Ne avevamo scritto in decine di articoli. Con l’inestimabile contributo delle firme più prestigiose del giornalismo progressista israeliano avevamo raccontato di un Paese che guardava sempre più a destra. Avevamo titolato l’articolo alla vigilia del voto di ieri “Israele, il martedì nero bussa alla porta”. Ma neanche le più allarmate preoccupazioni, neanche le più “profetiche” anticipazioni si sono avvicinate a ciò che il voto di ieri ha sancito.
I peggiori presagi si sono avverati
Questo l’editoriale di Haaretz a tarda notte: “Per conoscere la ripartizione definitiva tra i blocchi occorre attendere i risultati finali, ma in base agli exit poll pubblicati martedì sera dalle tre principali emittenti televisive israeliane, è già chiaro che il grande vincitore delle 25esime elezioni della Knesset del Paese è il presidente di Otzma Yehudit, Itamar Ben Gvir, e che il grande sconfitto è Israele. Il sionismo religioso, la lista della Knesset che ha distorto il progetto sionista e lo ha trasformato da patria del popolo ebraico in un progetto di supremazia conservatrice, di destra, razzista e religiosa ebraica nello spirito del maestro e rabbino di Ben Gvir, Meir Kahane, è ora la terza forza politica in Israele. Questo è il vero, agghiacciante significato delle elezioni tenutesi martedì. Negli ultimi anni, Israele è diventato terribilmente più estremo. Tutto ciò di cui eravamo stati avvertiti sta accadendo proprio sotto i nostri occhi. Il kahanismo è stato legittimato e diffuso, e martedì alle urne ha superato il partito i cui leader sono due ex capi di stato maggiore delle Forze di Difesa israeliane (il Partito di Unità Nazionale); la lista kahanista è quasi tre volte più grande del movimento che ha fondato Israele (il Partito Laburista). Mentre le forze politiche di sinistra, di centro e di destra si sono unite per combattere contro Benjamin Netanyahu, è nata una minaccia più pericolosa. Anche se, come è stato osservato, è ancora troppo presto per dire come si formeranno i blocchi politici, al momento in cui scriviamo, Netanyahu potrebbe tornare al governo. La sua apparente coalizione gli permetterà di portare a termine il suo complotto contro la democrazia israeliana, compreso un colpo mortale contro il sistema giudiziario. Inoltre, tale coalizione potrebbe pretendere questo da lui. In una simile rivoluzione, potrebbero essere compiuti diversi passi distruttivi.
Ecco alcuni esempi: Licenziare il procuratore generale; dividere il ruolo di procuratore generale; legiferare una clausola di override che permetta alla Knesset di legiferare qualsiasi cosa voglia, anche leggi incostituzionali; permettere alla Knesset di selezionare i giudici della Corte Suprema; limitare la libertà di espressione e perseguitare giornalisti, arabi, persone di sinistra e membri della comunità LGBTQ. Dobbiamo sperare che l’aspetto dei blocchi cambi quando tutti i voti saranno contati e che Netanyahu non sia in grado di formare una coalizione da incubo, che si basa sui voti dei kahanisti.
Israele è ora sull’orlo di una rivoluzione di destra, religiosa e autoritaria, il cui obiettivo è decimare l’infrastruttura democratica su cui è stato costruito il Paese. Questo potrebbe essere un giorno nero nella storia di Israele”.
Terrificante
Annota Zvi Bar’el storico analista politico di Haaretz, apprezzato trasversalmente per il suo equilibrio e il suo rifuggere da toni apocalittici: “I risultati degli exit poll di martedì sera sono terrificanti. Benjamin Netanyahu dovrebbe formare il nuovo governo. Un governo che porrà fine all’era della democrazia che abbiamo conosciuto qui per oltre sette decenni. È vero che non era solo ieri che si prevedeva un cambiamento drammatico. Questo risultato – un prodotto del lungo e torbido mandato di Netanyahu, pieno di inganni, corruzione, incitamento e razzismo, in cui si è gioito di una sola libertà, quella dei coloni di esercitare la violenza – era già stato previsto nei sondaggi preliminari. Si è cristallizzato e gonfiato per circa un decennio e mezzo. L’exit poll, se si rivelerà il risultato finale, non ha predetto i risultati delle elezioni, quanto piuttosto ha riassunto la visione del mondo che è stata tessuta con determinazione e diligenza, e che è stata progettata per sciogliere il falso legame tra “ebraico” e “democratico” e per creare un mostro teologico-fascista. Ai valori liberali è stato ordinato di allinearsi ai dettami degli uomini forti della politica e dei prepotenti dell’ideologia. I partiti che presumibilmente sposavano i valori sono diventati irrilevanti. Non solo a sinistra, ma anche a destra e al centro, tra gli arabi e gli ultraortodossi.
Lo sforzo di trovare differenze tra “Labor” e “Meretz” o tra “Otzma Yehudit” e “Sionismo religioso”, di chiarire la natura precisa dell’ideologia del Likud e in cosa si differenzia dal campo dell'”Unità nazionale” ha trovato un unico segno alla fine della strada: “Chiunque tranne Bibi” o “Solo Bibi”.
È vero che il processo di fusione politica iniziato con la formazione del “governo del cambiamento”, in cui i rivali ideologici si sono seduti come posseduti, hanno stretto i denti con un’impressionante moderazione e si sono uniti con la forza della comune avversione per Netanyahu, è nato dal desiderio di impedirgli un altro mandato. Ma questa divisione tra “Chiunque tranne Bibi” e “Solo Bibi” è stata erroneamente percepita come una questione tecnica, personale, priva di ideologia e persino offensiva. Come se chi vota sulla base di questa considerazione fosse disposto a svendere tutti i suoi valori e la sua ideologia purché Bibi uomo venga o non venga eletto.
In ritardo, si è capito che il voto basato su questo criterio personale è l’essenza del voto ideologico. È fiorito solo quando le ombre minacciose di Bezalel Smotrich e Itamar Ben-Gvir sono diventate figure concrete. Ma a quanto pare non c’è stato abbastanza tempo perché la paura si radicasse profondamente. Il salvataggio di Netanyahu dall’ingresso in carcere è diventato una questione secondaria, importante agli occhi dei suoi rivali e dei suoi sostenitori, ma non una questione di importanza nazionale come il cambiamento del sistema di governo e la sua trasformazione in una teocrazia costituzionale. Ciò che era tecnico è diventato l’essenza e ciò che era personale è diventato ideologico.
I risultati degli exit poll rendono molto chiaro che il pericolo si è solo intensificato, anche se i risultati finali finiranno per impedire a Netanyahu di formare un governo e renderanno necessaria una sesta tornata elettorale. Perché ad ogni tornata elettorale che si è svolta finora, la divisione ideologica che traccia i confini minati che separano la visione del mondo democratica da quella autoritaria-razzista è diventata più radicata.
In una campagna elettorale di questo tipo non c’è più spazio per frammenti di partiti, per minuzie semantiche o per una microscopica ricerca di differenze genuine o immaginarie tra centro-sinistra e sinistra. Come hanno dimostrato le tornate elettorali, la battaglia è tra blocchi ideologici e la guerra all’interno dei blocchi, soprattutto nel blocco di centro-sinistra, significa non solo stare all’opposizione, ma suicidarsi.
Dobbiamo sperare che i risultati finali portino a un sesto turno che permetta di continuare il processo di fusione politica nel centro-sinistra, del tipo che includa gli arabi come forza integrante – questa volta non solo per motivi pratici ed elettorali, ma per costruire un forte muro difensivo intorno alla vera democrazia e alle sue istituzioni. L’altra opzione, che al momento sembra realistica, è che lo Stato di Israele venga trasferito all’amministrazione di bande e milizie politiche, sotto la guida di un imputato criminale, che piazzerà i suoi ordigni esplosivi sotto ogni istituzione democratica, e trasformerà Israele in uno Stato binazionale, di due nazioni ebraiche”.
Così Bar’el
La conferma dallo spoglio dei voti
La deriva autoritaria
Con lo spoglio del 62% dei seggi il Likud avanza ulteriormente e si conferma il primo partito di Israele con 33 seggi su 120, seguito dai centristi di Yair Lapid (25), dal partito di estrema destra ‘Sionismo religioso’ (14), dai centristi di Benny Gantz (12) e dal partito ortodosso Shas (12).
Nell’area di centro-sinistra tre liste (Meretz, Raam e Balad) sono per ora sotto la soglia di ingresso alla Knesset, anche se non lontane. La televisione pubblica Kan calcola che se questi dati fossero confermati il blocco dei partiti che sostengono Netanyahu – che negli exit poll riceveva 61-62 seggi – otterrebbe una maggioranza più netta.
“Il dato eclatante – annotava l’Ansa in un servizio riepilogativo della giornata elettorale – è stato comunque quello dell’affluenza: alle 20 era al 66.3%, quasi 6 punti in più delle elezioni del marzo 2021. In ogni caso le urne più affollate dal 1999. Consci della posta in palio per sbloccare l’impasse politica che ha attanagliato Israele, tutti i partiti – nessuno escluso – hanno ripetutamente chiamato il proprio elettorato ad andare alle urne. A cominciare dal premier Yair Lapid che – dopo aver votato di buona mattina nel seggio vicino alla sua abitazione in un sobborgo di Tel Aviv insieme alla moglie Lihi – ha spronato gli israeliani ad esprimere le proprie scelte. “Andate e votate oggi per il futuro dei nostri figli e per quello del nostro Paese”. Non è stato da meno Benyamin Netanyahu. Come fatto in tutte le elezioni passate, l’ex premier ha martellato dal suo sito Facebook chiamando incessantemente i sostenitori del suo Likud ad andare alle urne. Oggi ha fatto il giro di alcuni centri commerciali sostenendo che l’affluenza della sinistra era alta, mentre la destra è a far compere.
Lo stesso pressing ha compiuto Ben Gvir, che ha addirittura affittato un elicottero per recarsi nella zona centrale del Paese. Ben Gvir – contro il quale tutta l’attuale blocco di Lapid ha fatto muro denunciandone quella che ha definito ideologia razzista e fascista – ha votato a Kiryat Arba, un insediamento ebraico in Cisgiordania. In serata l’appello finale sia di Lapid sia di Netanyahu: entrambi per mobilitare i propri elettori hanno sottolineato che i blocchi erano “testa a testa”. Ma alla fine sembra averla spuntata il Mago, altro soprannome di Netanyahu. Ora – se i dati reali confermeranno gli exit pool – spetta al presidente Isaac Herzog avviare le consultazioni: e il nome in cime della lista è di nuovo quello di Benyamin Netanyahu.
“L’ascesa dei partiti religiosi di estrema destra alle elezioni israeliane, secondo gli exit poll delle tv, è un risultato naturale delle crescenti manifestazioni di estremismo e razzismo nella società israeliana, di cui il nostro popolo soffre da anni”, ha detto il premier dell’Autorità nazionale palestinese (Anp) Mohammad Shtayyeh citato dall’agenzia Maan.
Una questione aperta e due considerazioni
Ne scrive Pierre Haski, direttore di France Inter, in un articolo, precedente al voto, pubblicato in Italia da Internazionale.
“[…]. La prima )considerazione) è che il voto non cambierà quasi nulla rispetto alla questione palestinese, convitato di pietra nel dibattito israeliano. La seconda è che, a prescindere da quale sarà la composizione, il prossimo governo dovrà affrontare volente o nolente la situazione esplosiva nei territori palestinesi.
Sono lontani i tempi in cui destra e sinistra israeliane si scontravano sulla pace con i palestinesi. La stessa parola “pace” è scomparsa dal vocabolario politico con il fallimento degli accordi di Oslo. Oggi in Israele la sinistra è ridotta ai minimi termini.
Il Partito laburista, quello di Ben Gurion ma anche di Yitzhak Rabin e Shimon Perez, che vinsero insieme il premio Nobel per la pace con Yasser Arafat nel 1994, è ormai l’ombra di se stesso. Il Meretz, l’altro partito storico di sinistra, ha lanciato l’allarme perché teme di non superare la soglia di sbarramento del 3,25 per cento per entrare alla Knesset, il parlamento israeliano.
La questione palestinese, però, non è affatto svanita, e non sparirà se non trova una qualche soluzione. Il problema è che la società israeliana affronta questo tema soltanto in termini di sicurezza.
La società israeliana affronta il problema palestinese solo in termini di sicurezza
Sul fronte palestinese le stesse cause producono gli stessi effetti. La frustrazione per l’assenza di qualsiasi prospettiva politica, le aggressioni continue e violente dei coloni israeliani, il discredito crescente dell’Autorità palestinese guidata da Abu Mazen e l’eredità del fallimento degli accordi di Oslo producono un cocktail esplosivo. La violenza minaccia di travolgere ancora una volta la Cisgiordania, animata da una nuova generazione che non ha vissuto le prime due intifada, le ribellioni degli anni ottanta e duemila.
Dall’inizio dell’anno si contano già 120 morti in Cisgiordania, in una terza intifada strisciante che ancora non è stata proclamata. Gli incidenti si sono verificati a Hebron, unica località in cui i coloni controllano una parte del centro della città palestinese, a Jenin, dove a giugno la celebre giornalista palestinese-statunitense Shireen Abu Akleh è stata uccisa da un soldato israeliano,e più recentemente a Nablus, la grande città del nord della Palestina.
A Nablus giovani palestinesi di ogni orientamento hanno creato il nuovo gruppo armato “Areen al Oussoud”, la Fossa dei leoni, di cui molti leader sono stati uccisi nel corso degli scontri con l’esercito israeliano.
Ma questa situazione non è neanche citata nella campagna elettorale israeliana. Però le distanze sono molto ridotte all’interno del territorio costituito da Israele e dai territori palestinesi, che lo stato ebraico ha conquistato nel 1967. Basta un’ora di macchina per raggiungere Tel Aviv da Hebron, passando dalla città più da incubo dei territori al paradiso spensierato e prospero sulle rive del Mediterraneo. Due mondi che si danno le spalle, separati da un muro e dai posti di blocco dell’esercito israeliano…”.
Così il direttore di France Inter.
Un muro che da oggi, dopo il voto d’Israele, sarà ancora più alto e opprimente. Israele ha scelto di affossare ogni residua speranza di pace.
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