Predrag Matvejevic, il grande scrittore balcanico scomparso nel febbraio 2017, coniò un neologismo che ben si attaglia al passaggio epocale che Israele sta attraversando: “democratura”, vale a dire democrazia apparente, in realtà dittatura. E’ questo l’orizzonte politico, culturale, ideologico, nel quale si muove la destra ultranazionalista che marchia di sé il sesto governo a guida Netanyahu.
Quel Rubicone attraversato
Ne scrive, con la consueta lucidità analitica e passione civile, Anshel Pfeffer, firma storica di Haaretz.
“In altre pagine di questo giornale – scrive Pfeffer – si possono leggere analisi dettagliate dei piani del ministro della Giustizia israeliano Yariv Levin per indebolire drasticamente la Corte Suprema, presentati mercoledì.
La conclusione dei commentatori di Haaretz è che si tratta di un colpo di Stato, un palese tentativo di cambio di regime che potrebbe portare alla fine della democrazia israeliana così come la conosciamo. Temo che abbiano ragione.
Ma nel tentativo di sfidare la mia istintiva preoccupazione, giovedì mattina ho parlato con alcuni esperti legali – che non sono affatto sostenitori di questo governo – e ho trovato meno allarmismo.
La loro opinione prevalente sembra essere che, sì, in teoria, se tutte le proposte di Levin diventassero legge, ciò avrebbe implicazioni drastiche per il futuro della democrazia israeliana. Ma non credono che sarà così.Mi è sembrata una valutazione più politica che giuridica. Ma seguire gli affari costituzionali significa non solo essere al passo con i tecnicismi della legislazione e dei precedenti, ma anche essere consapevoli del modo in cui gli sviluppi politici e sociali hanno influenzato il ruolo della corte. E qui i non allarmisti hanno ragione. C’è sempre stata tensione tra i politici e i giudici, a partire dall’inaugurazione della Corte Suprema nel 1948, quando il padre fondatore di Israele, David Ben-Gurion, non si presentò alla cerimonia. I suoi difensori sostennero che all’epoca era troppo impegnato a gestire lo sforzo bellico. Ma c’è chi l’ha visto, e lo vede tuttora, come un consapevole affronto all’istituzione che Ben-Gurion sapeva essere lì per limitare i suoi poteri.
Potrebbero avere ragione? Il piano Levin è solo un altro round del braccio di ferro tra magistratura e Knesset? Le istituzioni possono organizzare una difesa efficace? La democrazia israeliana è abbastanza solida da resistere a quest’ultima sfida, con le proposte destinate a essere annacquate in interminabili cicli di riunioni di commissione?
Vorrei poter condividere il loro ottimismo. Una parte di me lo fa. Ma credo che la loro considerazione per la democrazia israeliana non sia tanto esagerata quanto eccessivamente fiduciosa. Il fatto che la democrazia limitata e fragile di Israele esista fin dalla sua indipendenza è tutt’altro che scontato.
Per molti versi è un miracolo. Un Paese minuscolo in questa regione – con una popolazione di immigrati arrivati dall’Europa dell’Est e dal Medio Oriente, senza alcuna tradizione democratica propria – ha tenuto 25 elezioni parlamentari con un’alta affluenza alle urne e risultati incontestabili, molti dei quali hanno cambiato il partito di governo. Il sistema giudiziario, con i suoi tribunali e la sua Procura di Stato indipendente, si è evoluto al punto da poter processare e mandare in prigione primi ministri e presidenti. E un Paese con un esercito numeroso e rispettato, che per gran parte dei suoi 74 anni è stato in guerra, non ha mai sperimentato nulla di lontanamente simile a un colpo di Stato.
Niente di tutto questo deve essere dato per scontato. Israele avrebbe potuto facilmente essere come uno qualsiasi degli altri Paesi fondati dalla fine degli anni ’40 in poi, dove la democrazia era al massimo un lusso occasionale.
Non è che la democrazia che si è sviluppata in Israele sia stata pianificata in modo accurato, nel tempo che sarebbe stato dovuto. Il sistema elettorale fu concordato in una sera, durante un incontro tra Ben-Gurion e il primo ministro della Giustizia, Pinchas Rosen. Decisero di utilizzare lo stesso sistema di rappresentanza proporzionale che aveva eletto l’Assemblea dei rappresentanti dell’Yishuv ebraico prima dell’indipendenza. Il piano prevedeva che la nuova Knesset – o, come si chiamava inizialmente, l’Assemblea Costituzionale – avrebbe redatto la Costituzione israeliana, che avrebbe incluso un nuovo sistema elettorale.
Ma trovare un accordo su una costituzione era al di là dei membri della prima Knesset eletta nel gennaio 1949 e da allora è rimasto un sogno irrealizzabile. Il sistema elettorale, la posizione dei tribunali e altri elementi della democrazia israeliana sono stati approvati in modo frammentario come leggi fondamentali quasi costituzionali, e su queste basi traballanti sono rimasti.
Potere illimitato
La fiducia di alcuni esperti legali israeliani nel fatto che queste leggi, e le consuetudini che si sono evolute nel corso dei decenni, abbiano acquisito lo status sacro di qualcosa di simile alla Costituzione non scritta della Gran Bretagna mi sembra basata su poco più della speranza che, se in qualche modo ha funzionato negli ultimi 74 anni, continuerà a farlo.
Perché non stiamo più parlando di un primo ministro permaloso che non era contento di essere tenuto sotto controllo da giudici non eletti, ma che accettava a malincuore che le cose andassero così.
Israele è ora in una situazione molto diversa. Benjamin Netanyahu, nipote di un ex giudice della Corte Suprema, può aver mostrato rispetto per la Corte in passato. Ma ora sta lottando per la sua libertà personale e, dopo un breve periodo all’opposizione, è tornato con foga per assicurarsi di non essere mai più cacciato dal suo incarico. La coalizione di Netanyahu è una coalizione che Israele non ha mai visto prima. Non sono solo i partiti ultraortodossi e ultranazionalisti a opporsi, religiosamente e ideologicamente, all’idea stessa di una Corte Suprema non eletta con poteri di limitare il governo (anche se ad alcuni andrebbe bene che una corte rabbinica non eletta lo facesse). È anche un Likud irriconoscibile dal partito fondato da Menachem Begin, che era un convinto sostenitore della Corte. L’unico credo del Likud è ora quello di fornire a Netanyahu un potere illimitato. A qualunque costo per il Paese. La democrazia in Israele è già stata drasticamente limitata negli ultimi 55 anni dall’occupazione di milioni di palestinesi nei territori che vivono senza i diritti politici fondamentali. Il nuovo governo ha abbandonato anche le più elementari pretese dei governi precedenti, secondo cui il dominio di Israele sui palestinesi non avrebbe nulla di “temporaneo”.
Era solo questione di tempo prima che l’accettazione di un regime israeliano fondamentalmente non democratico al di là della Linea Verde si insinuasse all’interno e minacciasse la fragile democrazia all’interno dei confini ufficiali di Israele. Che ci sia voluto così tanto tempo è un altro miracolo. Ma sta accadendo ora. Se ai palestinesi sotto il dominio israeliano continua a essere negata la democrazia, perché dovremmo aspettarci che agli israeliani venga garantita in perpetuo?
Per la prima volta, Israele è governato da una maggioranza della Knesset in cui tutti i membri, ad eccezione di Netanyahu – che per ora continua a vagheggiare e a declamare frasi sulla democrazia liberale – sono intenzionati a instaurare una democrazia illiberale e maggioritaria. Se c’è una persona tra i 64 legislatori della coalizione a disagio con i piani di Levin, non ha ancora parlato.
Potrebbero fallire. Le istituzioni sono ancora lì e si oppongono. L’opposizione sta combattendo. E forse ci sarà qualche Likudnik ragionevole che si renderà conto che una rivoluzione costituzionale a cui metà della nazione si oppone non è una grande idea.
Forse la proposta di Levin di un cambiamento radicale è una tattica e alla fine intende accontentarsi di aggiustamenti più modesti. E forse Netanyahu sta usando Levin solo per spaventare i giudici che siedono nel suo stesso caso di corruzione presso la Corte distrettuale di Gerusalemme. Tutti questi avvertimenti hanno senso e sono possibili. Ma lo è anche l’alternativa.
È successo in tanti altri Paesi che hanno continuato a chiamarsi democrazie mentre le loro istituzioni democratiche venivano svuotate e rese irrilevanti. Sebbene possa ancora essere evitato, può accadere e sta accadendo proprio ora in Israele”.
Così Pfeffer.
Ecco il punto di non ritorno. Quello varcato da una destra fondamentalista, dalle forti venature razziste. Una destra che non conosce avversari con cui interloquire ma solo nemici contro cui imbastire vere e proprie campagne di odio. Una destra che rivendica l’impunità di fronte alla legge, che intende legalizzare l’illegale (l’annessione di territori palestinesi occupati). Una destra che nel suo vocabolario non contempla parole come “compromesso”, riconoscimento” dell’altro da sé, “pace” con i palestinesi. Una destra che ha in odio quell’equilibrio tra i poteri che è uno dei pilastri di uno stato di diritto e di una democrazia liberale. Questa destra oggi governa Israele. E alla guida dell’esecutivo c’è lui, Benjamin “Bibi” Netanyahu. Che pur di aver garantita l’impunità per i gravi reati dei quali è chiamato a rispondere, ha deciso di scendere a patto con i “diavoli neri”.
Un tempo si affermava che a confrontarsi erano due “Israele”: quella laica, inclusiva, proiettata nel futuro, l’Israele nazione delle sturt up, che ha come suo cuore pulsante, Tel Aviv, e l’Israele ultraortodossa, iper nazionalista, fortemente identitaria sul piano ideologico, ispirata da un messianismo politico-religioso che è sempre stato alla base del revisionismo sionista di Zeev Jabotinsky, il grande ideologo della destra ebraica. I risultati delle elezioni del 1° novembre hanno sancito, ratificato, ciò che da tempo era chiaro: l’Israele fondamentalista ha se non cancellato di certo messo in un angolo l’Israele laico, secolarizzato. La destra ha vinto prima sul piano culturale e poi su quello politico. Perché ha colto i cambiamenti strutturali intervenuti nei decenni a trascorrere dentro la società israeliana, nella sua composizione demografica, anche a seguito delle varie ondate migratorie succedutesi negli ultimi trent’anni, e a questi cambiamenti ha dato voce, identità, rappresentanza. Cosa che non è riuscita a fare la sinistra.
“Nell’attuale realtà politica israeliana non c’è alcun dibattito politico tra opposti schieramenti. Le parole sinistra e destra rimbalzano da tutte le parti vuote di significato, utili solo come arma per infangare gli oppositori. Il termine ‘sinistra’, in particolare, viene costantemente utilizzato dagli attivisti di destra, specialmente quelli religiosi, come condanna automatica di chi non appoggia il primo ministro. Nell’attuale realtà politica israeliana non c’è invece alcun dibattito politico tra opposti schieramenti. Le parole sinistra e destra rimbalzano da tutte le parti vuote di significato, utili solo come arma per infangare gli oppositori. Il termine «sinistra», in particolare, viene costantemente utilizzato dagli attivisti di destra, specialmente quelli religiosi, come condanna automatica di chi non appoggia il primo ministro. Per evitare la prospettiva di un processo Netanyahu, da leader politico, si è trasformato in quello di una setta che, mediante minacce e lusinghe, argina l’opposizione dei suoi membri mentre il sistema politico si piega davanti a lui per garantirgli un’eventuale immunità annullando elezioni appena tenute, disperdendo il parlamento e indicendo nuove consultazioni elettorali entro tre mesi.
Nemmeno i più anziani ed esperti fra noi erano pronti a questo scenario di corruzione e di aperto attacco politico dei partiti di governo allo stato di diritto per far sì che il primo ministro non finisca in prigione. E tutto questo con il sostegno di una folla acclamante. Di fronte a tale realtà proviamo un senso di disgusto e di prostrazione. Non è più questione di posizioni politiche diverse e nemmeno di tendenziose panzane raccontate dal primo ministro e dai suoi assistenti che si succedono a ritmo incessante. Questa è una chiara e spudorata violazione dei valori di solidarietà che erano alla base della promessa sionista di riunire ebrei di diversa provenienza e livello in uno stato democratico.
Negli anni ’70 del secolo scorso due ministri del governo laburista furono sospettati di avere preso tangenti e ancora prima di essere processati si suicidarono per la vergogna. Il primo ministro israeliano Yitzhak Rabin nel 1977 diede le dimissioni perché accusato di aver mantenuto un piccolo conto corrente all’estero, cosa allora vietata ai cittadini israeliani. Il presidente Moshe Katsav fu condannato a sette anni di carcere da un giudice distrettuale arabo per aver sessualmente molestato la sua segretaria. Il primo ministro Ehud Olmert finì in carcere per aver ricevuto finanziamenti illeciti per la sua campagna elettorale. Fino a ieri potevamo consolarci con il fatto che nella palude politica israeliana ci fossero ancora principi di giustizia e di uguaglianza. Ma ecco che ora il primo ministro calpesta spudoratamente la legge per salvare la propria pelle e conduce il paese a una nuova, aspra e costosa campagna elettorale a poche settimane di distanza dalla precedente. C’è quindi da meravigliarsi che persone come me, indipendentemente dalla loro posizione politica, provino un senso di avvilimento e di paralisi?”.
Queste considerazioni fanno parte di un lungo articolo di Abraham Bet Yehoshua, il grande scrittore israeliano, scomparso il 14 giugno 2022, pubblicato da La Stampa l’8 agosto 2019. D’allora sono trascorsi 3 anni e 5 mesi. E oggi Israele ha “imboccato” un punto di non ritorno. Verso la “democratura”. O peggio ancora.
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