Israele, Shtrasler: "Vi spiego perché lo Stato bi-nazionale non sarebbe la soluzione ma il disastro"
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Israele, Shtrasler: "Vi spiego perché lo Stato bi-nazionale non sarebbe la soluzione ma il disastro"

in Israele, Paese che voterà un mese e mezzo dopo di noi, il dibattito si cimenta con questioni che vanno al cuore non solo del futuro ma dell’identità stessa della nazione.

Israele, Shtrasler: "Vi spiego perché lo Stato bi-nazionale non sarebbe la soluzione ma il disastro"
Gerusalemme
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Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

31 Luglio 2022 - 17.18


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Mentre l’Italia si appresta a vivere, o meglio, a subire una delle campagne elettorali più brutte di una pur non edificante storia di campagne elettorali brutte, fatta di colpi bassi, chiacchiere, suk di candidature e di alleanze, in Israele, Paese che voterà un mese e mezzo dopo di noi, il dibattito si cimenta con questioni che vanno al cuore non solo del futuro ma dell’identità stessa della nazione. E in questo dibattito, di cui Globalist ha dato e continuerà a dare conto con articoli, analisi e interviste, un tema di grande spessore riguarda la pace con i palestinesi. E la soluzione che si ritiene non solo più realistica, per quanto altamente difficile, ma anche quella che ingloba in sé questioni che vanno ben al di là della geopolitica, dei confini, dello status di Gerusalemme, del controllo delle risorse idriche. Questioni che interrogano Israele su se stesso, Perché questo è al fondo del dibattito su uno Stato binazionale o sulla soluzione “a due Stati.

Dibattito aperto.

Di grande spessore e significanza sono due articoli-opinioni su Haaretz. Il primo a firma Nehemia Shtrasler.

Annota Shtrasler: “Alla sinistra radicale non è piaciuta la visita di Joe Biden in Israele. “Perché è venuto?”, si sono chiesti. “Perché deve visitare lo Yad Vashem? E perché dobbiamo leccare i piedi a quella potenza militarista?”. Ma più che la visita, ciò che li ha fatti arrabbiare è stata la dichiarazione di Biden, al termine dell’incontro con il presidente palestinese Mahmoud Abbas, di impegnarsi per la soluzione dei due Stati. “Il popolo palestinese merita uno Stato indipendente, sovrano, vitale e contiguo. … due Stati lungo le linee del 1967, con scambi reciprocamente concordati, rimangono il modo migliore per raggiungere un’uguale misura di sicurezza, prosperità, libertà e democrazia sia per i palestinesi che per gli israeliani”, ha detto il Presidente degli Stati Uniti. La sinistra radicale e antisionista odia la “soluzione dei due Stati”. La considera superata, ingiusta e irrealizzabile. Non si preoccupa del fatto che, durante gli accordi di Oslo negli anni ’90, eravamo sulla strada della sua attuazione. Né si preoccupa del fatto che la maggior parte degli israeliani e dei palestinesi vuole questa soluzione. La sinistra estremista vuole una soluzione diversa, “uno Stato” tra il Mar Mediterraneo e il fiume Giordano. Sogna uno Stato democratico ed egualitario per ebrei e arabi che sia un modello di pace e tranquillità, come nelle parole del profeta Isaia: “Il lupo abiterà con l’agnello e il leopardo si sdraierà con il capretto”. Anche se sembra progressista e attraente, è un’idea romantico-utopica che si adatta a persone ingenue che non comprendono la natura umana. Non capiscono che le persone cercano l’appartenenza. Vogliono vivere in un Paese con persone simili a loro in termini di storia, cultura e religione e che condividono la stessa lingua.

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Gli esseri umani sono creature tribali per natura. Centinaia di migliaia di anni fa vivevano in tribù che fornivano loro sicurezza fisica, cibo e senso di appartenenza. Oggi lo Stato-nazione ha sostituito la tribù e il suo compito è quello di fornire esattamente le stesse cose. Per creare lealtà, ogni nazione cerca la propria unicità che si riflette nella lingua, nella cultura, nella storia e nella religione. Pertanto, quando due popoli sono costretti a vivere in un unico Stato, si finisce in una guerra civile in cui ogni nazione cercherà di prendere il potere. È successo in Libano, Iraq, Siria, Cipro, Irlanda del Nord e Kurdistan, e questo è un elenco parziale. Questa è anche la ragione della disintegrazione dell’Unione Sovietica e della Jugoslavia in diversi Stati nazionali.

Pertanto, “uno Stato” con due popoli significa una guerra totale con tutti i mezzi disponibili, compresi il terrore e l’omicidio, tra ebrei e arabi. La guerra riguarderebbe una serie di questioni: chi sarà a capo dello Stato, chi riceverà i bilanci, chi pagherà più tasse (il ricco di Tel Aviv finanzierà il povero di Jenin?), chi servirà nell’esercito e come funzioneranno la Legge del Ritorno (per gli ebrei) e il diritto al ritorno (per i palestinesi)?

Chiaramente i cittadini dell’unico Stato non sarebbero fedeli allo Stato artificiale. Tutti i cittadini sarebbero fedeli alla loro nazione, proprio come un tempo erano fedeli alla loro tribù. Basta vedere le battaglie di oggi tra ebrei sefarditi e ashkenaziti, tra poveri e ricchi, tra destra e sinistra, per rendersi conto di cosa accadrebbe nel momento in cui all’equazione si aggiungesse l’odio storico tra i due popoli. Gli ebrei hanno conservato la loro identità nazionale in esilio per 2.000 anni, finché non sono potuti tornare nella terra dei loro antenati e fondare uno Stato nazionale. Ed è esattamente ciò che i palestinesi vogliono ora: uno Stato nazionale indipendente, separato da Israele, dove poter esprimere le proprie aspirazioni nazionali.

Se i palestinesi parlano ancora di uno Stato, è perché sperano di vincere la guerra civile che scoppierebbe e inghiottirebbe l’intera area. Ed è esattamente quello che vogliono i politici di estrema destra Bezalel Smotrich e Itamar Ben-Gvir.

Un unico Stato è quindi un incubo. Un’idea folle. Un’utopia senza possibilità di successo. Una proposta di chi si è disperato per le difficoltà e ha rinunciato all’unica soluzione possibile: due Stati per due popoli. Un giorno,  – conclude Shtrasler – quando entrambe le parti avranno sofferto abbastanza, si realizzerà”.

Altro contributo di notevole spesso, anche per i trascorsi dei suoi tre coautori, è quello a firma Ami Ayalon, Gilead Sher, Orni Petruschka. 

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“Durante una conferenza stampa a Ramallah, il 16 luglio – scrivono – il Presidente degli Stati Uniti Joe Biden ha ribadito che “come Presidente degli Stati Uniti, il mio impegno per l’obiettivo di una soluzione a due Stati non è cambiato in tutti questi anni”.

Ha poi aggiunto che “anche se in questo momento il terreno non è maturo per riavviare i negoziati, gli Stati Uniti e la mia amministrazione non rinunceranno a cercare di avvicinare i palestinesi e gli israeliani ed entrambe le parti”.

Biden si è poi recato in Arabia Saudita, dove il Ministro di Stato saudita per gli Affari Esteri Adel al-Jubeir ha chiarito la posizione di Riyadh alla Cnn: “Una volta che ci siamo impegnati per una soluzione a due Stati con uno Stato palestinese nei territori occupati con Gerusalemme Est come capitale, questo è il nostro requisito per la pace”. La visita di Biden ha rappresentato un’opportunità multifocale per il governo israeliano: in primo luogo, ripristinare una relazione strategica intima e non di parte con gli Stati Uniti; in secondo luogo, mettere a punto una politica coordinata per contrastare un Iran a soglia nucleare; in terzo luogo, rafforzare ulteriormente la normalizzazione regionale avviata dagli Accordi di Abramo del 2020; in quarto luogo, e soprattutto, chiarire che Israele non sostiene né la soluzione dei tre Stati (che restituirebbe la Cisgiordania alla Giordania e la Striscia di Gaza all’Egitto) né lo scivolamento verso una disastrosa realtà a uno Stato. Purtroppo, non è riuscito a fare l’ultima cosa.

La visita era potenzialmente un’occasione d’oro per Israele per comunicare che intende promuovere un processo di separazione graduale, responsabile, continuo e mirato dai palestinesi, garantendo così il suo futuro come Stato ebraico e democratico, sicuro ed egualitario, nel rispetto del diritto palestinese all’autodeterminazione. Tutto ciò richiede coraggio, leadership e responsabilità nazionale. L’amministrazione Biden dovrebbe essere attiva sia in termini di processo che di visione finale di una realtà a due Stati, che è indispensabile. Essa è raggiungibile attraverso una serie di fasi transitorie, accordi provvisori e passi indipendenti, tutti conformi a un continuo processo negoziale regionale, multilaterale e bilaterale.

Ora è più chiaro che non ci sono scorciatoie per risolvere il conflitto israelo-palestinese, contrariamente a quanto Trump e Netanyahu vorrebbero farci credere con i festeggiamenti per gli accordi di Abramo. 

Per noi e per quelli come noi, israeliani che non rinunciano all’amore per il nostro Paese e alla preoccupazione per il suo futuro come Stato-nazione democratico e sicuro del popolo ebraico, lo spirito della Dichiarazione di Indipendenza è un punto fermo.

Ogni volta che i patrioti sionisti liberali come noi, che hanno servito il Paese senza battere ciglio, non affrontano l’occupazione e le sue conseguenze, abbandoniamo l’arena e permettiamo la continuazione del processo di annessione strisciante. E ogni giorno che passa senza avanzare verso il disimpegno dai palestinesi e la fine dell’occupazione, l’annessione strisciante ci allontana dalla possibilità di cambiare la realtà. La terminologia di “restringimento del conflitto” sostenuta dal governo uscente è un’imbiancatura linguistica volta a continuare la tacita annessione.

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Chiudendo un occhio sugli avamposti di insediamento a Evyatar e Homesh, mostrando lassismo di fronte agli spregevoli fenomeni di violenza grave e indisciplinata dei coloni e, soprattutto, rifiutando categoricamente qualsiasi dialogo con i palestinesi, Israele si sta incamminando ciecamente sulla strada della realtà di uno Stato unico.

La sua indifferenza alle ramificazioni del cosiddetto status quo è un’immagine speculare dei “tre no” del mondo arabo alla Conferenza di Khartoum del 1967: questa volta è no alla pace, no al riconoscimento di uno Stato palestinese e no ai negoziati con i rappresentanti del popolo palestinese.

Attualmente non c’è alcuna fattibilità politica per una soluzione a due Stati. Tuttavia, il campo moderato, con i suoi settori politici, civili e pubblici guidati dal Primo Ministro Yair Lapid e dai suoi colleghi, dovrebbe riunirsi intorno a un piano e a un messaggio che promuovano la creazione di una realtà a due Stati e preservino le possibilità e le condizioni per un futuro disimpegno israelo-palestinese e per la creazione di due Stati nazionali distinti con un confine tra di loro; chiedere il congelamento degli insediamenti al di fuori dei blocchi principali e promuovere meccanismi che consentano l’evacuazione degli insediamenti situati a est della barriera di separazione.

Qualsiasi altra strada significa che il centro-sinistra si sta unendo a una politica di annessione che porterà alla perdita dell’identità di Israele come Stato ebraico e democratico, che seppellirebbe l’impresa sionista e sarebbe un disastro sia per noi che per i palestinesi.

I partiti di destra in Israele si vantano di far parte del “campo nazionale”. In pratica, non sono altro che il campo binazionale, che ci porta intenzionalmente verso un disastroso Stato binazionale invece della necessaria divisione.

Il Primo Ministro Lapid e il campo moderato che lo circonda dovrebbero esprimere la volontà di promuovere un piano che miri più ambiziosamente a fornire un futuro migliore alle generazioni dei circa 15 milioni di israeliani e palestinesi che vivono in questa terra martoriata. Speriamo che dopo le elezioni di novembre si insedi un secondo “governo del cambiamento”, che adotti una politica di avanzamento graduale verso una realtà regionale migliore”.

Il dibattito è aperto. Se raffrontato a quello italiano, c’è da che pensare. E invidiare.  

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