Siria, dalla guerra al terremoto: così un popolo dimenticato muore una seconda volta
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Siria, dalla guerra al terremoto: così un popolo dimenticato muore una seconda volta

La Ong di protezione civile siriana White Helmets (Caschi Bianchi) ha dichiarato lo stato di emergenza nel nord-est del Paese e ha lanciato un appello alle organizzazioni umanitarie internazionali affinché intervengano con aiuti in tempi rapidi

Siria, dalla guerra al terremoto: così un popolo dimenticato muore una seconda volta
Terremoto in Turchia e Siria
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Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

6 Febbraio 2023 - 18.10


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Siria, un Paese martoriato, un popolo trasformato a forza in una moltitudine di profughi. Una tragedia senza fine. Ai disastri della guerra si aggiunge ora quello del terremoto.

Scenario apocalittico.

E’ salito ad oltre 2.300 morti il bilancio del terremoto che ha colpito il confine tra Turchia e Siria. Sono 810 i morti del sisma nella sola Siria, che si aggiungono a circa 1.500 in Turchia. I feriti nella sola Turchia sono almeno 7.600 mentre in Siria sono oltre 1.280.”Stiamo affrontando il più grande terremoto che abbiamo visto in 24 anni in questa regione. Finora si sono verificate 100 scosse di assestamento. Circa 53 di loro sono più di 4 gradi (sulla scala Richter). Sette di loro sono più di 5 gradi. Possiamo dire che questi terremoti continueranno nei prossimi giorni”.

Lo afferma il dottor Haluk Özener, direttore dell’osservatorio Kandilli e istituto di ricerca sui terremoti, come riporta la Bbc in lingua turca. Secondo una stima dell’Istituto Geologico degli Stati Uniti (Usgs), i morti potrebbero essere anche 10mila.

La Ong di protezione civile siriana White Helmets (Caschi Bianchi) ha dichiarato lo stato di emergenza nel nord-est del Paese e ha lanciato un appello alle organizzazioni umanitarie internazionali affinché intervengano con aiuti in tempi rapidi. Il sisma è avvenuto alle 4:17 del mattino (le 2:17 ora italiana) e ha avuto il suo epicentro nei pressi di Gaziantep, città del sud est della Turchia a una cinquantina di chilometri dal confine siriano. Centinaia gli edifici distrutti dal sisma: oltre alle abitazioni, è quasi completamente crollata la Chiesa dell’Annunciazione di Iskenderun, cattedrale cattolica risalente al 19esimo secolo. Ridotto a un cumulo di macerie il castello di Gaziantep, struttura di epoca romana costruita nel terzo secolo. Le operazioni di soccorso continuano, si stima che moltissime persone siano ancora sotto le macerie.

Le testimonianze. 

“Ci sono macerie ovunque. Le prime notizie che abbiamo qui parlano di almeno 36 palazzi completamente distrutti con gente rimasta sotto le macerie. La parrocchia latina dove sono ha avuto anch’essa dei danni ma al momento non registriamo altre criticità”. È la testimonianza resa al Sir da padre Bahjat Elia Karakach,frate della Custodia di Terra Santa e parroco latino di Aleppo, con i primi momenti subito dopo il terremoto delle 4.17. “La scossa è stata tremenda – dice il parroco con la voce provata – la gente è scesa in strada in preda al panico, almeno chi è riuscito a farlo, tanti, come dicevo, sono rimasti intrappolati. Qui piove e fa freddo ho visto persone scalze e con indumenti leggeri, in pigiama, fuggire in cerca di un luogo sicuro. In parrocchia abbiamo aperto dei locali non danneggiati e offerto delle bevande calde e qualcosa da mangiare. Abbiamo anche pregato per chiedere la protezione di Dio. Adesso con le prime luci dell’alba la gente sfollata sta facendo rientro nelle abitazioni per fare la conta dei danni, non c’è energia elettrica, una situazione drammatica. Aspettiamo che i soccorsi arrivino ovunque, adesso è prioritario cercare di salvare quante più vite umane possibile tirandoli via dalle macerie”.

Morti e distruzione anche nella zona di Idlib, non controllata dal regime di Assad. A raccontare al Sir la situazione è padre Hanna Jallouf, parroco di Knaye, uno dei tre villaggi cristiani della Valle dell’Oronte, insieme a quelli di Yacoubieh e Gidaideh. Padre Jallouf si trova ancora a Damasco ma ha raccolto la testimonianza del suo confratello, padre Louai Sbai, rimasto a Knaye, distante solo 50 km. da Idlib: “Nei villaggi del nord, nella zona di Idlib si registrano tanti danni, morti e feriti – le parole di padre Sbai riferite da padre Hanna -. Le nostre comunità sembrano essere al sicuro, lamentiamo solo danni strutturali. Si stanno muovendo i primi soccorsi ma la popolazione sta cercando di vedere lo stato delle abitazioni e portare via ciò che è possibile. Fare un bilancio adesso è difficile se non impossibile per l’alto livello di distruzione”.

L’appello. 

“Confidiamo nell’aiuto internazionale, qui siamo tutti sotto shock per quanto accaduto. Non bastava la guerra, non bastava la povertà, ora il terremoto” dichiara padre Bahjat che lancia un appello alla comunità internazionale: “rimuovete o sospendete le sanzioni alla Siria almeno per permettere e facilitare l’arrivo e la movimentazione degli aiuti umanitari di cui abbiamo estremo bisogno. Tantissime persone stavano cominciando a riparare le loro case distrutte dalla guerra, adesso sono di nuovo a terra, possono raccogliere sono macerie. Una tragedia immane, non abbandonate il popolo siriano”.

Dal sogno di un cambiamento democratico all’incubo della repressione e della guerra.

La tragedia siriana rivisitata, con grande accuratezza e sensibilità, da Asmae Dachan su Valigia Blu: “Prima del 2011, anno in cui sono iniziate le proteste pacifiche represse nel sangue dal governo di Bashar al Assad, con la successiva esplosione degli scontri armati, in Siria vigeva una calma apparente. A muovere i manifestanti era il desiderio di un cambiamento verso la democrazia, con richieste di maggiori aperture e inclusione e di un sostegno alle fasce più deboli della popolazione, tanto duramente colpite dalla crisi economica e dalla siccità che si era abbattuta sulla regione. Bashar al Assad, oftalmologo laureato nel Regno Unito, salito al potere nel 2000, ereditando de facto il potere dal padre golpista, il generale Hafez al Assad, aveva acceso nei siriani la speranza di un cambiamento. 

L’apertura a una reale rappresentanza politica plurale, tanto agognate dalla popolazione siriana, costituita al 70% da giovani al di sotto del 35 anni, non è mai arrivata. Basti ricordare la vicenda del Manifesto dei 99, quando nel 2005 un gruppo di intellettuali di tutte le etnie e confessioni presenti in Siria presentarono un documento programmatico per portare la Siria verso la democrazia. Dopo una prima parvenza di apertura nei loro confronti, furono arrestati, torturati, costretti all’esilio.

Le proteste iniziate nelle piazze nel 2011 avevano tre caratteristiche. Erano pacifiche, laiche e organizzate dal basso. La mancanza di una leadership era dovuta al fatto che fare opposizione in Siria è sempre stato vietato e che tutte le riunioni pubbliche dovevano essere preventivamente autorizzate dal Mukhbarat, i temibili servizi segreti. Tra gli oppositori si sono distinte alcune figure chiave, come Ghiat Matar, chiamato “il Ghandi siriano”, che offriva fiori e bottigliette d’acqua ai soldati, sperando che abbandonassero le armi e si unissero al popolo. È stato arrestato e ucciso sotto tortura nel settembre di quello stesso anno.

Quando, alla fine del 2011, Damasco ha dato l’ordine all’esercito di entrare nelle città considerate insorte e bombardare, alcuni generali dell’esercito regolare e altri militari hanno deciso di disertare, promettendo di proteggere i manifestanti e la rivolta, hanno creato l’Esercito siriano libero, che in una prima fase rifiutava l’arruolamento dei civili. Era una sfida impari. Da un lato le forze lealiste, armate di tutto punto, dall’altro i ribelli, dotati solo delle armi in loro possesso. L’inizio dei bombardamenti e delle ingerenze straniere hanno fatto precipitare gli eventi. Russia, Cina e Iran si sono da subito schierati con il regime di Assad, mentre in sostegno degli oppositori si sono dichiarati la Turchia e alcuni Paesi europei, tra cui la Francia. 

Gli Stati Uniti sono scesi in campo solo nel 2014, in sostegno delle fazioni curde schierate nella fascia orientale del paese. I paesi arabi hanno espulso la Siria dalla Lega Araba già nel 2011, quando molte ambasciate di Damasco nel mondo sono state chiuse, come segno di condanna per le azioni sanguinose del governo di Assad. Allo stesso tempo però, da molti di quei paesi sono partiti uomini e denaro per la Siria, non per sostenere la legittima opposizione, bensì per finanziare nuove milizie armate integraliste che in Siria hanno iniziato una guerra per procura, che nulla aveva a che fare con la rivolta popolare. Molti di questi gruppi armati, a cui si sono uniti foreign fighters da tutto il mondo, sono poi confluiti nell’auto proclamato Stato Islamico, una formazione terrorista che ha decimato l’opposizione siriana e ha preso di mira le minoranze, come la comunità cristiana e i Curdi, oltre a ridurre in condizione di schiavitù sessuale migliaia di donne.

Leggi anche:  Siria, Aisha al-Dibs promette che nel nuovo corso le donne saranno protagoniste nella società e nella politica

I danni inestimabili del conflitto.

In questi anni, il governo siriano non ha mai smesso di bombardare il suo stesso paese e dal 2014 ha al suo fianco l’esercito russo, che continua a partecipare attivamente alle iniziative belliche e a pattugliare le coste siriane con i suoi bombardieri. La Turchia, che inizialmente ha dato sostegno all’Esercito siriano libero, ne ha prima ridotto il potenziale, per poi creare un suo nuovo corpo militare turco-siriano che fa gli interessi di Ankara lungo tutta la fascia settentrionale della Siria, al confine tra i due paesi, ma anche all’interno del territorio siriano stesso, con continue incursioni militari in particolare nelle aree curde dell’est. Nella zona sud, da anni Israele bombarda postazioni di Hezbollah e di miliziani iraniani in Siria, colpendo spesso anche l’esercito di Assad.

I danni che tutte queste violenze hanno portato sono inestimabili, sia sul piano della perdita di vita umane, sia dal punto di vista della distruzione di abitazioni, infrastrutture, monumenti e siti archeologici. La coesione sociale e la fraterna convivenza tra etnie e religioni sono state profondamente compromesse dall’insorgenza di fazioni islamiste. Un primo sguardo ai numeri aiuta a comprendere la gravità e le proporzioni della crisi in corso. Secondo i dati dell’Ufficio delle Nazioni Unite per gli affari umanitari (Ocha), su 23 milioni di abitanti, oggi 6,9 milioni di Siriani sono nella condizione di sfollati interni e altrettanti sono profughi, divisi tra i Paesi limitrofi, la Germania e altri Stati. Ben 14,6 milioni di persone, sempre secondo l’Ocha, hanno bisogno di assistenza umanitaria, il 75% sono bambini e donne.

La Siria è disseminata di fosse comuni, a oggi non sono stati ancora avviati progetti per l’identificazione dei corpi. Ci sono poi i desaparecidos, oltre 100mila donne e uomini spariti nel nulla dopo essere stati arbitrariamente arrestati o aver subito un sequestro. Alcuni famigliari in diaspora hanno dato vita ad associazioni come Families for Freedom o Massar (The Coalition of Families of Persons Kidnapped by Isis-Daesh) per chiedere verità sui loro cari.

Damasco è soggetta a sanzioni internazionali proprio per i crimini commessi dal regime di Damasco, ma può contare sul sostegno russo, anche dopo l’inizio dell’offensiva di Mosca contro l’Ucraina, e su quello di Iran e Cina. Una recente inchiesta condotta da The Human Rights and Business Unit at The Syrian Legal Development Programme (Sldd) in collaborazione con Observatory of Political and Economic Networks (Obsalytics), ha inoltre rivelato che le Nazioni Unite hanno pagato circa 137 milioni di dollari a società siriane legate a persone sanzionate e altre figure legate al regime di Bashar al Assad nel 2019 e nel 2020. Tra le principali fonti di finanziamento della Siria oggi c’è la produzione e la commercializzane del Captagon, una droga in uso ai soldati, un business da dieci miliardi di dollari in cui sono implicate anche le milizie libanesi di Hezbollah sponsorizzate dall’Iran.

Nelle sedi decisionali internazionali oggi la questione siriana viene affrontata sul piano della crisi umanitaria, stabilendo i budget da stanziare per le diverse emergenze, non ultima l’epidemia di colera che ha causato oltre ottanta vittime. Le stesse trattative di pace che un tempo si tenevano a Ginevra, e che vedevano l’Europa tra i protagonisti, si svolgono ora ad Astana, in Kazakistan, e sono condotte da Russia, Iran e Turchia. Assad resta al potere nonostante i crimini di guerra commessi dal suo governo, mentre alcuni paesi arabi, gli Emirati in primis, hanno ricominciato le trattative con Damasco. Le uniche iniziative di giustizia contro membri del regime siriano sono state condotte in Germania. A Coblenza, infatti, alcuni profughi siriani hanno riconosciuto e denunciato i loro carcerieri che avevano raggiunto il paese europeo; in seguito all’arresto sono stati processati e condannati lo scorso gennaio. Una sentenza storica.

A preoccupare i Siriani oggi non è solo la crisi umanitaria  – secondo l’Onu  il 90% della popolazione ormai vive sotto la soglia della povertà – ma anche gli arresti arbitrari e le esecuzioni contro chi torna in patria per effetto dei rimpatri forzati avviati dal Libano e dalla Turchia. La Siria non è un Paese sicuro, nonostante i tentativi del regime di ripulire la sua immagine invitando vlogger da tutto il mondo. Damasco sta incoraggiando investitori stranieri a prendere parte alla ricca partita della ricostruzione del paese, con il turismo farà da volano, tanto che sono stati avviati progetti per l’edificazione di hotel a cinque stelle.

L’ultima volta che la Siria ha guadagnato risalto nei media italiani è stato nel coprire il caso di Loujin Ahmed Nasif, una bambina siriana di soli quattro anni, morta di fame e sete mentre si trovava con la famiglia e altri profughi a bordo di un gommone partito dal Libano. Era l’11 settembre 2022. Esattamente un mese dopo la Procura di Roma ha chiesto l’archiviazione dell’indagine relativa alla scomparsa in Siria dal 2013 di Padre Paolo Dall’Oglio. Il gesuita, che aveva sposato le istanze dei manifestanti pacifici, era stato espulso dal regime di Damasco nel 2012 proprio per le sue denunce sui crimini che si stavano consumando ai danni dei civili. Era però tornato in Siria per amore della sua gente. Sul destino di Abuna – in arabo nostro padre – si son rincorse tante voci, mai confermate. Poi è sceso il silenzio ed è arrivata l’archiviazione. Un epilogo che, letto nel contesto generale della Siria, sembra spegnere anche l’ultima speranza di pace e giustizia per questa terra martoriata”.

Annota lo scrittore Shady Hamadi nel suo Blog su Ilfattoquotidiano.it: “Sopravvissuta alle macerie della propria casa, distrutta dai bombardamenti, ed è oggi vittima delle ceneri, i frantumi, di un’altra casa: questa volta distrutta da un evento naturale. Assomiglia alla collera di un Dio che non la smette di prendersela con il paese che è al cuore di quella che è stata la culla delle civiltà. Ma oggi, sei febbraio 2023, non c’è più nulla di umano. Anzi, non c’è nulla di umano da tempo in Siria.

I muri di casa che scricchiolano, le scale e i balconi che crollano assomigliano a una immagine vista decine di migliaia di volte. Questa volta manca solo il boato che precede il tonfo di un barile bomba sganciato su di una città. Quel suono sordo non c’è e quindi è mancato perfino l’avvertimento sonoro che un missile ti dà prima di portarti via la vita.

E’ assurdo rivedere, ancora e ancora, corpi incastrati tra le travi metalliche con cui è stata costruita una casa. Perché la casa, beyt in arabo, ha una definizione più ampia che va oltre il mero significato del luogo fisico, materiale, ma racchiude in sé il significato di famiglia. Oggi, come negli ultimi 12 anni in cui la guerra si è mangiata un paese, in cui ci sono stati finti eroi, bugie, eroi veri e vittime sufficienti a riempire cimiteri infinite… la morte scende uguale. Non guarda in faccia a nessuno e si ripete la monotonia di un dramma che continua ininterrottamente da migliaia di giorni.

Poveri siriani, abbandonati da tutti noi, da sempre e per sempre”.

Così è. Un regime sanguinario, la guerra, ora il terremoto. Non c’è pace per il popolo siriano. 

Leggi anche:  Diplomatici Usa incontrano in Siria i 'ribelli': annullata una conferenza stampa per motivi di sicurezza

Siria, un Paese martoriato, un popolo trasformato a forza in una moltitudine di profughi. Una tragedia senza fine. Ai disastri della guerra si aggiunge ora quello del terremoto.

Scenario apocalittico.

E’ salito ad oltre 2.300 morti il bilancio del terremoto che ha colpito il confine tra Turchia e Siria. Sono 810 i morti del sisma nella sola Siria, che si aggiungono a circa 1.500 in Turchia. I feriti nella sola Turchia sono almeno 7.600 mentre in Siria sono oltre 1.280.”Stiamo affrontando il più grande terremoto che abbiamo visto in 24 anni in questa regione. Finora si sono verificate 100 scosse di assestamento. Circa 53 di loro sono più di 4 gradi (sulla scala Richter). Sette di loro sono più di 5 gradi. Possiamo dire che questi terremoti continueranno nei prossimi giorni”. Lo afferma il dottor Haluk Özener, direttore dell’osservatorio Kandilli e istituto di ricerca sui terremoti, come riporta la Bbc in lingua turca. Secondo una stima dell’Istituto Geologico degli Stati Uniti (Usgs), i morti potrebbero essere anche 10mila.

La Ong di protezione civile siriana White Helmets (Caschi Bianchi) ha dichiarato lo stato di emergenza nel nord-est del Paese e ha lanciato un appello alle organizzazioni umanitarie internazionali affinché intervengano con aiuti in tempi rapidi. Il sisma è avvenuto alle 4:17 del mattino (le 2:17 ora italiana) e ha avuto il suo epicentro nei pressi di Gaziantep, città del sud est della Turchia a una cinquantina di chilometri dal confine siriano. Centinaia gli edifici distrutti dal sisma: oltre alle abitazioni, è quasi completamente crollata la Chiesa dell’Annunciazione di Iskenderun, cattedrale cattolica risalente al 19esimo secolo. Ridotto a un cumulo di macerie il castello di Gaziantep, struttura di epoca romana costruita nel terzo secolo. Le operazioni di soccorso continuano, si stima che moltissime persone siano ancora sotto le macerie.

Le testimonianze. 

“Ci sono macerie ovunque. Le prime notizie che abbiamo qui parlano di almeno 36 palazzi completamente distrutti con gente rimasta sotto le macerie. La parrocchia latina dove sono ha avuto anch’essa dei danni ma al momento non registriamo altre criticità”. È la testimonianza resa al Sir da padre Bahjat Elia Karakach,frate della Custodia di Terra Santa e parroco latino di Aleppo, con i primi momenti subito dopo il terremoto delle 4.17. “La scossa è stata tremenda – dice il parroco con la voce provata – la gente è scesa in strada in preda al panico, almeno chi è riuscito a farlo, tanti, come dicevo, sono rimasti intrappolati. Qui piove e fa freddo ho visto persone scalze e con indumenti leggeri, in pigiama, fuggire in cerca di un luogo sicuro. In parrocchia abbiamo aperto dei locali non danneggiati e offerto delle bevande calde e qualcosa da mangiare. Abbiamo anche pregato per chiedere la protezione di Dio. Adesso con le prime luci dell’alba la gente sfollata sta facendo rientro nelle abitazioni per fare la conta dei danni, non c’è energia elettrica, una situazione drammatica. Aspettiamo che i soccorsi arrivino ovunque, adesso è prioritario cercare di salvare quante più vite umane possibile tirandoli via dalle macerie”.

Morti e distruzione anche nella zona di Idlib, non controllata dal regime di Assad. A raccontare al Sir la situazione è padre Hanna Jallouf, parroco di Knaye, uno dei tre villaggi cristiani della Valle dell’Oronte, insieme a quelli di Yacoubieh e Gidaideh. Padre Jallouf si trova ancora a Damasco ma ha raccolto la testimonianza del suo confratello, padre Louai Sbai, rimasto a Knaye, distante solo 50 km. da Idlib: “Nei villaggi del nord, nella zona di Idlib si registrano tanti danni, morti e feriti – le parole di padre Sbai riferite da padre Hanna -. Le nostre comunità sembrano essere al sicuro, lamentiamo solo danni strutturali. Si stanno muovendo i primi soccorsi ma la popolazione sta cercando di vedere lo stato delle abitazioni e portare via ciò che è possibile. Fare un bilancio adesso è difficile se non impossibile per l’alto livello di distruzione”.

L’appello. 

“Confidiamo nell’aiuto internazionale, qui siamo tutti sotto shock per quanto accaduto. Non bastava la guerra, non bastava la povertà, ora il terremoto” dichiara padre Bahjat che lancia un appello alla comunità internazionale: “rimuovete o sospendete le sanzioni alla Siria almeno per permettere e facilitare l’arrivo e la movimentazione degli aiuti umanitari di cui abbiamo estremo bisogno. Tantissime persone stavano cominciando a riparare le loro case distrutte dalla guerra, adesso sono di nuovo a terra, possono raccogliere sono macerie. Una tragedia immane, non abbandonate il popolo siriano”.

Dal sogno di un cambiamento democratico all’incubo della repressione e della guerra.

La tragedia siriana rivisitata, con grande accuratezza e sensibilità, da Asmae Dachan su Valigia Blu: “Prima del 2011, anno in cui sono iniziate le proteste pacifiche represse nel sangue dal governo di Bashar al Assad, con la successiva esplosione degli scontri armati, in Siria vigeva una calma apparente. A muovere i manifestanti era il desiderio di un cambiamento verso la democrazia, con richieste di maggiori aperture e inclusione e di un sostegno alle fasce più deboli della popolazione, tanto duramente colpite dalla crisi economica e dalla siccità che si era abbattuta sulla regione. Bashar al Assad, oftalmologo laureato nel Regno Unito, salito al potere nel 2000, ereditando de facto il potere dal padre golpista, il generale Hafez al Assad, aveva acceso nei siriani la speranza di un cambiamento. 

L’apertura a una reale rappresentanza politica plurale, tanto agognate dalla popolazione siriana, costituita al 70% da giovani al di sotto del 35 anni, non è mai arrivata. Basti ricordare la vicenda del Manifesto dei 99, quando nel 2005 un gruppo di intellettuali di tutte le etnie e confessioni presenti in Siria presentarono un documento programmatico per portare la Siria verso la democrazia. Dopo una prima parvenza di apertura nei loro confronti, furono arrestati, torturati, costretti all’esilio.

Le proteste iniziate nelle piazze nel 2011 avevano tre caratteristiche. Erano pacifiche, laiche e organizzate dal basso. La mancanza di una leadership era dovuta al fatto che fare opposizione in Siria è sempre stato vietato e che tutte le riunioni pubbliche dovevano essere preventivamente autorizzate dal Mukhbarat, i temibili servizi segreti. Tra gli oppositori si sono distinte alcune figure chiave, come Ghiat Matar, chiamato “il Ghandi siriano”, che offriva fiori e bottigliette d’acqua ai soldati, sperando che abbandonassero le armi e si unissero al popolo. È stato arrestato e ucciso sotto tortura nel settembre di quello stesso anno.

Quando, alla fine del 2011, Damasco ha dato l’ordine all’esercito di entrare nelle città considerate insorte e bombardare, alcuni generali dell’esercito regolare e altri militari hanno deciso di disertare, promettendo di proteggere i manifestanti e la rivolta, hanno creato l’Esercito siriano libero, che in una prima fase rifiutava l’arruolamento dei civili. Era una sfida impari. Da un lato le forze lealiste, armate di tutto punto, dall’altro i ribelli, dotati solo delle armi in loro possesso. L’inizio dei bombardamenti e delle ingerenze straniere hanno fatto precipitare gli eventi. Russia, Cina e Iran si sono da subito schierati con il regime di Assad, mentre in sostegno degli oppositori si sono dichiarati la Turchia e alcuni Paesi europei, tra cui la Francia. 

Gli Stati Uniti sono scesi in campo solo nel 2014, in sostegno delle fazioni curde schierate nella fascia orientale del paese. I paesi arabi hanno espulso la Siria dalla Lega Araba già nel 2011, quando molte ambasciate di Damasco nel mondo sono state chiuse, come segno di condanna per le azioni sanguinose del governo di Assad. Allo stesso tempo però, da molti di quei paesi sono partiti uomini e denaro per la Siria, non per sostenere la legittima opposizione, bensì per finanziare nuove milizie armate integraliste che in Siria hanno iniziato una guerra per procura, che nulla aveva a che fare con la rivolta popolare. Molti di questi gruppi armati, a cui si sono uniti foreign fighters da tutto il mondo, sono poi confluiti nell’auto proclamato Stato Islamico, una formazione terrorista che ha decimato l’opposizione siriana e ha preso di mira le minoranze, come la comunità cristiana e i Curdi, oltre a ridurre in condizione di schiavitù sessuale migliaia di donne.

Leggi anche:  Il nuovo governo siriano lancia segnali all’Occidente: sullo sfondo la revoca delle sanzioni alla Siria

I danni inestimabili del conflitto.

In questi anni, il governo siriano non ha mai smesso di bombardare il suo stesso paese e dal 2014 ha al suo fianco l’esercito russo, che continua a partecipare attivamente alle iniziative belliche e a pattugliare le coste siriane con i suoi bombardieri. La Turchia, che inizialmente ha dato sostegno all’Esercito siriano libero, ne ha prima ridotto il potenziale, per poi creare un suo nuovo corpo militare turco-siriano che fa gli interessi di Ankara lungo tutta la fascia settentrionale della Siria, al confine tra i due paesi, ma anche all’interno del territorio siriano stesso, con continue incursioni militari in particolare nelle aree curde dell’est. Nella zona sud, da anni Israele bombarda postazioni di Hezbollah e di miliziani iraniani in Siria, colpendo spesso anche l’esercito di Assad.

I danni che tutte queste violenze hanno portato sono inestimabili, sia sul piano della perdita di vita umane, sia dal punto di vista della distruzione di abitazioni, infrastrutture, monumenti e siti archeologici. La coesione sociale e la fraterna convivenza tra etnie e religioni sono state profondamente compromesse dall’insorgenza di fazioni islamiste. Un primo sguardo ai numeri aiuta a comprendere la gravità e le proporzioni della crisi in corso. Secondo i dati dell’Ufficio delle Nazioni Unite per gli affari umanitari (Ocha), su 23 milioni di abitanti, oggi 6,9 milioni di Siriani sono nella condizione di sfollati interni e altrettanti sono profughi, divisi tra i Paesi limitrofi, la Germania e altri Stati. Ben 14,6 milioni di persone, sempre secondo l’Ocha, hanno bisogno di assistenza umanitaria, il 75% sono bambini e donne.

La Siria è disseminata di fosse comuni, a oggi non sono stati ancora avviati progetti per l’identificazione dei corpi. Ci sono poi i desaparecidos, oltre 100mila donne e uomini spariti nel nulla dopo essere stati arbitrariamente arrestati o aver subito un sequestro. Alcuni famigliari in diaspora hanno dato vita ad associazioni come Families for Freedom o Massar (The Coalition of Families of Persons Kidnapped by Isis-Daesh) per chiedere verità sui loro cari.

Damasco è soggetta a sanzioni internazionali proprio per i crimini commessi dal regime di Damasco, ma può contare sul sostegno russo, anche dopo l’inizio dell’offensiva di Mosca contro l’Ucraina, e su quello di Iran e Cina. Una recente inchiesta condotta da The Human Rights and Business Unit at The Syrian Legal Development Programme (Sldd) in collaborazione con Observatory of Political and Economic Networks (Obsalytics), ha inoltre rivelato che le Nazioni Unite hanno pagato circa 137 milioni di dollari a società siriane legate a persone sanzionate e altre figure legate al regime di Bashar al Assad nel 2019 e nel 2020. Tra le principali fonti di finanziamento della Siria oggi c’è la produzione e la commercializzane del Captagon, una droga in uso ai soldati, un business da dieci miliardi di dollari in cui sono implicate anche le milizie libanesi di Hezbollah sponsorizzate dall’Iran.

Nelle sedi decisionali internazionali oggi la questione siriana viene affrontata sul piano della crisi umanitaria, stabilendo i budget da stanziare per le diverse emergenze, non ultima l’epidemia di colera che ha causato oltre ottanta vittime. Le stesse trattative di pace che un tempo si tenevano a Ginevra, e che vedevano l’Europa tra i protagonisti, si svolgono ora ad Astana, in Kazakistan, e sono condotte da Russia, Iran e Turchia. Assad resta al potere nonostante i crimini di guerra commessi dal suo governo, mentre alcuni paesi arabi, gli Emirati in primis, hanno ricominciato le trattative con Damasco. Le uniche iniziative di giustizia contro membri del regime siriano sono state condotte in Germania. A Coblenza, infatti, alcuni profughi siriani hanno riconosciuto e denunciato i loro carcerieri che avevano raggiunto il paese europeo; in seguito all’arresto sono stati processati e condannati lo scorso gennaio. Una sentenza storica.

A preoccupare i Siriani oggi non è solo la crisi umanitaria  – secondo l’Onu  il 90% della popolazione ormai vive sotto la soglia della povertà – ma anche gli arresti arbitrari e le esecuzioni contro chi torna in patria per effetto dei rimpatri forzati avviati dal Libano e dalla Turchia. La Siria non è un Paese sicuro, nonostante i tentativi del regime di ripulire la sua immagine invitando vlogger da tutto il mondo. Damasco sta incoraggiando investitori stranieri a prendere parte alla ricca partita della ricostruzione del paese, con il turismo farà da volano, tanto che sono stati avviati progetti per l’edificazione di hotel a cinque stelle.

L’ultima volta che la Siria ha guadagnato risalto nei media italiani è stato nel coprire il caso di Loujin Ahmed Nasif, una bambina siriana di soli quattro anni, morta di fame e sete mentre si trovava con la famiglia e altri profughi a bordo di un gommone partito dal Libano. Era l’11 settembre 2022. Esattamente un mese dopo la Procura di Roma ha chiesto l’archiviazione dell’indagine relativa alla scomparsa in Siria dal 2013 di Padre Paolo Dall’Oglio. Il gesuita, che aveva sposato le istanze dei manifestanti pacifici, era stato espulso dal regime di Damasco nel 2012 proprio per le sue denunce sui crimini che si stavano consumando ai danni dei civili. Era però tornato in Siria per amore della sua gente. Sul destino di Abuna – in arabo nostro padre – si son rincorse tante voci, mai confermate. Poi è sceso il silenzio ed è arrivata l’archiviazione. Un epilogo che, letto nel contesto generale della Siria, sembra spegnere anche l’ultima speranza di pace e giustizia per questa terra martoriata”.

Annota lo scrittore Shady Hamadi nel suo Blog su Ilfattoquotidiano.it: “Sopravvissuta alle macerie della propria casa, distrutta dai bombardamenti, ed è oggi vittima delle ceneri, i frantumi, di un’altra casa: questa volta distrutta da un evento naturale. Assomiglia alla collera di un Dio che non la smette di prendersela con il paese che è al cuore di quella che è stata la culla delle civiltà. Ma oggi, sei febbraio 2023, non c’è più nulla di umano. Anzi, non c’è nulla di umano da tempo in Siria.

I muri di casa che scricchiolano, le scale e i balconi che crollano assomigliano a una immagine vista decine di migliaia di volte. Questa volta manca solo il boato che precede il tonfo di un barile bomba sganciato su di una città. Quel suono sordo non c’è e quindi è mancato perfino l’avvertimento sonoro che un missile ti dà prima di portarti via la vita.

E’ assurdo rivedere, ancora e ancora, corpi incastrati tra le travi metalliche con cui è stata costruita una casa. Perché la casa, beyt in arabo, ha una definizione più ampia che va oltre il mero significato del luogo fisico, materiale, ma racchiude in sé il significato di famiglia. Oggi, come negli ultimi 12 anni in cui la guerra si è mangiata un paese, in cui ci sono stati finti eroi, bugie, eroi veri e vittime sufficienti a riempire cimiteri infinite… la morte scende uguale. Non guarda in faccia a nessuno e si ripete la monotonia di un dramma che continua ininterrottamente da migliaia di giorni.

Poveri siriani, abbandonati da tutti noi, da sempre e per sempre”.

Così è. Un regime sanguinario, la guerra, ora il terremoto. Non c’è pace per il popolo siriano. 

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