Donne, giovani. Sono loro i protagonisti dell’Iran Revolution. Sono loro a essere da mesi il principale bersaglio della brutale repressione scatenata dal regime teocratico-militare iraniano. Una protesta che si è trasformata in rivolta. Una rivolta che è diventata rivoluzione.
I boia di stato
L a repressione in Iran nei confronti di chi manifesta contro le imposizioni del regime non si placa. Continuano le condanne pesanti nei confronti dei manifestanti, dopo le prime esecuzioni capitali. E tra coloro che rischiano di finire nelle mani del boia ci sono anche un 18enne e un 22enne disabile.
Un tribunale nella città di Zahedan, secondo quanto riferito anche dall’organizzazione che lotta per i diritti umani in Iran Hrana, ha infatti condannato a morte il 22enne disabile con l’accusa di “corruzione sulla Terra”. Mansour Dahmardeh, di etnia beluci, è stato processato il 3 gennaio ma è stato informato della sentenza solo due giorni dopo. “Mansour ha confessato di aver lanciato delle pietre e dato fuoco a una gomma, ma il giudice ha risposto che chiunque protesti contro l’autorità di Khamenei sarà condannato a morte”, ha riferito una fonte.
Il pugno di ferro del regime non si è fermato qui. Un altro tribunale, a Mazandaran, ha condannato a morte il 18enne Arshia Takdestan, uno dei detenuti delle recenti proteste nella città di Nowshahr “con l’accusa di guerra e corruzione”. Lo riporta Mizan, l’agenzia di stampa giudiziaria iraniana, ripresa da diversi media internazionali, tra cui Bbc Persian. La sentenza di primo grado può comunque essere impugnata dinanzi alla Corte Suprema.
“La magistratura – scrive A.Alba su RaiNews – lo ritiene colpevole anche di “crimini su larga scala contro la sicurezza interna e distruzione di proprietà che ha causato grave disturbo all’ordine pubblico, insicurezza e gravi danni alla proprietà pubblica”. Si tratta di una sentenza del tribunale primario e può essere impugnata dinanzi alla Corte suprema. Sono già 2 le condanne a morte eseguite alla fine del 2022 e una ventina in totale i condannati all’impiccagione a seguito delle proteste antigovernative contro gli ayatollah guidati da Ali Khamenei. Secondo Amnesty international, la Repubblica islamica dell’Iran è dopo la Cina (dati però non ufficiali) il Paese al mondo con il numero di esecuzioni capitali più alto: 314 dal 2017, in un Paese dove si è condannati a morte anche per possesso di droga. Apprensione in Iran per la sorte di un altro giovanissimo protagonista della protesta antigovernativa che da quasi quattro mesi scuote il paese del Medio Oriente.
Si tratta di Arshia Takdestan, 18enne originario della città di Nowshahr a nord di Teheran, già detenuto a causa delle recenti proteste “con l’accusa di guerra e corruzione” ovvero di moharebeh. Ora è stato condannato a porte chiuse dal tribunale rivoluzionario di Mazandaran. Lo riporta Mizan, l’agenzia di stampa giudiziaria iraniana, ripresa da Bbc persian. Mizan lo definisce “leader delle rivolte a Nowshahr”, la sua foto in poche ore è divenuta virale sui social.
La magistratura lo ritiene colpevole anche di “crimini su larga scala contro la sicurezza interna e distruzione di proprietà che ha causato grave disturbo all’ordine pubblico, insicurezza e gravi danni alla proprietà pubblica”. Si tratta di una sentenza del tribunale primario e può essere impugnata dinanzi alla Corte suprema. Sono già 2 le condanne a morte eseguite alla fine del 2022 e una ventina in totale i condannati all’impiccagione a seguito delle proteste antigovernative contro gli ayatollah guidati da Ali Khamenei. Secondo Amnesty international, la Repubblica islamica dell’Iran è dopo la Cina (dati però non ufficiali) il Paese al mondo con il numero di esecuzioni capitali più alto: 314 dal 2017, in un Paese dove si è condannati a morte anche per possesso di droga. La protesta che coinvolge in modo capillare il Paese da Nord a Sud, trova anche in altre regioni giovani condannati alla pena capitale. Dopo le due esecuzioni ravvicinate di fine anno: la prima quella di Mohsen Shekari, 23 anni, giustiziato per aver ferito un membro delle forze di sicurezza, seguita a quattro giorni di distanza da quella di Majidreza Rahnavard, anche lui 23 anni, impiccato in pubblico il 12 dicembre scorso accusato da un tribunale di Mashhad (nel nord-est dell’Iran) di aver ucciso due membri delle forze di sicurezza, sono poi arrivate, pochi giorni fa, quelle emesse contro Mehdi Mohammadi Fard e Mohammad Boroghani, giovani di 18 e 19 anni arrestati durante le proteste anti-governative scoppiate a settembre scorso. Tra le accuse vi è quella di aver diretto e pianificato le manifestazioni del 21 settembre, oltre a “insulto al leader supremo”, la guida suprema ayatollah Ali Khamenei, “azioni contro la sicurezza della contea”, e “propaganda contro le istituzioni”. Anche a Karaj, città più a ovest dell’Iran, c’è preoccupazione per la sorte di altri due condannati alla pena capitale: Mohammad Mahdi Karmi e Mohammad Hosseini, arrestati dopo essere stati accusati della morte di alcuni membri Basij, la forza paramilitare subordinata, ma non meno violenta, ai Pasdaran”.
Punto di non ritorno
Di grande interesse è il report di Luciana Borsatti per Valigia Blu: “La morte della giovane curda Mahsa Amini il 16 settembre scorso, dopo il suo arresto da parte della cosiddetta polizia morale (Ghast-e-Ershad) iraniana, annota Borsatti – ha certamente segnato un punto di non ritorno nella storia dei movimenti di protesta contro i vertici e la legittimità stessa della Repubblica Islamica. Quella che sembrava partita solo come una nuova e potente ondata di proteste contro l’obbligo del velo ha visto subito giovani donne e uomini fianco a fianco, in una lunga serie di manifestazioni diffuse in tutto il paese, ormai entrate nel loro quarto mese quasi senza soluzione di continuità.
Da tempo risuona in tutto il mondo il loro potentissimo slogan “Donna Vita Libertà” un grido che evoca la forza e il coraggio di tante donne iraniane, che in questi decenni si sono riconquistate con le unghie e con i denti parte dei diritti persi con la rivoluzione islamica e ora li rivendicano tutti e senza condizioni, ma che è anche mosso dal sogno di un cambiamento politico radicale, dalla convinzione degli attivisti di essere vicini a una vera ‘rivoluzione’. . Si tratta del sogno di una giovane generazione che l’anziana leadership clericale non sa e non vuole comprendere, mentre gli apparati repressivi del sistema hanno ben presto avviato una dura repressione che ha fatto finora contare, secondo stime di organizzazioni basate all’estero, almeno 500 morti tra i manifestanti e 18 mila arresti, fra i quali una sessantina di giornalisti. Decine anche le condanne a morte, mentre già due giovani sono stati impiccati a poche settimane dalla sentenza, in dispregio delle stesse leggi penali iraniane che prevedono passi almeno un anno prima dell’esecuzione. E sono numerosi i casi di torture e abusi anche sessuali ai danni degli arrestati segnalati dagli attivisti, insieme ad una serie di sconcertanti e inaccettabili violenze.
Nel frattempo, tramite le informazioni diffuse sui social media da milioni di simpatizzanti ma anche dai potenti mezzi di chi domina lo spazio della rete e dell’intelligenza artificiale, l’hashtag #IranRevolution ha ormai soppiantato il più prudente #IranProtests2022, scolpendo indelebilmente anche la nostra percezione del presente, e forse anche la sua rappresentazione nelle pagine di storia del futuro. Ma la giusta distanza che da giornalisti dovremmo sempre cercare di mantenere, al di là delle sollecitazioni cui veniamo sempre soggetti, ci impone di guardare non solo alla potenza di un sogno di rivoluzione, ma anche agli ostacoli oggettivi che lo fronteggiano e ai rischi che può correre per volontà di altri agenti, presenti e attivi all’interno del paese o nelle dinamiche geopolitiche esterne.
La Repubblica Islamica non è solo degli Ayatollah, ma anche dei Pasdaran
L’Iran non è il paese degli Ayatollah. O meglio, è molto più di questo. Continuare a usare questa diffusa ma riduttiva categoria giornalistica significa allontanarsi dalla comprensione della storia iraniana degli ultimi 40 anni e anche dall’attualità delle proteste che percorrono l’Iran in questi mesi. Se è vero infatti che i manifestanti urlano nelle strade “Morte al dittatore” riferendosi all’Ayatollah Ali Khamenei – la Guida (Rahbar) che rappresenta la massima autorità politica e religiosa della Repubblica Islamica fondata nel 1979 da Ruhollah Khomeini – la rivolta di questi mesi è ormai apertamente diretta contro l’intero apparato politico-istituzionale che ha retto finora il paese. E nel quale a decidere non è soltanto un gruppo selezionato di esperti sciiti di diritti islamico, che per comodità chiamiamo “clero”, ma anche – e con un ruolo sempre più dominante sul piano militare, politico, economico e dell’ordine pubblico – dal Corpo dei Guardiani della Rivoluzione (Sepah-e Pasdaran-e Enghelab-e Eslami), i veri benché laici depositari del potere della Repubblica Islamica. Quelli che appunto ne tengono ormai quasi tutte le redini, pur nel rispetto dell’assetto costituzionale che Khomeini fondava nel 1979, istituendo contestualmente anche quell’organizzazione militare – parallela all’esercito regolare – incaricata di proteggere la rivoluzione. La quale era nata anche sotto la spinta di gruppi nazionalisti, liberali e comunisti, ma che è infine divenuta solo islamica. Si tratta di una potenza militare dispiegata in tutti i campi della Difesa, dalla Marina all’Aeronautica, dotata di un proprio servizio di intelligence e anche di una forza speciale per le operazioni all’estero (Qods), ma che svolge anche un ruolo cruciale nell’economia del paese, controllandone tutti i settori chiave, dalle costruzioni ai grandi apparati industriali, fino a quelle attività di contrabbando divenute ancor più vitali per aggirare le sanzioni internazionali. Proprio per questo il futuro del Sepah, come lo chiamano gli iraniani, è inestricabilmente legato alla sopravvivenza stessa della Repubblica Islamica, di cui ha preso ormai il pieno controllo anche sul piano politico con il venir meno della già debole componente moderato-riformista.
La repressione delle proteste e l’inarrestabile erosione del consenso interno
Ma proprio le proteste di questi mesi stanno mettendo a rischio il residuo consenso popolare rimasto alla Repubblica Islamica tra i ceti più religiosi e nelle aree rurali e urbane meno secolarizzate, causa l’incapacità dei suoi vertici di rispondere alle istanze dei manifestanti se non con una dura repressione. Un fenomeno, quest’ultimo, di cui apprendiamo da documenti e video trasmessi online dagli attivisti e dai manifestanti nonostante le restrizioni governative a internet – e dunque non sempre verificabili in modo indipendente – , convogliati all’estero da organizzazioni molto attive sui social e poi spesso ripresi anche dai media tradizionali.
Prescindendo tuttavia da quest’ultima annotazione – che apre a una riflessione sulle fonti a cui attinge la nostra percezione della #IranRevolution – restano i dolorosi e inaccettabili fatti che le cronache ci consegnano: migliaia di arresti tra i manifestanti e i giornalisti, appunto, e tra figure di rilievo del mondo artistico e cinematografico, che spesso anche in passato si sono fatte portavoce del disagio sociale e della protesta: ultima in ordine di tempo la nota attrice Taraneh Alidoosti, appena liberata su cauzione dopo una ventina di giorni nel carcere di Evin, da dove è uscita significativamente senza velo); violenze e torture e abusi sessuali perpetrati nelle carceri; condanne a morte per reati incomprensibili alla cultura giuridica occidentale come la “corruzione sulla terra”; impiccagioni di manifestanti già eseguite o annunciate o temute.
Se tutto questo può essere ascritto all’incapacità dei gruppi dirigenti di comprendere le ormai insopprimibili istanze di cambiamento della generazione più giovane della società civile, resta il fatto che ogni minorenne o ventenne ucciso è un colpo alla credibilità residua dei vertici della Repubblica Islamica. I quali appunto, arroccati nella conservazione del sistema, non trovano altra strada per restare al potere se non addebitare ai nemici esterni (che pure esistono e sono tanti e potenti, dagli Usa a Israele all’Arabia Saudita) le uniche cause delle proteste, e incarcerare e uccidere i propri stessi nipoti.
Il coraggio della nuova generazione e i rischi di derive senza controllo
A continuare infatti a scendere in strada è in particolare quell’ultima generazione che non ha vissuto i sanguinosi traumi della rivoluzione del 1979 né la lunga guerra tra Iran e Iraq degli anni Ottanta, e che dunque continua con coraggio a manifestare senza essere frenata dal ricordo delle altre tragedie impresse nella memoria dei genitori. Molti di questi ultimi infatti non solo hanno vissuto le fasi più drammatiche e sanguinose del post-rivoluzione, ma sono preoccupati dalle conseguenze devastanti degli interventi militari statunitensi in Afghanistan e in Iraq, e dai dieci anni di guerra civile alimentata da potenze esterne in Siria, dove comunque resta saldo al governo il presidente Bashar al Assad. È a questi scenari che guarda quella maggioranza silenziosa che ancora assiste dal di fuori alle manifestazioni…”.
Così Borsatti.
Globalist continuerà a raccontare, documentare, sostenere, la rivoluzione iraniana. Una rivoluzione che non brucia bandiere americane, e forse per questo non scalda i cuori di una parte retrò della sinistra per la quale o una rivoluzione è “anti imperialista” o non è. Ma quei giovani che rivendicano diritti, libertà, che lottano contro l’oscurantismo teocratico e mettono a rischio il potere – militare, economico, affaristico – dei Pasdaran, sono dei rivoluzionari. Punto.