E’ l’unica proposta sensata. Per questo è stata subito bocciata dal governo sovranista. A chi vaneggia blocchi navali, millanta piani Africa, scarica le proprie responsabilità nelle stragi in mare incolpando prima Frontex e poi i mercenari della Wagner, facitori, su ordine di Putin, della “guerra ibrida” contro l’Italia, portata avanti con l’utilizzo dei migranti come arma d’invasione. Per costoro, l’idea di poter dare vita a una Mare Nostrum europea è una provocazione da rintuzzare e rispedire sdegnosamente al mittente, tanto più se la proposta è avanzata dalla combattiva neo segretaria del Partito democratico, Elly Schlein.
Sul tema del salvataggio dei migranti, la proposta della segretaria Pd Elly Schlein di un’operazione “Mare Nostrum” europea “non mi sembra risolutiva”. Lo ha affermato il ministro degli Esteri Antonio Tajani. “E’ chiaro che l’Europa deve intervenire sui flussi migratori, è un suo compito – ha precisato -. C’è da compiere un’azione forte contro i trafficanti di essere umani e vorrei che tutti si impegnassero in questa dura lotta. Certo che bisogna salvare le persone in mare, ma bisogna impedire che partano e dobbiamo avere flussi regolari”. “Se si apre il fronte tunisino rischiamo di avere nel Mar Mediterraneo centinaia di migliaia di persone che si sposteranno, perché già la frontiera tra Tunisia e Libia è un colabrodo”, ha aggiunto Tajani su Rai Radio 1, ricordando di aver sollecitato il Fondo monetario internazionale ad “agire rapidamente” nel fornire aiuti alla Tunisia.
Una proposta da rilanciare
“Serve una Mare Nostrum europea, serve una missione comune di ricerca e salvataggio nel Mediterraneo che abbia mandato operativo di salvare le vite, di questo c’è bisogno”. Così Schlein che, durante un punto stampa a Bruxelles, ha aggiunto: “Nella bozza del Consiglio Ue solo poche righe sulle migrazioni, ma questa destra dov’era quando si è cercato di riformare l’accordo di Dublino? Io non li ho visti. Oggi cercano di rivendicare la centralità del tema migratorio con tre righe che non vogliono dire nulla”, ha continuato Schlein. Arrivando al prevertice dei socialisti europei, Schlein aveva spiegato che il governo ha posto all’Ue le domande sbagliate. “Io dico al governo italiano che celebra la grande attenzione che ottiene” sulla migrazione “in questa sede che quella non è la strada giusta, perché fa le domande sbagliate all’Ue”. Il governo, ha sottolineato Schelin, dovrebbe “invece chiedere una maggiore condivisione delle responsabilità sull’accoglienza, superando il regolamento di Dublino e ottenendo una missione europea di ricerca e soccorso in mare perché dove non arrivano purtroppo le motovedette della Guardia Costiera e le Ong vediamo ancora tragedie”.
La presa di posizione della Conferenza episcopale italiana
La tragedia di Cutro – ieri è stata trovata in mare l’ottantanovesima vittima del naufragio – , secondo il Consiglio Cei, “è una ferita aperta che mostra la debolezza delle risposte messe in atto.
Il limitarsi a chiudere, controllare e respingere non solo non offre soluzioni di ampio respiro, ma contribuisce ad alimentare irregolarità e illegalità”. “Servono invece politiche lungimiranti, nazionali ed europei, capaci di governare i flussi d’ingresso tramite canali legali, cioè vie sicure che evitino i pericoli dei viaggi in mare, sottraggano quanti sono costretti a lasciare la propria terra a causa di fame e violenza alla vergogna dei centri di detenzione e diano prospettive reali per un futuro migliore”.
Nel comunicato finale del Consiglio episcopale permanente si legge che il fenomeno migratorio “continua ad essere gestito in modo emergenziale e non strutturale”. In questa ottica, è stato osservato dai vescovi, “i corridoi umanitari rappresentano al contempo un meccanismo di solidarietà internazionale e un potente strumento di politica migratoria”. “Nel ribadire che il diritto alla vita va sempre tutelato e che il salvataggio in mare costituisce un obbligo per ogni Stato – aggiunge la nota -, i Vescovi hanno quindi ricordato quanto sia strategica per il bene comune un’accoglienza dignitosa che abbia nella protezione, nell’integrazione e nella promozione i suoi cardini”.
Un j’accuse possente
“Non possiamo assistere silenti alla morte di decine di persone a causa di un naufragio a poche miglia dalle coste italiane nel tentativo disperato di raggiungere l’Europa per cercare un futuro possibile, spezzato dal drammatico naufragio, che conferma come il Mediterraneo centrale sia tra le rotte migratorie che causano il numero più elevato di vittime, tra cui donne e minori. Non possiamo non chiederci, con indignazione, quando queste morti smetteranno di essere numeri e ci sarà un reale impegno per evitarle. È più che mai urgente un’assunzione di responsabilità condivisa tra gli Stati membri e le istituzioni europee che disponga un meccanismo coordinato e strutturato di ricerca e salvataggio delle persone in difficoltà in mare, agendo nel rispetto dei principi del diritto internazionale, e che si ponga l’obiettivo di garantire vie sicure e legali per l’ingresso in Europa”, così Raffaela Milano, direttrice programmi Italia Europa di Save the Children, subito dopo la strage di Cutro.
“Da anni si dice che tragedie come questa non debbano più succedere, ma quanto accaduto oggi dimostra ancora una volta che le attuali politiche non sono in grado di affrontare l’arrivo dei migranti in modo strutturato, garantendo salvataggio, assistenza e protezione adeguate. Quanti altre vite dovranno essere spezzate prima di una reale assunzione di responsabilità?”, conclude Milano. Giriamo la domanda alla presidente Meloni e ai suoi ministri securisti.
A proposito della Tunisia
Di grande interesse è un report di Dario Prestigiacomo su EuropaToday: “Chissà cosa sarebbe successo se nel pieno della crisi energetica, con le bollette schizzate alle stelle, l’Europa avesse imposto all’Italia di eliminare tutti gli aiuti alle famiglie sulle bollette in cambio dei finanziamenti del Pnrr. Chissà cosa avrebbe detto l’attuale premier Giorgia Meloni, che in vista dei negoziati con Bruxelles sulla riforma del Patto di stabilità ha tuonato: “Il tempo dell’austerità è finito”. Immaginare uno scenario del genere serve per capire meglio quanto sta succedendo in Tunisia: il Paese nordafricano è nel pieno di una crisi economica e politica che preoccupa l’Occidente, e da mesi sta negoziando un prestito con il Fondo monetario internazionale (Fmi). Il nostro governo, così come quello degli Stati Uniti, sta spingendo Tunisi ad accettare il prestito, in modo da stabilizzare la situazione ed evitare, come ha spiegato la stessa Meloni alla Camera, “un flusso” di migranti “che nessuno potrebbe governare”. Peccato che, in cambio dei soldi, il Fmi chieda alla Tunisia un piano di riforme lacrime e sangue, che prevede, tra le altre cose, l’eliminazione dei sussidi statati sulla benzina e sui beni alimentare di base.
Lacrime e sangue
Far accettare un piano del genere alla popolazione, con un’inflazione galoppante e oltre 4 milioni di poveri, non è certo facile. Lo Stato ha un deficit di bilancio abissale, e questo sta comportando l’impossibilità di importare quantità sufficienti di beni di prima necessità. Quando questi prodotti sono disponibili, i loro prezzi diventano però insostenibili non solo per i più vulnerabili, ma anche per la classe media tunisina. È un cane che si morde la coda: le casse pubbliche sono vuote e questo ha l’effetto di rendere ancora più alto il costo della vita. Il prestito del Fmi potrebbe rimpinguare le casse, ma toglierebbe i sussidi su cui una fetta sempre più larga della popolazione sta facendo affidamento per arrivare a fine mese. Il Fondo monetario internazionale non chiede solo lo stop ai sostegni pubblici per carburanti e generi alimentari, ma anche di ridurre il personale dell’amministrazione pubblica, con tagli che potrebbero colpire sanità e istruzione. Il Fmi vuole anche che Tunisi metta mano alla sua galassia di società pubbliche, anch’esse gravate da deficit di bilancio dettati da un eccesso di forza lavoro. Per esempio, la compagnia di bandiera aerea Tunisair potrebbe dover licenziare circa mille dipendenti in seguito al patto con il Fmi. Mentre altre aziende di Stato potrebbero essere privatizzate. Il tutto in cambio di un prestito di 1,9 miliardi di dollari che, secondo alcuni analisti, potrebbe essere insufficiente a stabilizzare la situazione.
Azzerare il debito
Non è un caso se in un panorama politico fortemente polarizzato, il presidente in carica Kais Saied e l’opposizione, a partire dal potente sindacato Ugtt, siano d’accordo su un punto: il no al piano di riforme del Fmi. “La soluzione non è sottomettersi ai diktat, che sono una nuova forma di colonialismo – ha detto di recente Saied – Se i Paesi stranieri vogliono aiutare la Tunisia, dovrebbero restituire i nostri soldi saccheggiati e far cadere i debiti accumulati”. La questione del debito pubblico chiama in causa soprattutto l’Europa: la Francia è il Paese straniero che detiene la più ampia fetta di debito tunisino. Al terzo posto c’è la Germania, al quinto l’Italia. Senza considerare le quote detenute direttamente dall’Ue e dalla Banca europea degli investimenti.
Eppure, la parola “debito pubblico” non è citata neppure una volta nella recente risoluzione approvata dal Parlamento europeo, in cui si sottolineano invece (e con solide motivazioni) la svolta autoritaria di Saied e la stretta sui diritti nel Paese, e in cui si chiede all’Ue di bloccare alcuni programmi di sostegno rivolti a Tunisi. La questione del debito pubblico non sembra rientrare neanche nelle discussioni in corso a Bruxelles, dove i leader dell’Unione stanno affrontando proprio in queste ore il dossier tunisino. Semmai, i Paesi più interessati alla situazione nel Paese nordafricano sembrano convergere sulla necessità che “si sblocchi la linea di credito del Fondo monetario internazionale alla Tunisia, che è in una situazione finanziaria molto complessa. Se non si interviene noi rischiamo di avere un flusso (di migranti, ndr) che nessuno potrebbe governare”, ha detto la premier Meloni.
Il tappo tunisino
La leader italiana sta spingendo per una missione congiunta con la Commissione europea in Tunisia, alla quale dovrebbero partecipare, secondo quanto riferito da Bruxelles, il ministro Matteo Piantedosi e il suo omologo francese Gerald Darmanin. “Dobbiamo lavorare con i Paesi d’origine per fermare le partenze” di migranti, ha evidenziato la commissaria Ue agli Interni, Ylva Johansson. A dirla tutta, la Tunisia è stata in questi anni molto diligente nell’attuare gli accordi con l’Ue e l’Italia (ricompensati a suon di decine di milioni di euro) per fermare le partenze via mare dei suoi cittadini e dei migranti subsahariani che arrivano nel Paese: nel 2019, per esempio, poco meno di 2700 migranti provenienti dalla Tunisia erano sbarcati in Italia. Niente a che vedere con quanto successo l’anno scorso, con oltre 18mila arrivi.
Il “tappo tunisino” è saltato, complice la grave crisi economica e sociale, ma non del tutto: i flussi verso l’Italia sono passati dalla Libia, dove gli scafisti hanno le mani più libere. In Tunisia, invece, la lotta ai signori dei barconi sembra continuare a funzionare: i dati del Forum tunisino per i diritti economici e sociali, nel 2022 la guardia costiera alle dipendenze di Tunisi ha intercettato e bloccato oltre 38mila migranti. Anche con metodi violenti: sempre secondo il Forum, molti interventi della guardia costiera hanno portato a tragedie in mare, con barconi affondati e centinaia di vittime. Ora, questo zelante contrasto agli scafisti potrebbe venire meno. Facendo aumentare ancora di più i flussi. Ecco perché Meloni è preoccupata. E vuole aiutare Tunisi a tenere alto il muro anti-migranti. Anche se “aiutarli a casa loro” vorrebbe dire portare l’austerity”.
In prima linea per sostenere un sovranista xenofobo
Scrive Pierre Haski, direttore di France Inter, in un articolo tradotto e pubblicato in Italia da Internazionale: “Quando il 25 luglio 2021 il presidente tunisino Kais Saied ha sospeso l’attività delle istituzioni prendendosi i pieni poteri, ha voluto citare una battuta del generale De Gaulle per rispondere a chi lo criticava: “Alla mia età non comincerò certo una carriera da dittatore”. Tuttavia, dopo gli eventi degli ultimi giorni, quella frase appare sempre meno credibile.
Il capo di stato tunisino sembra aver scelto di riallacciarsi alla tradizione autoritaria del paese, ma soprattutto ha fatto sprofondare la Tunisia in un incubo razzista consegnando alla rabbia popolare gli immigrati provenienti dall’Africa subsahariana. Scene di caccia all’uomo si sono verificate nella grande città di Sfax. Molti migranti, ora, si nascondono per la paura.
Utilizzando parole molto dure, l’Unione africana ha denunciato le “dichiarazioni sconvolgenti” di Saied.
La settimana scorsa il presidente tunisino aveva affermato che “l’immigrazione clandestina fa parte di un complotto per modificare la demografia della Tunisia affinché venga considerata come un paese solo africano, e non più anche arabo e musulmano”. Si tratta di una versione tunisina della teoria della “grande sostituzione” portata avanti dall’estrema destra francese.
In questo senso non stupisce che Saied abbia ricevuto su Twitter il sostegno di Éric Zemmour, ex candidato alla presidenza francese e paladino di questa tesi.
I migranti neri sono diventati capri espiatori per una crisi economica e sociale devastante. Sui social network tunisini circolano cifre inverosimili: nel paese vivrebbero fino a due milioni di migranti subsahariani irregolari, a fronte di una popolazione di 13 milioni di abitanti. I dati delle organizzazioni specializzate parlano invece di circa 250mila immigrati, ovvero una percentuale molto bassa rispetto alla popolazione.
Ma il punto fondamentale è un altro, e risiede nella trasformazione dei migranti neri in capri espiatori per una crisi economica e sociale devastante. Da mesi i social network sono pieni di attacchi contro i migranti, con pretesti sempre diversi. La novità è che ora le tesi diffuse dalle frange marginali del web sono sostenute anche ai più alti livelli dello stato…”.
C’è un autocrate razzista a Tunisi. Sostenuto dai sovranisti a Roma. Quelli che rigettano una Mare Nostrum europea.
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