di Antonio Salvati
Ancora una volta Pietro Del Soldà, con il suo ultimo volume, La vita fuori di sé. Una filosofia dell’avventura (Marsilio 2022 pp. 256, € 18,00), si avvale di storie ed autori antichi – soprattutto quei filosofi che posero le basi del pensiero filosofico occidentale – per veicolare e trasmetterci messaggi molto potenti. L’intento dell’autore è generoso: quello di accompagnarci in un percorso per «sottrarci all’egemonia dell’Io, che ci tiene “al sicuro” dentro il suo guscio privato e sopprime il desiderio d’altrove».
Possiamo bucare la bolla del conformismo – si chiede Del Soldà – senza condannarci all’emarginazione e all’asocialità? Apparentemente l’itinerario proposto non è semplice. Siamo più o meno consapevoli che viviamo schiacciati sulla dimensione presente, con il sociologo Giuseppe De Rita che da anni ci mette in guardia dagli effetti nefasti del presentismo. Perdiamo molto tempo a rincorrere i tanti ruoli che incarniamo ogni giorno e «che non ci lasciano energie per ampliare il nostro orizzonte temporale; siamo soggetti a una vera tirannia dell’Io che ci rende individualisti, narcisisti, competitivi e concentrati su un tornaconto personale che ha poco a che fare con le nostre aspirazioni più profonde; attribuiamo un’importanza eccessiva alle aspettative che gli altri nutrono nei nostri confronti: ossessionati dalla valutazione delle nostre performance in ogni ambito, finiamo per essere assai conformisti e, parafrasando Emmanuel Carrère, per vivere una vita che non è la nostra».
Facciamo quotidianamente un grande sforzo per adattarci alle aspettative degli altri, vere e proprie trappole della nostra vita. Uno sforzo assai stressante al punto da causare un diffuso e crescente disagio mentale e patologie psichiatriche che favoriscono il florido mercato di antidepressivi e ansiolitici. Ciò che più conta in questo scenario è l’effetto delle nostre scelte. Tale effetto, per Del Soldà, si compone di due elementi: «l’opinione degli altri su di noi (o meglio, l’opinione che riteniamo si facciano di noi) e il tornaconto o lo svantaggio che ci può derivare da ogni singolo atto (anche il più futile), valutato secondo una logica economica che si annida in quasi tutti i gesti che compiamo, anche quando non ne abbiamo consapevolezza o siamo persino convinti di agire «nobilmente», senza curarci dell’eventuale tornaconto. Quando mi muovo nel mondo, fatalmente, la mia attenzione, come quella altrui, si rivolge soprattutto all’aspetto esteriore e superficiale delle mie azioni. I pensieri si organizzano, nervi e muscoli si tendono e si dispongono a concretizzare quanto deciso, i desideri mi strattonano in direzioni divergenti. Quello che conta è il risultato: assai più del complicato processo interiore che ha portato a compiere quell’azione, vale la sua forma finale, la sua “facciata”. L’edificio in sé non interessa, forse perché nessuno ha davvero voglia di entrarci, né di far entrare gli altri nel proprio».
Del Soldà insiste particolarmente sulla tirannia dell’io che impatta notevolmente sulla vita di ciascuno di noi, favorendo una decisa resistenza al cambiamento nell’esperienza personale. Una resistenza che sviluppa una forte contrarietà a depotenziare l’identità che incarniamo in un dato momento, «con tutti i benefici che ci garantisce, per aprirci a nuovi scenari che potrebbero portare alla luce aspetti inespressi della nostra persona, ovviamente lasciandoci alle spalle il noi stessi di prima». Scegliamo, più o meno consapevolmente, l’Io fiero di sé e ossessionato dalla propria immagine preoccupato solo a custodire il suo piccolo recinto privato. In questo suo perenne sforzo di autodifesa – è il nodo decisivo oggi esacerbato dal nostro essere onlife (secondo la definizione proposta dal filosofo Luciano Floridi per descrivere l’indistinguibilità tra vita online e offline) –, «l’Io si confronta in continuazione con le aspettative circa i suoi comportamenti, a cui attribuisce il peso maggiore nella determinazione del proprio benessere». «Siamo nell’era del singolo», osserva acutamente la filosofa Francesca Rigotti. «Un’epoca in cui un numero sempre maggiore di persone, spesso inconsapevoli di far parte di una tendenza generale, non si aspetta più il generale ma sempre lo speciale; non si volge a ciò che è standardizzato e regolato ma a ciò che è originale e particolare; non è interessato alla produzione di massa ma a ciò che è specifico e individuale». La definizione è saffascinante, per noi uomini del XXI secolo, cresciuti con quella di Zygmunt Bauman, «solitudine del cittadino globale», e figli di un individualismo plurisecolare che ha posto l’Io sul trono del mondo: «sin dagli albori del pensiero moderno – ricorda giustamente Del Soldà – e ancora oggi, in questa società che si definisce post- o tardo-moderna, la natura umana pare potersi inverare solo nell’individuo titolare di diritti (almeno sulla carta) e responsabile del proprio destino». Mentre «la società è il nome con cui si indica una cerchia di individui legati gli uni agli altri da legami di reciprocità», scriveva nel 1910, con parole ancora attuali, uno dei più formidabili interpreti della modernità, il sociologo e filosofo tedesco Georg Simmel. Un’era del singolo dove si diffonde fortemente l’ossessione identitaria che unisce oggi visioni del mondo anche molto diverse tra loro, nel tentativo di escludere qualsiasi minaccia alla propria stabilità. Il narcisismo sfrenato, sul piano personale, e il cosiddetto «sovranismo», sul piano politico, pur essendo talvolta espressioni di biografie all’apparenza incompatibili («il narcisista iperindividualista può aderire a una cultura cosmopolita e liberale che rifiuta i nazionalismi e che abbraccia i principi democratici della tolleranza e della solidarietà, che il sovranista invece disprezza e combatte a colpi di filo spinato e slogan xenofobi»), sono uniti – osserva acutamente Del Soldà – da un vincolo invisibile ma essenziale: la fede cieca in una «identità forte». L’espressione è dell’antropologo Francesco Remotti, secondo il quale l’identità non è una realtà data, legata a un gruppo di valori collettivi immodificabili, che si tratta di scoprire e poi difendere nel quotidiano confronto con il diverso. L’identità è una costruzione, un work in progress socialmente determinato, come accade al cervello umano che «non si sviluppa da solo né prima dell’interazione con gli altri e dell’apprendimento di usanze e forme culturali». Un’identità definibile dal flusso informe e magmatico della vita e dal livello in cui si collocano tutte le alterazioni possibili nel rapporto con le identità diverse. Ma non è un nocciolo duro che sta dentro di noi e preesiste alla relazione sociale. L’identità individuale è innegabilmente una costruzione necessaria – senza non potremmo vivere – per non scivolare nella follia e nell’insensatezza ma poggia su fondamenta che non sono solide bensì fluide, cangianti. L’identità forte, invece, rimuove la coscienza di tale fluidità di fondo: è l’identità di chi – sottolinea Del Soldà – «è inconsapevole di questa natura instabile dell’Io e anche di qualsiasi Noi (etnico, linguistico, nazionale, religioso…) al quale sente di appartenere. È dunque un errore di prospettiva che l’essere umano commette nei confronti di sé stesso, quando si lascia tentare dalle sirene del narcisismo egolatrico o del sovranismo».
Significativamente il Rapporto Censis del 2019 – prima dell’esplosione del Covid 19 – ci raccontava della «società ansiosa di massa» e soprattutto dell’evocazione diretta del “sovrano” in carne e ossa, idealizzato e acclamato da più o meno la metà degli italiani. Stretti tra ansia di massa e incertezza del futuro, alla difficoltà di fidarsi degli altri accompagniamo il desiderio che arrivi un uomo forte a cambiare le sorti del Paese (e le proprie). Per natura noi ci fidiamo poco degli altri. Dobbiamo sempre dimostrare di essere noi a decidere ogni cosa: non sta bene far vedere che si dipende da qualcosa o da qualcuno, anche quando, nel fare così, facciamo come tutti e diventiamo gregari. Resta necessario continuare a riflettere sugli effetti dell’iperindividualismo e conseguentemente sul crollo del noi – così come lo ha definito Vincenzo Paglia – che scaturisce dall’affermazione della società dei consumi nella quale il miraggio della felicità prevale sull’individualismo, dove non c’è spazio per il prossimo, che viene ignorato, oppure, se straniero e povero, fa paura. L’individualismo, sia come atteggiamento personale, sia come visione politica, non conduce necessariamente a contrapporsi, a separarsi, a odiare. Tuttavia, ha spiegato efficacemente il cardinale Matteo Zuppi, «quando esso si contrappone a ogni spirito di fraternità, può facilmente scolorire nell’odio. E all’odio può cercare e trovare giustificazioni anche raffinate, nobilitandolo. Come quando si deve motivare una guerra. Vale su grande scala, ma anche nel privato. Molto spesso, ad esempio, l’individualismo usa l’espressione “i miei diritti” e non si pone immediatamente contro qualcuno. È ovvio che i diritti individuali sono una conquista pagata a caro prezzo da milioni di vittime di tutti i totalitarismi, o di donne e uomini oppressi e umiliati, sfruttati. Ma anche questi diritti, senza un “noi” che include l’altro, si deformano, come accade all’amore per noi stessi – così importante e da difendere – quando si afferma senza amore per gli altri». «Nelle nostre relazioni quotidiane», scrive la psicologa Nicoletta Gosio nel libro Nemici miei, «respiriamo un clima sempre più offuscato da intolleranza, facile offesa e una fin troppo vivace propensione all’accusa […]. A partire dalle inimicizie interiori costruiamo così un mondo popolato da tanti presunti nemici esterni a cui addossare la colpa di scontento e malumori».
Diviene, pertanto, indispensabile e necessario recuperare un barlume di coscienza e di capacità decisionale per prendere simbolicamente il largo e attraversare il mare. Sappiamo che le nostre abitudini sono «cattive maestre», ma quando si tratta di provare a cambiarle, spesso indugiamo. E poi – diciamolo -non c’è mai tempo a sufficienza da dedicare a riflessioni «esistenziali» che ci appaiono un pò astratte rispetto a un mondo esterno difficile da capire. Tiriamo così i remi in barca e critichiamo aspramente spesso i leader politici perché sembrano affetti da una «sindrome del breve termine», cioè da una strutturale assenza di lungimiranza nella gestione della cosa pubblica. Lo short-termism è una tendenza forse inevitabile per chi cerca il consenso nelle odierne democrazie mediatizzate, dove ogni proposta è condizionata dagli umori di un’opinione pubblica estremamente emotiva, volubile e miope, a sua volta schiacciata sul presente.
Erodoto (e dopo di lui Platone e Aristotele) – precisa Del Soldà – non ci offre un vademecum su «come vivere» da donne e uomini liberi in questa società. La libertà non si prescrive, né tanto meno si riduce a regole da rispettare, «possiamo soltanto incarnarla, ciascuno a suo modo, avventurandoci oltre le frontiere fisiche e culturali e scontrandoci con gli ostacoli e con le ingiustizie, oppure, quand’è inevitabile, negoziando con le realtà sociali, con le istituzioni, con le norme morali e con le mode imperanti che danno forma al mondo in cui viviamo».
Ben venga l’invito di Del Soldà ad intraprendere il viaggio con tutto ciò che comporta: nuove culture, nuove conoscenze, nuovi sapori, lingue ed esperienze. L’avventura rompe gli schemi e ci mostra chi siamo davvero. «Le avventure che ci troviamo a vivere, in altri termini, se sono veramente tali e non si riducono a meri divertissement o disgrazia o un evento inatteso, ma riservano qualcosa di più: ci indicano chi siamo davvero». Il famoso viaggio di Ulisse è menzionato anche nell’Inferno di Dante, dove l’eroe omerico sconta proprio la troppa “sete di conoscenza”. Viaggio e riscoperta della storia come dimensioni salvifiche. Alla passione per il viaggio, per i luoghi lontani, per coloro che hanno superato le frontiere fisiche e disciplinari (anche esistenziali) e le barriere di ogni tipo che ogni epoca ha posto come argine alla libera espressione della vita, potremmo abbinare le preziose parole di un grande pensatore eclettico come Stefan Zweig che definiva la cultura come il vero antidoto alla barbarie. Nel suo saggio, significativo fin dal titolo, Il libro come accesso al mondo, scriveva: «Il libro ha il potere di dilatare l’anima e costruire mondi nella nostra vita interiore». Si tratta di «apprezzare il miracolo che si rinnova ogni volta che ne apriamo uno». Il saggio, del 1931, lungi dall’essere uno scritto superato, è di sorprendente attualità e parla al nostro presente. Scriveva: «il libro non ha nulla da temere dalla tecnologia: giacché essa stessa non impara forse e non si perfeziona attraverso i libri? Ovunque, non soltanto nelle nostre vite individuali, il libro è l’alfa e l’omega di ogni sapere e l’inizio di ogni scienza. E quanto più si vive in intimità con i libri, tanto più profondamente si sperimenta la totalità della vita, perché colui che ama i libri, grazie al loro aiuto, vede e comprende il mondo in modo miracolosamente potenziato, non solo con i propri occhi, ma con lo sguardo di innumerevoli anime».