La storia di Mays e Salwa, ragazze di Gaza: "Così Israele sta uccidendo i nostri sogni"
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La storia di Mays e Salwa, ragazze di Gaza: "Così Israele sta uccidendo i nostri sogni"

Più di 2 milioni di gazawi hanno perso la possibilità di muoversi liberamente, poiché Israele ed Egitto (che confinano entrambi con Gaza) hanno imposto severe limitazioni alla possibilità dei gazawi di entrare e uscire dalla stretta Striscia.

La storia di Mays e Salwa, ragazze di Gaza: "Così Israele sta uccidendo i nostri sogni"
Il valico di Erez tra Israele e Gaza
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Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

24 Agosto 2022 - 18.57


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La storia, i sogni, il dolore di Salwa e Mays, ragazze di Gaza.

Storie esemplari di ciò che significa nascere, crescere e vivere in una prigione a cielo aperto da 15 anni completamente isolata dal mondo.

Due storie esemplari

A raccontarle, su Haaretz, è Maria Rashed.

“L’ultimo round di combattimenti tra Israele e la Jihad islamica palestinese nella Striscia di Gaza è arrivato poco dopo che una triste pietra miliare è stata segnata nell’enclave costiera: 15 anni dall’inizio del blocco imposto su Gaza dopo il violento rovesciamento dell’Autorità palestinese da parte di Hamas nel 2007. Con il passare degli anni, più di 2 milioni di gazawi hanno perso la possibilità di muoversi liberamente, poiché Israele ed Egitto (che confinano entrambi con Gaza) hanno imposto severe limitazioni alla possibilità dei gazawi di entrare e uscire dalla stretta Striscia.


Per Salwa, una madre single di 29 anni che vive a Gaza, i ricordi della vita prima che l’area fosse isolata dal mondo tornano spesso, anche a distanza di 15 anni.


‘Avevo 14 anni quando è iniziato tutto”, racconta  ad Haaretz in un’intervista del mese scorso. ‘Ricordo un periodo in cui era possibile lasciare Gaza via mare e andare in Egitto abbastanza facilmente. Mia madre l’ha fatto nel 2004 perché doveva sottoporsi a un intervento medico in Egitto: bastava fare le valigie e partire’. Oggi, per uscire da Gaza e recarsi in Egitto è necessario attraversare via terra il valico di Rafah, che spesso è chiuso e richiede permessi speciali sia da parte di Hamas che delle autorità egiziane.


Salwa ricorda anche di aver partecipato a una gita scolastica fuori Gaza durante gli anni della scuola elementare, un’esperienza emozionante per lei da bambina. ‘Ho dovuto chiedere ai miei genitori di firmare un documento che mi permettesse di viaggiare fuori da Gaza. Tutti i bambini erano così eccitati per questo. Oggi questa possibilità non esiste per i bambini di Gaza’.


Come molte famiglie di Gaza, prima della chiusura del confine la famiglia di Salwa faceva affidamento sul lavoro in Israele come principale fonte di reddito: suo padre attraversava il valico di Erez quasi ogni giorno per lavorare in Israele. Quando il confine è stato chiuso nel 2007, suo padre è rimasto disoccupato. ‘È rimasto senza lavoro fino ad oggi’, racconta Salwa. ‘Mia madre ha sfruttato la sua abilità nel cucire i vestiti e l’ha trasformata da un hobby a una fonte di reddito’. Ma anche questo non era così semplice: Con le severe limitazioni alla capacità di Gaza di commerciare con il mondo, le materie prime di cui sua madre aveva bisogno per far crescere la sua attività erano fuori portata.


Israele ha imposto queste limitazioni, sostenendo che i materiali destinati a scopi civili venivano confiscati dall’ala militare di Hamas e utilizzati per scavare tunnel in Israele o per espandere l’arsenale missilistico dell’organizzazione.


‘Quando è iniziato l’assedio, da adolescente non capivo quanto avrebbe influito sulla nostra vita quotidiana’, dice Salwa. ‘Ora, ha persino influenzato i miei sogni e le mie ambizioni. Mi sembra che ogni giorno che passa la situazione qui non faccia che peggiorare’.

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La nostra conversazione, va sottolineato, si è svolta prima degli scontri tra Israele e la Jihad islamica all’inizio di questo mese, che hanno ucciso 17 bambini palestinesi.

Ricordi d’infanzia
Nel 2021, il governo israeliano ha deciso, per la prima volta dal 2007, di concedere a un numero limitato di gazawi un permesso di lavoro, che consente loro di entrare in Israele e cercare un’occupazione. Il numero attuale di titolari del permesso è di circa 14.000, anche se non tutti sono riusciti a trovare lavoro in Israele. Un fattore di complicazione è che Israele impone loro di tornare a Gaza alla fine di ogni giornata lavorativa, rendendo difficile trovare un lavoro che non sia nelle vicinanze del valico di Erez (che chiude la sera).
Mays, una gazawi di 23 anni che lavora nel campo della grafica, non ricorda nemmeno com’era la vita prima che Gaza fosse isolata dal mondo. Frequentava la quarta elementare quando è iniziato l’isolamento. ‘Non ricordo molto della mia infanzia’, dice,  ma ha un forte ricordo degli aerei da guerra israeliani che hanno attaccato Gaza più volte.
‘I ricordi dell’infanzia per me consistono tutti nella guerra, nelle bombe, nei bambini morti, nelle case distrutte, nelle persone che piangono per i loro cari e nelle mamme per i loro figli. È doloroso. Da quando avevo 10 anni, ho sempre vissuto con l’aspettativa che scoppiasse un’altra guerra, un altro conflitto. Questi sono i ricordi che ho’. 

Cresciuta in un quartiere settentrionale di Gaza, non lontano dal confine israeliano, alla sua famiglia è stato spesso ordinato di lasciare la casa in tempo di guerra per paura che i bombardamenti israeliani la distruggessero. ‘Il giorno più bello è sempre quello in cui viene annunciato il cessate il fuoco, ma aspettiamo ancora che arrivi la prossima tragedia’, racconta. Mays dice di sognare di poter viaggiare al di fuori di Gaza e di vedere il mondo, ma parlarne la rende solo frustrata. ‘Naturalmente mi piacerebbe uscire da Gaza e visitare luoghi, esplorare altre culture e anche studiare all’estero. Ma allo stesso tempo ho paura di non poter tornare e vedere la mia famiglia. È spaventoso. Cercare di ottenere un permesso speciale per partire è difficile, ma anche rischioso. E se scoppiasse una guerra mentre sono via e non potessi aiutare la mia famiglia e assicurarmi che rimanga in vita? È molto difficile uscire da Gaza. Ma anche se fosse possibile, vivrei comunque nella paura costante’. Mays ha cercato di lasciare Gaza qualche anno fa, per sottoporsi a un intervento chirurgico agli occhi in Egitto, ma non ha ottenuto il permesso di viaggio. ‘L’assedio è una realtà con la quale si convive quotidianamente e che influisce su molti aspetti della vita’, dice. ‘Il punto è che, salvo rari casi, per i giovani non esiste la possibilità di uscire da Gaza’”.

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Il reportage di Maria Rashed finisce qui.
La “normalità” che sa di morte.

A oltre 15 anni dall’inizio del blocco israeliano su Gaza, ancora 2,1 milioni di persone vivono reclusi, in quella che di fatto è una prigione a cielo aperto. Un’intera generazione di giovani palestinesi, oltre 800 mila, hanno trascorso la loro intera vita in questa situazione, senza conoscere nient’altro.

È la denuncia che aveva lanciato Oxfam alla vigilia del quindicesimo anniversario dall’inizio delle restrizioni imposte sulla Striscia, di fronte ad una situazione di cui non si intravede nessuna soluzione negoziata tra le parti, nonostante gli sforzi umanitari sostenuti dalla comunità internazionale e dalle Nazioni Unite, che fino ad oggi hanno stanziato 5,7 miliardi di dollari in aiuti.

“Siamo di fronte ad una crisi divenuta cronica, che costringe organizzazioni come Oxfam – da anni operativa sul campo – a lavorare per garantire la mera sopravvivenza di una popolazione sfinita, eppure straordinariamente resistente   –affermava in quel frangente Paolo Pezzati, policy advisor di Oxfam per le emergenze umanitarie – In questo momento 7 persone su 10 a Gaza dipendono dagli aiuti umanitari per far fronte ai bisogni essenziali di ogni giorno. Il controllo di Israele sulla Striscia è pressoché totale e si spinge a livelli paradossali e punitivi nei confronti della popolazione. Pensiamo alle regole sull’esportazione di pomodori, che di fatto impediscono ai produttori di vendere ciò che hanno coltivato. Rivolgiamo un appello al Segretario generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres, affinché una revoca immediata del blocco su Gaza divenga prioritaria nell’agenda internazionale”.

#OpenUpGaza15: una campagna per ridare speranza 

E’ la campagna di sensibilizzazione per restituire speranza a una generazione che rischia di perderla per sempre. Basti pensare che il 63% dei giovani a Gaza non riesce a trovare lavoro e 4 ragazze su 5 non hanno un’occupazione retribuita.

“Molte restrizioni israeliane hanno ragioni politiche, non certo di sicurezza. Le famiglie palestinesi di Gaza subiscono collettivamente una punizione illegale –aggiunge Pezzati – Israele impedisce l’esportazione di pasta di datteri, biscotti e patatine fritte, ha interdetto l’uso del 3G e del 4G sui cellullari, non c’è PayPal. Certamente questo non è un paese per giovani.”

Le storie dei giovani perduti di Gaza

La campagna #OpenUpGaza15 racconta la storia di 15 ragazzi, le privazioni quotidiane, gli ostacoli, le difficoltà con cui devono fare i conti per vivere e coltivare i propri interessi.

Come quella di Ahmad Abu Dagga che a 15 anni è bravissimo in scienze, ma teme che finirà la scuola senza aver mai visto un microscopio; o quella di Alaa Abu Sleih, 23 anni, nato con una disabilità, che quando si è rotto il pannello dei comandi della sua sedia a rotelle non ha potuto averne uno nuovo, mentre le gomme si stanno consumando e non sa come riuscirà a muoversi.

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L’agonia di Gaza

Gaza, una prigione che torna a fare notizia quando si fa la conta dei morti, quando torna ad essere un teatro di guerra. Allora i riflettori si riaccendono, i media ne tornano a parlare. Dimenticando che la vera, grande tragedia di Gaza e della sua gente, è la normalità.  Ed è nella ‘normalità’ che Gaza muore. Nel silenzio generale, nel disinteresse dei mass media, nella complicità della comunità internazionale, nella pratica disumana e illegale delle punizioni collettive perpetrate da Israele, nel cinico operare di Hamas, Gaza sta morendo. L’assedio sta privando una popolazione di 2,1milioni di abitanti, il 56% al di sotto dei 18 anni, del bene più vitale: l’acqua. A otto anni dal sanguinoso conflitto che nel 2014 distrusse buona parte del sistema idrico e fognario di Gaza, il sistema straordinario disegnato dalla comunità internazionale per la ricostruzione post-bellica (il cosiddetto Gaza Reconstruction Mechanism-Grm) non riesce ancora a rispondere ai bisogni degli oltre 2 milioni di abitanti della Striscia “intrappolati” in una delle zone più densamente popolate del mondo. Una situazione drammatica, rimarcava un precedente report di Oxfam, aggravata degli effetti del quindicennale blocco di Israele sulla Striscia, di cui le prime vittime sono oltre 2 milioni di persone che devono sopravvivere con uno scarsissimo accesso all’acqua e una situazione igienico-sanitaria in continuo peggioramento. Basti pensare che il 95% della popolazione – anche solo per bere e cucinare – dipende dall’acqua marina desalinizzata fornita dalle autocisterne private, semplicemente perché l’acqua fornita dalla rete idrica municipale (che presenta oltre 40% di perdite) non è potabile o perché oltre 40mila abitanti non sono allacciati alla rete. A questo si aggiunge un sistema fognario del tutto inadeguato con oltre un terzo delle famiglie che non è connesso al sistema delle acque reflue. Una situazione di carenza idrica di cui fanno le spese soprattutto donne e bambini, che in molti casi sono costretti a lavarsi, bere e cucinare con acqua contaminata e si trovano esposti così al rischio di diarrea, vomito e disidratazione.Gli effetti del blocco israeliano nella vita di tutti i giorni: commercio praticamente inesistente, famiglie divise e persone che non possono muoversi per curarsi, studiare o lavorare. Siamo all’annientamento di una popolazione: oltre il 65% degli studenti delle scuole gestite dall’Unrwa (l’Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi) a Gaza non riescono a trovare lavoro a causa delle dure condizioni di vita, dell’aumento della povertà e dei tassi di disoccupazione. 

Questa è la vita a Gaza, se di vita si può parlare.

Ricordarlo è un dovere. Come il sostegno a quanti, in Palestina, in Israele, nel mondo, e anche in Italia, non smettono di battersi per ridare una speranza ai “prigionieri” della Striscia. E perché un silenzio complice non avvolga la punizione collettiva inflitta da Israele a due milioni di palestinesi. Quella punizione è un crimine, per il diritto umanitario, per quello internazionale e per la stessa Convenzione di Ginevra sulla guerra. E ora dateci pure del “nemico d’Israele”.

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