Iran, la rivoluzione dei diritti minaccia il potere della "Pasdaran holding"
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Iran, la rivoluzione dei diritti minaccia il potere della "Pasdaran holding"

I Pasdaran fanno direttamente capo alla Guida Suprema della Repubblica islamica dell’Iran, l’Ayatollah Ali Khamenei. E sempre la Guida Suprema controlla direttamente la Setad, una fondazione con 95 miliardi di dollari di asset

Iran, la rivoluzione dei diritti minaccia il potere della "Pasdaran holding"
La Guida Suprema della Repubblica islamica dell’Iran, l’Ayatollah Ali Khamenei
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Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

15 Gennaio 2023 - 18.26


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La rivoluzione dei diritti minaccia il potere dei Pasdaran. Uno Stato nello Stato. 

Il potere dei Pasdaran

Secondo uno studio recente, i Pasdaran controllerebbero addirittura il 40% dell’economia iraniana: dal petrolio al gas e alle costruzioni, dalle banche alle telecomunicazioni. Un’ascesa che si è verificata soprattutto sotto la presidenza di Ahmadinejad, ma che è proseguita sotto quella di Rouhani e ancor più sotto l’attuale presidente dell’ultra conservatore Ebrahim Rais. .

I Pasdaran fanno direttamente capo alla Guida Suprema della Repubblica islamica dell’Iran, l’Ayatollah Ali Khamenei. E sempre la Guida Suprema controlla direttamente la Setad, una fondazione con 95 miliardi di dollari di asset presente in tutti i comparti dell’economia. La Setad di Khamenei, ovvero “Setad Ejraiye Farmane Hazrate Emam”, “Sede per l’esecuzione degli ordini dell’Imam”, rimarca Alberto Negri, tra i più validi conoscitori del “pianeta-Iran” “fu costituita nel 1989 dall’Imam Khomeini, con il compito di gestire le proprietà sequestrate negli anni caotici post rivoluzionari per poter aiutare i poveri e i veterani della guerra durata otto anni contro l’Iraq (un milione tra morti e invalidi). All’epoca dello Shah 100 famiglie introdotte alla corte dei Palhevi controllavano l’80% dell’economia che oggi è passata nelle mani dell’élite al potere. 

Doveva rimanere in vita solo un paio d’anni ma nel corso del tempo si è trasformata in un colosso immobiliare – 52 miliardi di asset – che ha acquistato partecipazioni in decine di aziende in quasi tutti i settori: finanza, petrolio, telecomunicazioni, dalla produzione di pillole anticoncezionali all’allevamento degli struzzi. Tra portafoglio immobiliare (52 miliardi di dollari) e quote societarie, 43 miliardi, la Setad ha un valore nettamente superiore alle esportazioni petrolifere iraniane dello scorso anno. Le Bonyad, le Fondazioni esentasse, sono il cuore dell’economia: detengono almeno il 30-40% del Pil e hanno sottratto spazio ai privati favorendo soltanto alcuni di loro, quelli vicini alla cerchia del potere che ricordiamolo è comunque sempre a geometria variabile, a seconda delle stagioni politiche…”. Se si somma il potere diretto di Kamenei a quello, altrettanto pervasivo e radicato della “Pasdaran Holding”, si ha un quadro sufficientemente nitido su un regime teocratico-militare che si è fatto, per l’appunto, sistema.

Annota Riccardo Redaelli su Avvenire: “All’interno del nezam, ossia il sistema di potere post-rivoluzionario, vi siano forze potentissime – in particolare i pasdaran, elementi dell’intelligence e i conservatori più integralisti – a favore di una trasformazione della Repubblica islamica in senso ancora più totalitario, eliminando quella compresenza di correnti di pensiero diversificate e quel poco che rimane di una certa tolleranza verso i riformisti e i moderati. Favorire in modo così smaccato la vittoria di un conservatore anti- occidentale come Raisi non renderà più semplici i già complicati negoziati per far tornare gli Stati Uniti al tavolo dell’accordo nucleare siglato da Obama nel 2015 e de- nunciato unilateralmente da Trump nel 2018. Biden vuole ripartire da quell’accordo, ma la strada è lastricata di difficoltà. Tanto negli Usa, quanto in Iran, dove i gruppi più radicali stanno sabotando ogni possibilità di un compromesso. Una scelta che appare in Occidente incomprensibile, vista la catastrofica situazione economica iraniana – con il disperato bisogno di far rientrare in Iran almeno le aziende europee – e le pressioni regionali. Ma tutto ciò riflette l’oltranzismo dei gruppi legati alla parte peggiore del sistema, i quali hanno conquistato il potere marginalizzando riformisti e moderati proprio in virtù del clima di contrapposizione e di minaccia all’esistenza stessa della Repubblica islamica. Sono gli stessi gruppi che spingono per mantenere una sovraesposizione a livello regionale in Iraq, Siria, Libano, Palestina, Yemen e guardano con scetticismo ai tentativi recenti di dialogo con gli Emirati e i sauditi. Di fatto oggi è in atto in Iran una presa del potere senza precedente da parte del cosiddetto ‘Deep State’, ossia la parte più oscura, profonda e meno visibile degli apparati istituzionali iraniani”.

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 È un impero costruito lentamente, attraverso la rete di veterani, chiamati a gestire – tra l’altro – i patrimoni di coloro che sono fuggiti dal Paese dopo la rivoluzione e la caduta del presidente Abolhassan Banisadr. Al gruppo paramilitare- rileva un documentato dossier de IlSole24Ore – fanno capo in ogni caso holding attive in tutti i comparti dell’economia: nel settore tradizionale delle costruzioni, ma anche nelle telecomunicazioni – anche se la partecipazione nella Tci è stata recentemente ceduta – nella gestione di porti e aeroporti strategici per il commercio internazionale, nei cantieri navali (attraverso la Sadra), nell’automotive (attraverso la Bahman, che costruisce su licenze Mazda). La più importante controllata è la Ghorb – il cui nome ufficiale è Khatam-ol-Anbia o Sigillo del profeta – conglomerato attivo in molti settori, tra i quali quello petrolifero. Non mancano, tra le numerosissime aziende direttamente o indirettamente detenute dai Pasdaran , imprese del settore militare, probabilmente attive anche nel settore missilistico e in quello nucleare.

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Uno Stato nello Stato

Di grande interesse è il report di Eleonora Ardemagni per l’Ispi (Istituto per gli studi di politica internazionale), tra i più autorevoli think tank europei di geopolitica. 

Annota Ardemagni, tra le più preparate analiste del “pianeta Iran”. “Non  possiamo sapere se le rivolte in Iran daranno vita, nel loro esito, a una rivoluzione. Se cambieranno, cioè, quel sistema di potere -già parecchio mutato- che domina il paese dal 1979. Di certo, la repressione violenta dei manifestanti non sta funzionando, anzi. Per un regime in difficoltà, l’esternalizzazione dello scontro -non su vasta scala ma mediante frequenti operazioni a bassa intensità- potrebbe diventare l’opzione. Soprattutto per uno Stato che appare sempre meno ′duale` e sempre più ′a trazione militare`, anzi paramilitare. Da oltre un decennio, gli organi non elettivi della Repubblica Islamica, come Guida suprema e Consiglio dei guardiani, hanno assai ridimensionato, nei fatti, il potere degli organi eletti, cioè presidente e Parlamento. Inoltre, il ruolo delle Guardie della rivoluzione islamica (i noti pasdaran) è, per Costituzione e ideologia, inestricabilmente legato alla leadership religiosa, quindi al destino della Repubblica Islamica stessa. Le Guardie della rivoluzione sono diventate prima strumenti –e poi attori- della politica estera dell’Iran: per gli equilibri del Medio Oriente si apre dunque uno scenario d’estrema incertezza, dal Golfo al Mar Rosso. Con possibili ricadute di sicurezza marittima ed energetica in un’area sempre più fondamentale per gli interessi europei.

Alcuni segnali lasciano presagire che le rivolte iraniane potrebbero davvero conseguire l’obiettivo rivoluzionario: il carattere geograficamente diffuso delle proteste e degli scioperi, la loro crescente trasversalità socioeconomica, la mancanza, fin qui, di un’alternativa politica nel perimetro di una Repubblica Islamica ormai incapace di autoriformarsi. Dall’altro il protrarsi delle rivolte, in assenza di significative spaccature interne all’élite, potrebbe persino inasprire l’indebolito sistema iraniano, accelerandone l’involuzione securitaria: pare questo, al momento, lo scenario più probabile. A fronte di una protesta ancora senza leader, il potere di Teheran sembra infatti giocarsi, stavolta, la sopravvivenza: una posta in gioco così alta da spingerlo a utilizzare, per conservarsi, tutti gli strumenti a disposizione.

Le rivolte sono state fin qui represse dalla polizia e soprattutto dall’ala paramilitare della Repubblica, ovvero i bassij (“mobilitazione”, le forze di polizia volontarie che appartengono alle Guardie della rivoluzione islamica) e  da unità speciali degli stessi pasdaran, specie nelle aree nordoccidentali, nel sudest e a Teheran. Oltre cinquanta   tra poliziotti e paramilitari iraniani sarebbero morti negli scontri con i manifestanti, più di sessanta secondo altre fonti: furono sei  nelle pur aspre rivolte del 2019. Il comandante dell’esercito regolare ha già ammonito che i militari sono pronti a intervenire se l’ayatollah Ali Khamenei, il comandante in capo di tutte le forze armate, dovesse dare l’ordine.

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L’equilibrio post-rivoluzionario dello ′stato duale’ iraniano è da tempo entrato in crisi scivolando, gradualmente, verso uno ′stato a trazione militare’. Il nodo degli assetti interni è la sfida che si aprirà, probabilmente, nel dopo-Khamenei. Al momento, nella mutata struttura del potere iraniano, la Guida Suprema(più in generale il clero sciita) e le forze paramilitari sono reciprocamente funzionali alla conservazione del sistema. Difficile immaginare operazioni di “rebranding politico” per attori che si chiamano, appunto, “Guardie della rivoluzione islamica” e che stanno accentuando il carattere religioso dell’indottrinamento dei paramilitari, proprio per supplire all’indebolimento della spinta post-rivoluzionaria. Insieme, clero sciita e paramilitari hanno poi contribuito alla marginalizzazione delle fazioni riformiste. Nel 2009 la rielezione manipolata di Mahmud Ahmadinejad alla presidenza aveva già svelato ‘la fine dello Stato duale’ con l’estromissione dell’opposizione interna dal perimetro del gioco politico, operando quindi una cesura con l’imprinting originario della Repubblica Islamica. Oggi, le forze paramilitari – divenute centro economico-corporativo incontrastato e poi perno politico- difendono dunque il potere acquisito.

Il protrarsi delle proteste in Iran non può che avere implicazioni sugli equilibri mediorientali. Infatti, Teheran conserva una notevole capacità di influenza transnazionale, specie in contesti instabili (Siria, Iraq, Libano, Gaza, Afghanistan, Yemen). Dal 2003, dopo la rimozione anglo-americana di Saddam Hussein in Iraq, gli apparati di sicurezza e le Guardie della rivoluzione hanno ricoperto un ruolo sempre più decisivo nella politica estera iraniana: una proiezione esterna subordinata alla crescente percezione d’insicurezza, insieme interna e regionale, della Repubblica Islamica. Nell’ottica di Teheran, la rete transnazionale delle milizie sciite organizzata dagli al-Quds (l’unità d’élite dei pasdaran per le operazioni estere) del defunto Generale Qassem Soleimani (in Libano, Iraq, Siria, Afghanistan, in misura minore in Yemen), ha fin qui rappresentato un argine alla destabilizzazione interna, nonché uno strumento di pressione esterna. Infatti, proprio la strategia della “difesa avanzata” incarnata dalle milizie proxy (Hezbollah libanesi, gruppi armati siriani, parte degli Hashd al-Shaabi iracheni) o alleate (houthi yemeniti) ha spostato il locus dello scontro al di fuori dei confini nazionali rafforzando, inoltre, l’influenza nella regione”.

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