente. E se non domani, dopodomani”, conclude il professor Garfinkel.
Quella pace evocata, invocata, Yehoshua non la vedrà. Ma se un giorno quella pace giusta si realizzerà, sarà anche grazie al suo impegno. A futura memoria.
Un fatto è certo. Per Israele, in Israele, Yehoshua lascia un vuoto incolmabile. Una voce controcorrente. Libera. Unica.
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