Migranti, cresce la violenza di genere: la denuncia dell'Unhcr
Top

Migranti, cresce la violenza di genere: la denuncia dell'Unhcr

La tragedia dei migranti è anche questa. A darne conto, con una allarmata nota ufficiale, è l’Unhcr, l’Agenzia delle Nazioni Unite per i Rifugiati

Migranti, cresce la violenza di genere: la denuncia dell'Unhcr
Migranti
Preroll

Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

25 Novembre 2022 - 16.17


ATF

Violenza di genere per le donne e ragazze costrette a fuggire. La tragedia dei migranti è anche questa.
A darne conto, con una allarmata nota ufficiale, è l’Unhcr, l’Agenzia delle Nazioni Unite per i Rifugiati. 

La violenza di genere

“Il deterioramento delle condizioni socio-economiche, i conflitti nuovi e quelli in corso e la carenza di fondi per le operazioni umanitarie stanno aggravando il rischio di violenza di genere per le donne e le ragazze costrette a fuggire, avverte l’Unhcr, l’Agenzia Onu per i Rifugiati. “Un mix tossico di crisi – conflitti, clima, costi alle stelle e gli effetti a catena della guerra in Ucraina – sta infliggendo un coplo devastante alle persone costrette a fuggire in tutto il mondo, ma a soffrirne sono soprattutto le donne e le ragazze”, ha dichiarato Filippo Grandi, Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Rifugiati. Molti rifugiati e sfollati interni non sono in grado di soddisfare i bisogni di base, a causa dell’inflazione dei prezzi e della limitata assistenza umanitaria dovuta all’interruzione delle catene di approvvigionamento e alla carenza di fondi. Le donne e le ragazze costrette a fuggire sono spesso le più vulnerabili, a causa della perdita di beni e mezzi di sussistenza, dell’interruzione delle reti di sicurezza comunitarie e della loro frequente esclusione dall’istruzione e da altre forme di protezione sociale nazionale. Di fronte alla carenza di cibo e all’aumento dei prezzi, molte donne e ragazze sono costrette a prendere decisioni strazianti per sopravvivere.


“Con i risparmi esauriti, molte saltano i pasti; le bambine vengono mandate a lavorare invece che a scuola, e alcune non hanno altra scelta che chiedere l’elemosina o praticare la vendita o lo scambio di sesso per sopravvivere. Per troppe, i rischi di sfruttamento, traffico di esseri umani, matrimoni precoci e violenze nelle relazioni di coppia sono aumentati”, ha dichiarato Grandi.


L’Unhcr ha registrato gravi problemi nutrizionali tra le popolazioni rifugiate in Algeria, Bangladesh, Camerun, Ciad, Etiopia, Kenya, Niger, Repubblica del Congo, Sudan, Sud Sudan, Tanzania, Uganda e Zambia, compresi malnutrizione acuta, arresto della crescita e anemia. In tutta l’Africa orientale e meridionale, più di tre quarti dei rifugiati hanno subito una riduzione delle razioni alimentari e non sono in grado di soddisfare le loro esigenze di base. In Siria, 1,8 milioni di persone che vivono nei campi per sfollati soffrono di grave insicurezza alimentare, mentre nove rifugiati siriani su 10 in Libano non possono permettersi alimenti e servizi essenziali.


In tutte le Americhe, la metà delle persone costrette a fuggire consuma solo due pasti al giorno e tre quarti riducono la quantità o la qualità del cibo, secondo i dati dell’Unhcr. Si prevede un grave deterioramento della sicurezza alimentare nello Yemen e nel Sahel, e milioni di sfollati interni in Paesi come la Somalia e l’Afghanistan vivono in situazioni in cui il 90% della popolazione non consuma cibo a sufficienza. Esiste un ciclo scioccante e pernicioso di fame e insicurezza, che esaspera l’uno e l’altro e alimenta i rischi per le donne e le ragazze, in quanto le comunità adottano strategie di sopravvivenza dannose.

Leggi anche:  Rilanciare il centro d'Albania alla vigilia di Natale è un'offesa a Gesù che fu un migrante perseguitato da Erode


Le segnalazioni di ragazze costrette a sposarsi per permettere alla famiglia di acquistare cibo sono particolarmente sconvolgenti. In Oriente e nel Corno d’Africa, i matrimoni precoci sono in aumento per alleviare la pressione sul reddito familiare. Anche i rischi di violenza sessuale sono aggravati dalla siccità, con donne e ragazze costrette a percorrere distanze maggiori per raccogliere acqua e legna da ardere. L’Unhcr teme che i finanziamenti non abbiano tenuto il passo con la necessità di programmi per affrontare la violenza di genere, sebbene questa non sia mai stata così grande. Il fabbisogno globale identificato dall’UNHCR per i programmi di prevenzione e risposta alla violenza di genere nel 2023 raggiungerà circa 340 milioni di dollari, il livello più alto di sempre.
In occasione dei 16 giorni di attivismo contro la violenza di genere, l’Unhcr esorta i donatori a sostenere i servizi essenziali di prevenzione e risposta alla violenza di genere e a sostenere i programmi umanitari salvavita per garantire che i rifugiati e le altre persone costrette a fuggire possano soddisfare le loro esigenze di base”.

L’interminabile Spoon River del dolore

Oltre 50 mila migranti in tutto il mondo hanno perso la vita durante il viaggio  della speranza dal 2014, data in cui il Missing migrants project dell’Oim (l’Organizzazione internazionale delle migrazioni) ha iniziato a documentare le morti. Lo rivela un rapporto della stessa Oim pubblicato oggi, in cui si precisa che si tratta solo delle morti accertate. “Nonostante la crescente perdita di vite umane, i governi dei Paesi di origine, transito e destinazione hanno intrapreso poche azioni per affrontare l’attuale crisi globale dei migranti scomparsi”, aggiunge il rapporto.

“E’ stato fatto poco per affrontare la situazione”

“Sebbene migliaia di morti siano state documentate ogni anno lungo le rotte migratorie, è stato fatto ben poco per affrontare le conseguenze di queste tragedie, figuriamoci per prevenirle”, afferma Julia Black, coautrice del rapporto. Oltre 30.000 persone nei registri del Missing migrants project sono di nazionalità sconosciuta, il che indica che oltre il 60% di coloro che muoiono sulle rotte migratorie rimangono non identificati, lasciando migliaia di famiglie alla ricerca di risposte.

Oltre 9.000 morti provenivano dall’Africa

Dei migranti dispersi la cui nazionalità è stata invece identificata, più di 9.000 provenivano da nazioni africane, oltre 6.500 dall’Asia e altri 3.000  dalle Americhe. La maggior parte veniva dall’Afghanistan, dalla Siria e dalla Birmania. Più della metà dei 50.000 decessi documentati si sono verificati sulle rotte verso e all’interno dell’Europa, con le rotte del Mediterraneo che hanno causato almeno 25.104 vittime.

Le rotte europee quelle con più dispersi

Le rotte europee costituiscono anche il maggior numero  totale e percentuale di persone scomparse e presunte morte con almeno 16.032 dispersi registrati in mare i cui resti non sono mai stati recuperati. L’Africa è la seconda regione più mortale per le persone in movimento, con oltre 9.000 morti durante la migrazione documentate nel continente dal 2014. Le indagini regionali sulle famiglie indicano che queste cifre sono quasi certamente una sottostima.

Leggi anche:  Rilanciare la cooperazione internazionale si deve, si può

I numeri in Usa e Medio Oriente

Quasi 7.000 morti sono state documentate nelle Americhe, la maggior parte sulle rotte verso gli Stati Uniti (4.694). Il solo valico di frontiera terrestre tra Stati Uniti e Messico è stato teatro di oltre 4.000 morti dal 2014. Altri 6.200 decessi sono stati documentati in Asia: i bambini sono oltre l’11%, la percentuale più alta di qualsiasi regione. Dei 717 decessi di bambini registrati durante le migrazioni asiatiche, più della metà (436) sono rifugiati Rohingya. In Medio Oriente, almeno 1.315 vite sono state perse sulle rotte migratorie, molte in Paesi con conflitti in corso che rendono estremamente difficile il conteggio e l’identificazione dei migranti scomparsi. Almeno 522 persone arrivate dal Corno d’Africa sono morte nello Yemen e sono 264 i siriani dichiarati ufficialmente morti durante i tentativi di attraversare il confine verso la Turchia.

Rispettare il diritto alla mobilità umana, accogliere lo straniero, superare ogni nazionalismo chiuso e violento, fermare ogni atteggiamento xenofobo, il disprezzo e il maltrattamento degli stranieri”. Chiedono innanzitutto questo i vertici delle Conferenze episcopali della Colombia e del Venezuela, in un comunicato congiunto diffuso il 22 novembre, a chiusura di un incontro di due giorni nella diocesi di Apartadò, nel dipartimento di Antioquia, una regione di confine che conduce alla rischiosa e impenetrabile foresta del Darién, punto di passaggio dal Sud America all’America Centrale.

“Sono quasi 2.000 le persone morte o disperse nel Mediterraneo solo quest’anno ed è necessario agire con urgenza. Mentre gli Stati si accusano a vicenda, si perdono vite umane. Sono necessari sforzi di ricerca e soccorso più coordinati e guidati dagli Stati, sbarchi prevedibili in luoghi sicuri e un accesso accelerato alle procedure di screening e di asilo per identificare coloro che potrebbero aver bisogno di protezione internazionale e rimpatriare – in sicurezza e con dignità – coloro che non ne hanno bisogno.[…] L’urgenza di affrontare la disperata situazione nel Mediterraneo non sostituisce la necessità di riforme più ampie per un sistema comune di asilo più equo e meglio gestito, come proposto nel Patto UE sulla migrazione e l’asilo. Ma le persone non possono permettersi di aspettare. Con così tante vite in gioco, l’Unhcr riconosce l’importanza vitale del soccorso in mare da parte di tutti gli attori, comprese le navi di soccorso delle Ong. L’Unhcr continuerà a sostenere gli Stati nella ricerca e nell’attuazione di soluzioni immediate e umane, in linea con il diritto internazionale, per evitare altre inutili morti in mare”, rimarca ancora Grandi.  

“Ai piedi del migrante”

Leggi anche:  Rilanciare la cooperazione internazionale si deve, si può

La solidarietà è anche questo. A darne la giusta rilevanza è Vatican News con un documentato report di Anna Poce. “I presuli, nell’ambito della campagna “Ai piedi del migrante” – un’iniziativa guidata da monsignor Hugo Alberto Torres Marín, vescovo di Apartadó, per incoraggiare i cattolici ad essere più vicini alla popolazione migrante -, hanno incontrato in un tour, nell’Urabá di Antioquia, a Necoclì e Apartadò, la comunità dei migranti, che ogni giorno attraversa questa regione per entrare nel cosiddetto inferno del Darién o “tapón del Darién” (tappo del Darién), così chiamato per via della sua fitta vegetazione. Hanno incontrato migranti e rifugiati, soprattutto venezuelani, che a causa della povertà, dei conflitti politici e della violenza – si legge nel comunicato – “sono stati costretti a lasciare i loro Paesi d’origine in cerca di migliori condizioni di vita e di opportunità future per le loro famiglie”.

“La comunità dei migranti, che riunisce diverse nazionalità, ha condiviso con noi tutte le vicissitudini che devono affrontare per raggiungere Necoclí e le paure di attraversare il cosiddetto ‘inferno del Darién’, a causa di malattie, rapine, stupri, incidenti e sfruttamento da parte di chi vede un’opportunità di grande guadagno economico, senza alcun controllo istituzionale locale e nazionale”, hanno affermato i vescovi.

Appello per evitare sfruttamento sessuale e lavorativo 

Nel testo, i presuli hanno espresso il loro apprezzamento per l’organizzazione e le iniziative umanitarie portate avanti dalla cooperazione internazionale e dalle diverse agenzie per far sì che il transito dei migranti avvenga nel rispetto della dignità umana. Tuttavia, hanno chiesto che questa popolazione vulnerabile venga accompagnata “con tutti i mezzi, e soprattutto dalle istituzioni, per evitare il traffico di esseri umani, la violenza di genere, lo sfruttamento sessuale e lavorativo, soprattutto di bambini e adolescenti”; che siano date loro opportunità per integrarsi in maniera dignitosa; e che gli enti pubblici infine promuovano “vie di transito sicure, ordinate, informate e regolamentate nel rispetto dei diritti umani”.

All’incontro erano presenti, per la Conferenza episcopale venezuelana (CEV), monsignor Jesús González de Zárate, arcivescovo di Cumaná e presidente della CEV e monsignor Mario Moronta, vicepresidente e vescovo di San Cristóbal; per la Conferenza episcopale colombiana (CEC), monsignor Luis José Rueda Aparicio, arcivescovo di Bogotá e presidente della CEC, monsignor Omar Alberto Sánchez, vicepresidente e arcivescovo di Popayán, monsignor Luis Manuel Ali, vescovo ausiliare di Bogotá e segretario della CEC, monsignor Juan Carlos Barreto, vescovo di Soacha e presidente della Commissione episcopale per la pastorale sociale”.

Una esperienza straordinariamente significativa. La Chiesa che si fa parte, in cammino, dei più indifesi tra gli indifesi. Che denuncia i soprusi e che sfida i potenti. La Chiesa di Papa Francesco. Non è necessario essere credenti per sentirla nostra.  Essere più vicini alla popolazione migranti. Un “comandamento” che dovrebbe essere seguito e praticato da chiunque continui ad avere un briciolo di umanità. 

Native

Articoli correlati