Siria, l'Isis fa strage alle porte di Palmira: ma il mondo guarda da un'altra parte
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Siria, l'Isis fa strage alle porte di Palmira: ma il mondo guarda da un'altra parte

Non c’è pace per il martoriato popolo siriano. L’Isis non appartiene al passato. E’ ancora impressa nel presente di un Paese martoriato da dodici anni di guerra civile e poi da un’apocalisse sismica

Siria, l'Isis fa strage alle porte di Palmira: ma il mondo guarda da un'altra parte
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Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

18 Febbraio 2023 - 21.02


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Hanno aperto il fuoco dalle motociclette contro civili inermi che cercavano un sostentamento raccogliendo i preziosi tartufi del deserto. Non c’è pace per il martoriato popolo siriano. L’Isis non appartiene al passato. E’ ancora impressa nel presente di un Paese martoriato da dodici anni di guerra civile e poi da un’apocalisse sismica che ha ridotto in macerie l’area ai confini con la Turchia.

Strage nel deserto.

Scrive Avvenire: “Nel silenzio dei media e dell’opinione pubblica internazionale, il terrorismo continua a fare strage di civili in Siria. Almeno 68 persone sono state trucidate, di cui solo 7 erano soldati governativi, in un attacco avvenuto ieri nella Siria centrale e attribuito ai miliziani del Daesh o a jihadisti filo-iraniani. Lo riferisce l’Osservatorio nazionale per i diritti umani. 

L’attacco è avvenuto nei pressi di Sokhne, vicino alla città di Palmira, in una regione desertica della provincia di Homs. Jihadisti in motocicletta hanno aperto il fuoco sui civili che raccoglievano i preziosi tartufi del deserto. Altri raccoglitori sono riusciti a fuggire. La zona è infestata di mine e ordigni bellici inesplosi. “Un totale di 61 civili e sette soldati sono stati uccisi nell’attacco”, ha detto Rami Abdel Rahman, che dirige l’Osservatorio siriano per i diritti umani.

Sabato scorso c’era stato un attacco simile nella stessa regione, in cui erano state uccise 16 persone che stavano raccogliendo tartufi del deserto per venderli nei mercati locali. In quell’occasione erano anche state rapite una sessantina di persone, 25 delle quali sono state rilasciate ieri mentre delle altre non si è saputo più nulla.

Nel contesto della peggiore crisi economica della storia siriana, in un Paese dove secondo l’Onu il 90% della popolazione vive in povertà, l’opportunità di vendere i tartufi attira periodicamente non solo civili ma anche militari dell’esercito regolare, mal pagati e logorati da un conflitto che dura da 12 anni. L’area orientale della provincia di Homs è una roccaforte delle milizie jihadiste sciite filo-iraniane, alleate del governo di Damasco e che fanno la guardia ai giacimenti di gas naturale di cui la zona è ricca, controllati dall’Iran. Ma nei wadi prosciugati a ovest dell’Eufrate si rintanano cellule del Daesh, mai sconfitte militarmente nonostante i proclami della coalizione internazionale, guidata dagli Stati Uniti, e della Russia. 

Ieri quattro militari statunitensi sono rimasti feriti in un raid contro il Daesh nel nord-est della Siria, in cui era stato ucciso un leader jihadista, Hamza al-Homsi. Il raid era stato condotto insieme all’alleanza delle Forze democratiche siriane guidata dai combattenti curdi”.

Nei giorni scorsi gli Stati Uniti hanno annunciato la morte di Ibrahim Al Qathani, un comandante dello Stato Islamico, specializzato nella pianificazione degli attacchi alle carceri dove sono detenuti i jihadisti pro-Isis in Siria.  A riguardo non sono stati forniti ulteriori dettagli. Fonti locali, però, riferiscono che il miliziano ha perso la vita nel corso di un raid congiunto Sdf-Inherent Resolve, avvenuto il 10 febbraio nei pressi del villaggio di Abo Al-Naital (Deir Ezzor). La morte di Al Qahtani è un duro colpo per i fondamentalisti, che da tempo cercano di liberare i loro compagni prigionieri delle forze curde nell’Est della nazione. Secondo il Centcom, il comando centrale Usa per le operazioni militari, infatti, attualmente ci sono oltre 10.00 terroristi IS detenuti nei centri di detenzione in Siria. Tra questi c’è il carcere di Al-Sina’a (Hasaka), che il 20 gennaio 2022 subì un violento attacco, forse pianificato da Al Qahtani, a seguito del quale molto jihadisti e alcuni emiri furono liberati.

Un passo indietro nel tempo. Da un report di AsiaNews del 24 ottobre 2022: “Sfruttando l’allentamento delle misure di sicurezza e delle operazioni militari sul terreno, di recente lo Stato islamico (SI, ex Isis) ha lanciato una serie di attacchi contro le forze curde nel nord-et della Siria, guadagnando parte del terreno perduto in passato. Al momento sembrano ancora lontani i tempi in cui, fra il 2014 e il 2017, gli uomini del “califfato islamico” controllavano larghe porzioni di Siria e Iraq, al prezzo di sangue e terrore. Tuttavia, seppur sconfitta sul piano militare la minaccia jihadista rischia di seminare nuova confusione e alimentare l’escalation di violenze nel Paese arabo. 

Fonti locali riferiscono di una “rinnovata attività” dell’Isis nelle zone sotto il controllo curdo e pattugliate dalle Forze democratiche siriane (Sdf). Il 14 ottobre i miliziani hanno rivendicato una operazione nel villaggio di Tal Alo, nella provincia di Hassaké, in cui è rimasto colpito Hamidi Bandar Hamidi al-Hadi, figlio del capo delle Forze di al-Sanadid. Si tratta di una formazione composta dalla tribù araba Shammar e che opera sotto le direttive congiunte della coalizione Usa e delle Sdf. La vettura di Hadi è esplosa mentre nel tragitto fra Tal Alo e l’azienda agricola di famiglia, nella campagna di Qamishli: l’uomo è riuscito però a sopravvivere. 

Il 19 ottobre un miliziano Isis ha ucciso Amer Awad al-Shawi, ex membro delle forze Sdf e il collega Ayman al-Shawi, in una imboscata ad al-Busayrah, periferia orientare di Deir ez-Zor. Una fonte locale rilanciata da al-Monitor spiega che il gruppo jihadista ha interrotto le operazioni “solo per tornare a colpire in modo ancor più feroce”. Inoltre, spiega il giornalista Zain al-Abidin al-Akeidi “alcune tribù stanno creando un ambiente adatto per lo SI. Il gran numero di sfollati nelle campagne orientali e nord-orientali di Deir ez-Zor – prosegue – consente allo Stato islamico di nascondere le cellule e i combattenti”, potendo poi contare sula “fragilità” e la mancanza di “sicurezza” nei territori controllati dalle Forze democratiche siriane. 

L’Isis, spiega il cronista, sfrutta la corruzione diffusa per indebolire le forze di sicurezza, liberando detenuti e alimentando il malcontento delle tribù di stampo conservatore che non vedono con favore l’egemonia e il controllo dei curdi. I miliziani compiono attentati e attacchi secondo la tecnica dei lupi solitari, mantengono una grande influenza nelle campagne di Deir ez-Zor e, a volte, impongono il pagamento della Zakat [l’obbligo imposto dal Corano di “purificazione” della propria ricchezza] ai residenti dell’area. Nel mirino anche lavoratori e dipendenti nei giacimenti petroliferi controllati dalle Sdf.

Raed al-Hamid, esperto di gruppi armati con base a Erbil, afferma che le strategie Isis si fondano su tre elementi principali: la tutela dei propri uomini, operando in piccoli gruppi inferiori ai 15 combattenti evitando le grandi offensive o le battaglie in campo aperto; la diffusione dell’ideologia, sebbene la popolarità sembra essere in deciso calo; il terzo, e più cruciale, è quello finanziario con operazioni su diversi fronti per sostenere il jihad, la guerra santa”.

Scrive Luca Gambardella su Il Foglio del 12 dicembre 2022: “Nell’ultima settimana in Siria si sono verificati due avvenimenti che fino a qualche anno fa avrebbero suscitato grande attenzione mediatica. Invece, è successo che la morte del terzo califfo dello Stato islamico e le proteste contro Assad, le prime dopo anni in una cittadina del sud controllata dal regime, sono passate quasi inosservate. L’uccisione di Abu al Hassan al Hashimi al Quraishi è stata annunciata dal portavoce dell’organizzazione terroristica lo scorso 30 novembre. Il comunicato era scarno, non chiariva le circostanze della morte, ma indicava solamente il nome del successore, Abu al Hussein al Husseini al QuraishiLa notizia è stata confermata qualche ora dopo dal Centcom, il Comando centrale delle Forze armate degli Stati Uniti, che però ha negato di avere avuto qualsiasi ruolo nell’operazione, come invece era avvenuto con gli altri due califfi, Abu Bakr al Baghdadi e Abu Ibrahim al Hashimi al Quraishi. L’operazione, che risale al 15 ottobre scorso, secondo il Centcom sarebbe stata condotta dall’Esercito libero siriano (Fsa). Altra differenza rispetto alle incursioni che portarono all’eliminazione dei primi due leader di Daesh è l’area geografica: non più il governatorato di Idlib, nel nord-ovest del paese, ma il sud, per la precisione a Jassem, un sobborgo di Daraa. 

Solo dopo qualche giorno si è arrivati a una ricostruzione dei fatti più precisa. Prima di tutto, si è scoperto che il comunicato degli americani era equivoco. Il Fsa a cui si riferivano non era quello delle milizie che operano insieme agli statunitensi nella base di al Tanf, nel sud-est del paese. Si trattava invece di un gruppo armato che gli americani avevano sostenuto fino al 2017. L’anno successivo, Washington aveva rotto l’“alleanza”, spingendo i ribelli a riconciliarsi con il regime di Bashar al-Assad e indirettamente con i russi, sponsor di Damasco. Parte di questi combattenti si erano quindi spostati a sud dove, di tanto in tanto, svolgevano operazioni militari contro altri ribelli insieme all’esercito del regime. Non il 15 ottobre scorso, quando avrebbero agito invece in autonomia contro una cellula dello Stato islamico proprio a Jassem. Sarebbe stato allora che il califfo al Hassan, come è successo anche ai suoi predecessori, avrebbe deciso di fare saltare in aria il rifugio in cui era finito in trappola, pur di non essere arrestato.

Secondo quanto riferito da alcune fonti locali a una giornalista, Elizabeth Tsurkov, il Fsa di Daraa non sapeva di avere ucciso il terzo califfo.Solo dopo avere raccolto tracce del Dna e averle consegnate agli americani – e questa è un’altra notizia, perché si credeva che ormai avessero perso ogni rapporto con i ribelli del sud – è arrivata la conferma della morte di al Hassan. Per avere un campione di Dna con cui confrontare i resti, è probabile che il terzo califfo, cittadino iracheno, fosse già finito sotto la custodia degli americani, probabilmente durante la guerra in IraqLa sua morte ora dà nuovo vigore all’impegno americano contro lo Stato islamico in Siria e mette in ulteriore difficoltà l’organizzazione terroristica, ma non va spacciata per la sconfitta finale del Califfato. A poche ore dall’annuncio del nuovo leader, al Hussein, decine di gruppi armati dello Stato islamicodalla Nigeria al Sahel fino all’Egitto e alla Siria, hanno postato foto del bay’ha– del loro giuramento al califfo. In molte di queste comparivano decine di bambini con in braccio un kalashnikov, le nuove reclute vendute alla causa del jihad in cambio di soldi e cibo. Mentre ci si aspetta una ritorsione da parte di Daesh, nel nord della Siria la minaccia di un intervento militare turco mette in pericolo la guerra ai terroristi. Domenica, il leader delle Forze di difesa democratiche, Mazloum Abdi, ha rivolto un appello agli alleati americani dalle colonne del Washington Post, affinché agissero con più decisione per dissuadere Erdogan. 

Il secondo fatto rilevante è avvenuto sempre nel sud della Siria, a Suwayda. E’ una cittadina drusa, in un’area controllata dal regime e interessata in modo marginale dai combattimenti. Domenica, diverse decine di persone sono scese in strada protestando contro il regime, accusato del deterioramento della situazione economica diventata insostenibile per la carenza di benzina e beni di prima necessità. I manifestanti hanno urlato slogan contro le autorità e hanno accusato i militari di usare la benzina per i loro mezzi lasciando senza i cittadini. Si sono riuniti davanti al palazzo del governo e gli hanno dato fuoco, stracciando le foto di Assad, finché le forze di sicurezza non hanno sparato uccidendo un manifestante. E’ presto per sapere dove possano portare queste proteste, ma dimostrano come l’aumento generale dei prezzi possa rendere ancora più insostenibile per la popolazione sopportare uno Stato autoritario e corrotto come quello di Assad.  Sullo sfondo resta lo Stato islamico, che non aspetta altro per fare proseliti”.

Così Gambardella.

Annota Mauro Indelicato su Inside Over: “Difficile oggi dire se e quando la Siria si lascerà alle spalle il suo inferno dimenticato. Non ci sono solo città distrutte ed economie ferme a causa delle sanzioni. Così come non ci sono soltanto giochi tra potenze a pesare sul futuro dei siriani. Il problema è anche di natura sociale. Nelle città ancora ridotte in macerie dovranno convincere vincitori e vinti della guerra, perseguitati e perseguitanti, genitori che hanno perso i figli nelle battaglie e sostenitori di chi, negli anni più bui, sgozzava le teste ai soldati. Ricomporre il puzzle siriano richiederà lavoro e tempo. Ma soprattutto richiederà l’effettiva fine della guerra. Un conflitto dimenticato il cui lascito potrebbe essere tra i più pesanti di sempre”. 

L’allarme è scattato da tempo. Ma la comunità internazionale guarda da un’altra parte. A Est, alla guerra in Ucraina. Sulla Siria i riflettori sono stati spenti. Per un po’ saranno riaccesi per raccontare la tragedia del terremoto e aggiornare il bilancio delle vittime. Sul resto, silenzio. Silenzio sul macellaio di Damasco, Bashar al-Assad, che intende utilizzare gli aiuti internazionali per rafforzare il proprio regime sanguinario. E silenzio anche sui tagliagole del Daesh che continuano a seminare morte e terrore in quel Paese senza pace ne speranza di nome Siria. 

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