Mediterraneo: i popoli in fuga presentano il conto: non sarà un Piantedosi a fermarli
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Mediterraneo: i popoli in fuga presentano il conto: non sarà un Piantedosi a fermarli

Libia, Tunisia, Somalia, Africa subsahariana. E ancora: Siria, Iraq, Palestina, Libano, Yemen, Afghanistan...Ci stanno presentando il conto. Il conto di guerre sciagurate

Mediterraneo: i popoli in fuga presentano il conto: non sarà un Piantedosi a fermarli
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Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

12 Marzo 2023 - 12.40


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Libia, Tunisia, Somalia, Africa subsahariana. E ancora: Siria, Iraq, Palestina, Libano, Yemen, Afghanistan…Ci stanno presentando il conto. Il conto di guerre sciagurate. Il conto per il sostegno a regimi corrotti e sanguinari. IL conto per un neo colonialismo predatore che ha ingrossati i conti all’estero di èlite militarizzati, di signori della guerra in combutta con i trafficanti di esseri umani. Stati falliti, popoli ridotti a moltitudini di profughi, paesi in macerie: questo è il devastante scenario del sud del Mediterraneo. Per milioni di persone non c’è che una possibilità, disperata, disperante ma l’unica: la fuga.

Allarme rosso

Nei rapporti settimanali sull’immigrazione che vengono mandati al governo italiano, gli 007 sottolineano come in Libia, nei campi di detenzione ma non solo, ci siano 685mila migranti irregolari pronti a partire per sbarcare sulle coste italiane. Lo riporta il Corriere della Sera. La stessa cifra circola nei tavoli interministeriali che sono chiamati a occuparsi di questo tema che ha ripreso il carattere dell’emergenza: in tutto il 2022, anche a causa della pandemia, gli arrivi erano stati “solo” 104mila: solo la cifra sui possibili arrivi dalla Libia è quindi quasi sette volte superiore.

Cosa sia oggi la Libia, Globalist lo ha documentato in decine di articoli. Di srguito riportiamo un passaggio dell’intervento – pubblicato integralmente su grenreport.it – di Abdoulaye Bathily, ex ministro dell’ambiente e dell’energia del Senegal e attualmente rappresentante speciale del segretario generale dell’Onu in Libia e a capodell’United Nations Support Mission in Libya (UNSMIL) ha fatto il 27 febbraio di fronte al Consiglio di sicurezza dell’Onu.

 “Purtroppo, il già limitato spazio civico in Libia continua a essere ulteriormente ristretto, mettendo a tacere le voci dei gruppi e degli attivisti della società civile. Sono allarmato dall’ondata di arresti di donne attiviste per i diritti umani, accusate di “offendere le tradizioni libiche”, a seguito dell’attivazione della legge contro la criminalità informatica il 17 febbraio. Febbraio segna anche più di un anno da quando quattro protagonisti della società civile sono stati arbitrariamente arrestati e detenuti con il pretesto di proteggere “la cultura e i valori libici”, mentre esercitavano pacificamente il loro diritto fondamentale alla libertà di espressione. Alla fine di dicembre 2022, i quattro uomini sono stati condannati a tre anni di reclusione. Ribadisco i miei appelli alle autorità libiche affinché pongano fine alla repressione della società civile, proteggano e promuovano lo spazio civico e cessino di interferire nel lavoro delle organizzazioni della società civile. In tutte le mie consultazioni con le donne e le organizzazioni della società civile, continuano a chiedere un ruolo maggiore nei processi politici e di riconciliazione in corso. Chiedono che la loro voce sia ascoltata e piena rappresentanza in tutte le istituzioni. Ribadisco che le donne devono essere rappresentate in modo significativo in tutti i processi politici e di riconciliazione, nonché nella società civile, nelle componenti culturali, nei giovani e nei gruppi e comunità vulnerabili”.

Tunisia, fuga di massa

Le recenti dichiarazioni del presidente tunisino Kais Saied che ha invocato “misure urgenti” contro l’immigrazione illegale di africani sub-sahariani nel suo Paese, assieme alla grave crisi economica che soffoca la Tunisia, hanno di fatto provocato un boom di partenze verso l’Italia. E’ un dato che emerge con chiarezza scorrendo i numeri pubblicati dalla Guardia costiera di Tunisi che ha dato conto, solo nell’ultima notte, di 25 operazioni di migrazione illegale sventate e 1.008 persone soccorse in mare, di cui ben 954 di vari Paesi dell’Africa sub-sahariana.

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A colpire è la nazionalità di coloro che partono: è evidente che gli irregolari africani non si sentono più al sicuro in Tunisia. Al di là di alcuni video fake messi in rete per denigrare la Tunisia e smascherati in servizi televisivi da Bbc e France 24, il clima nei loro confronti è “sempre più ansiogeno”, come ha dichiarato l’Associazione degli studenti e tirocinanti africani in Tunisia (Aesat), ed è tale da spingere molti di essi a chiedere il rimpatrio volontario. Oltre 1.700 ivoriani sui 7.000 presenti in Tunisia hanno già chiesto di poter tornare nel loro Paese, così come hanno fatto centinaia di maliani e guineani, cui si aggiungeranno presto anche cittadini del Gabon. Non è bastato l’annuncio della presidenza tunisina del 5 marzo scorso dell’introduzione di nuove misure a favore dei migranti stranieri per rasserenare gli animi. Molti africani stranieri anche regolari si sono visti sbattuti fuori di casa e dal loro posto di lavoro (per la maggior parte lavori umili, malpagati e in nero).

L’effetto paradossale però è che a rimpatriare volontariamente sono coloro che si trovavano in maniera regolare in Tunisia – studenti, lavoratori – mentre quelli che non hanno un permesso di soggiorno sono costretti a ricorrere ai canali illegali per arrivare in Europa. Un centinaio di essi si sono accampati fuori dalla sede dell’Oim a Tunisi in cerca di vari tipi di assistenza. “Stiamo lavorando il più velocemente possibile per offrire supporto, facendo appello alla calma e al dialogo per garantire soluzioni dignitose e basate sui diritti umani”, ha dichiarato l’Oim al riguardo. La crisi economica che sta vivendo la Tunisia – con l’inflazione al di sopra del 10% e una disoccupazione giovanile altissima -, in un contesto politico difficile dominato dall’iperpresidenzialismo di Saied, spinge letteralmente questi migranti africani a buttarsi tra le braccia di profittatori pronti a tutto per di ottenere facili guadagni. Sempre più frequenti sono le partenze a bordo di imbarcazioni di ferro, costruite alla meno peggio da fabbri improvvisatisi maestri d’ascia. E sempre più frequenti, purtroppo, sono i naufragi, come quello di ieri, costato la vita ad almeno 14 subsahariani al largo di Sfax.

Di fronte a questi numeri, e con l’approssimarsi della bella stagione, appare chiaro che le autorità tunisine, senza aiuti supplementari anche economici, non potranno far fronte da sole ad un fenomeno migratorio di tale portata. Questa crisi, testimoniata anche dall’aumento recente dei fermi da parte delle autorità tunisine di irregolari africani sul territorio nazionale, ha permesso comunque al presidente Saied di evidenziare come la Tunisia non sia più solo un Paese di partenza di migranti verso l’Europa ma anche un Paese vittima esso stesso di immigrazione illegale. Le sue parole però lo hanno anche esposto ad accuse di razzismo con conseguenze che potrebbero rivelarsi molto dannose per la Tunisia: la Banca mondiale ad esempio ha annunciato che continuerà a lavorare con Tunisi sui progetti in corso ma vuole sospendere il Country Partnership Framework (Cpf), base per il monitoraggio da parte del consiglio di amministrazione della Bm al fine di valutare e sostenere il Paese nei suoi programmi di aiuto.

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Quando ci chiederanno il conto

Giuseppe Cucchi è generale della riserva dell’Esercito, già direttore del Centro militare di studi strategici, consigliere militare del presidente del Consiglio, rappresentante militare permanente dell’Italia presso Nato, Ue e Ue, consigliere scientifico di Limes

E su Limes ha pubblicato uno scritto di straordinario interesse, perché riguarda un’area a noi vicina, e non solo geograficamente: il Mediterraneo.

Scrive Cucchi: “Anche se fino a questo momento nulla di irreversibilmente traumatico è ancora avvenuto sulle sponde arabe di un  Mediterraneo allargato ,  questo è ormai il grido che  si sta incessantemente levando da tali sponde  verso una Europa – e al di là di essa verso un intero Occidente – che da troppo tempo stanno dimenticando i compagni di strada del bacino condiviso . 


Nel 1989 , ben 33 anni fa per l’esattezza , con la caduta del Muro di Berlino noi ci trovammo di fronte ad un secondo “arco di crisi” , quello ad Est , che si apriva ed entrava in competizione con l’altro “arco di crisi ” , quello a Sud , cui da parecchio tempo eravamo confrontati , sottraendogli attenzione , interesse politico , aiuti militari ,risorse economiche… Sotto la pressione contemporaneamente esercitata dagli Stati Uniti da un lato e dall’altro dai paesi europei cui il duplice crollo del Patto di Varsavia prima e dell’Unione Sovietica poi aveva restituito la libertà , l’Europa finì così rapidamente col preoccuparsi soltanto di donare sicurezza e benessere alla sua area centrosettentrionale di recente recuperata , dimenticando rapidamente le sue connessioni con un  Sud ed un Est Mediterraneo che si facevano sempre più inquieti .  


Si trattò , tra l’altro , di un processo che riscosse una approvazione pressoché generalizzata , al punto tale che nemmeno i grandi paesi della Europa Meridionale , come l’Italia e la Spagna , nonché per molti versi anche la Francia – che benché non lo ammetta è decisamente mediterranea in tutta la sua parte a sud della Loira – non ritennero opportuno protestare con una decisione tale da cambiare sostanzialmente un orientamento che avrebbe finito col tempo col rivelarsi estremamente pericoloso . 
Agli arabi, che iniziavano già più di trenta anni fa a chiederci “E noi ?” fu quindi risposto di attendere con pazienza il momento in cui l’Occidente , dopo aver assicurato la propria frontiera ad est , avrebbe avuto il modo , e le risorse , per occuparsi anche di quanto succedeva nel bacino mediterraneo . 


La risposta, almeno momentaneamente accettata, inizio però con gli anni a perdere progressivamente di credibilità,, un processo che poi si accelerò nel momento in cui gli europei non dimostrarono alcuna inclinazione a sostituirsi agli Stati Uniti che nel loro progressivo concentrarsi sull’area del Pacifico avevano sperato di poter delegare agli alleati Nato la gestione dei problemi mediterranei. 


In quegli anni , assurdamente , l’unica vera iniziativa Europea nel bacino fu anzi l’azione franco britannica contro Gheddafi , culminata con un conflitto che non ebbe mai una precisa conclusione , ma in compenso eliminò uno dei pilastri di stabilità dell’intera area .


L’abbandono totale , protrattosi per un tempo troppo lungo , portò così , poco più di dieci anni fa , alla stagione delle “primavere arabe ” , disperate rivolte del pane – ma non soltanto di quello ! – che non a caso colpirono con particolare durezza i paesi che per forma di Governo e contatti internazionali risultavano più vicini all’Occidente. . Si trattava di un primo messaggio, un “E noi?” chiarissimo, di cui avremmo dovuto tenere il debito conto, ma che invece fingemmo di non comprendere. Il risultato fu lo scatenarsi di una competizione , una corsa ad occupare il vuoto di potere esistente nell’area , che ebbe come protagonisti maggiori la Cina che acquistò nel bacino mediterraneo tutto ciò che poteva acquistare , Stati compresi , la Turchia , che diede via libera alle sue frustrazioni neo ottomane , e infine la Russia che , grazie alla sanguinaria e criminale disinvoltura dei mercenari della Wagner , si ritagliò  un ruolo di potere prima in Siria ed in Libia e successivamente anche in parte del Sahel . Con tutto questo rimaneva comunque viva in tutti gli Stati arabi mediterranei la speranza che una volta terminato il suo compito ad Est l’Occidente si ricordasse finalmente dei suoi compagni di strada meridionali. In un certo senso tale speranza era così viva e forte da consentire loro di procedere malgrado il difficilissimo periodo di crisi politica ed economica che pressoché tutti stavano attraversando.  Nel Maghreb infatti la tensione fra Marocco ed Algeria sembra crescere oggi di giorno in giorno, mentre ciascuno dei due Stati cerca di alimentare le istanze separatiste delle altrui minoranze. La Tunisia sta inoltre per affrontare un referendum istituzionale che potrebbe rivelarsi difficile, mentre in Libia si confrontano di nuovo due distinti Governi, una situazione che è un ulteriore passo avanti verso la definitiva spartizione del Paese. 
Non vanno meglio le cose in Egitto, ove le difficoltà finanziarie hanno costretto al-Sisi a ricorrere di nuovo ad un aiuto che gli Stati del Golfo certo concederanno …ma a quale prezzo?
O in Libano che anni di crisi economica hanno inchiodato nel terribile ruolo di “Stato fallito”. In Giordania poi la famiglia reale,  colonna dell’unità nazionale , è spaccata in due da una faida dinastica senza esclusione di colpi .
La Siria attende nel frattempo con timore una ulteriore  recrudescenza del mai concluso conflitto fra Turchia e curdi …e si potrebbe continuare .  Su tutto questo cade adesso la tegola del blocco dell’esportazione del grano ucraino, con tutti gli effetti che l’episodio potrà avere sui maggiori consumatori, in particolare Tunisia ed Egitto. Al di là e prima di essa vi è però comunque da considerare come la   attuale situazione bellica chiarisca a tutti i paesi delle altre sponde mediterranee,  senza alcuna possibilità di dubbio , come per anni ed anni il rischio sia che tutte le attenzioni e le risorse dell’Occidente rimangano concentrate sull’Est europeo .  Vi sembrerebbe quindi strano se a questo punto i nostri amici d’oltremare cominciassero e gridare “E noi? E NOI?” con voce progressivamente sempre più forte?”.

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Così il generale Cucchi.

Quel “Noi” bussa alle nostre porte. E ci chiede conto delle politiche securiste praticate, l’esternalizzazione delle frontiere, i respingimenti, i lager in funzione h24 con i soldi erogati dall’Europa (e dall’Italia) perché altri facciano il lavoro sporco al posto nostro. Politiche che hanno contribuito a fare del Mediterraneo il “mare della morte”, e il Nord Africa e il Medio Oriente polveriere pronte a esplodere. I segnali ci sono tutti. Il conto sta per essere servito. E a fermare quei popoli in fuga non sarà un ministro-questurino al Viminale.

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