Ora hanno scoperto che la violenza non è mai scomparsa in Terrasanta. Che sotto le ceneri di un improbabile status quo pacificante covava il fuoco di un odio che viene da lontano e che è cresciuto non soltanto tra i palestinesi nei Territori occupati ma anche tra gli arabi israeliani, come Globalist ha documentato nel corso di questi anni. Ora le dichiarazioni di solidarietà e di condanna si sprecano. Ma nessuno si chiede da cosa nasce la rabbia, il desiderio di vendetta, che porta a compiere gesti esecrabili come quello che è costato la vita al turista italiano e il ferimento di altre sette persone, tra cui due nostri connazionali. Conoscere non significa giustificare. Ma la lunga scia di sangue che segna Israele e la Palestina non può essere compresa se si resta in superficie. Se non si comprende che gli opposti si riconoscono e si legittimano reciprocamente, perché conoscono e praticano soltanto un linguaggio: quello della forza. Perché combattersi è più facile, sì più facile, che ricercare un compromesso e riconoscere le ragioni dell’altro da sé. Ai falchi israeliani servono Hamas, la Jihad islamica perché giustificano il pugno di ferro, l’occupazione. E i falchi israeliani sono utili all’estremismo palestinese, e ai suoi sponsor esterni, per cavalcare il mito della resistenza all’”entità sionista” e per mascherare (Hamas) il suo fallimento nel governare Gaza.
Era un arabo israeliano l’assassino di Alessandro Parini, 35 anni, romano, persona gentile e curiosa del mondo, la cui unica “colpa” era di essersi trovato a passeggiare sul lungomare di Tel Aviv al momento sbagliato.
Aveva 44 anni e si chiamava Yousef Abu Jaber, il presunto attentatore. Lo scrive il quotidiano israeliano Haaretz, precisando che l’uomo, ucciso da un agente di polizia, non aveva precedenti con la giustizia. Secondo quanto riporta il sito Maariv, il sospetto terrorista era un arabo-israeliano residente a Kfar Kassem. Abu Jaber non era affiliato ad alcun gruppo terroristico, ma era stato arrestato per rissa nel 2017, scrive il sito di Haaretz, precisando che nella notte la polizia e lo Shin Bet hanno perquisito la casa di Abu Jaber e interrogato alcuni suoi familiari.
”Purtroppo – osserva in una intervista all’Adnkronos don Gabriel Romanelli, parroco della Striscia di Gaza, parlando dell’attentato terroristico sul lungomare di Tel Aviv dove è morto un italiano – la violenza qui è abituale e ogni atto di violenza fa male; non è però abituale che vengano colpiti stranieri. E’ stato ucciso un italiano, feriti altri turisti che non erano residenti della Terra Santa, un fatto che non rispecchia la realtà di tutta la Terra Santa”.
Padre Romanelli chiede con forza di cambiare registro: ”Deve diminuire la carica esplosiva delle dichiarazioni”. Che cosa cambierà alla luce di questo nuovo attentato? ”La realtà – osserva il parroco di Gaza – è molto complessa, anche all’interno della realtà israeliana, non è un segreto. C’è molto malcontento. In questo periodo ci sono tante persone, Gerusalemme è gremita di pellegrini e turisti. Ora che accadrà? Dipenderà anche dalle forze politiche, non solo dai servizi di sicurezza che forse non potranno fare tanto se non si diminuisce la carica esplosiva delle dichiarazioni”.
L’episodio ha riacceso immediatamente la tensione già alta in questi giorni e il premier Benjamin Netanyahu ha richiamato altri riservisti dopo quelli dell’aviazione. La zona dove è avvenuta l’attentato è molto frequentata da turisti, affluiti in gran numero durante le festività pasquali. Hamas e la Jihad islamica non hanno mancato di manifestare la loro soddisfazione per l’attacco definito “un’operazione di alto livello”.
Come sempre, Hamas e la Jihad islamica provano a mettere il cappello su un atto sanguinoso che racconta un’altra storia: quella del terrorismo fai da te, il terrorismo dei lupi solitari, che per dare e darsi morte bastano una macchina o un coltello, una pistola, non sono certo le ari che scarseggiano da quelle parti.
La storia si ripete. Dopo aver colpito a Gaza e in Libano, il richiamo dei riservisti e il rafforzamento delle truppe nei Territori è un chiaro messaggio ad Hamas, Hezbollah e Iran. La tensione, già alle stelle, è stata aggravata dall’altro attentato palestinese in Cisgiordania, con l’uccisione di due giovani sorelle (21 e 16 anni) e il grave ferimento della madre (48 anni). Anche a Gerusalemme, sulla Spianata delle Moschee, la situazione sembra appesa a un filo, pur in mancanza per il momento di gravi incidenti, con la polizia che continua a presidiare in forze il luogo. Dopo la pioggia di razzi lanciati da Gaza (uno dei 44 è caduto su una casa pur senza provocare vittime) e dalle fazioni palestinesi legate ad Hamas dal sud del Paese dei Cedri, Israele ha risposto nella notte colpendo tre siti in Libano e oltre dieci nella Striscia, compresi due tunnel e varie postazioni della fazione armata. L’esercito libanese ha annunciato invece di aver smantellato una rampa di lancio in un campo agricolo nel sud. La risposta di Israele sembra al momento fermarsi qui e – secondo analisti – appare circoscritta, tenendo conto della forte pressione internazionale per spegnere l’incendio, a partire da Mosca, e l’opposizione del mondo arabo ad Israele. L’attentato palestinese è stato compiuto sulla strada 57 nel nord della valle del Giordano in Cisgiordania, vicino allo svincolo di Hamra. Le due vittime (secondo alcuni rapporti, anche di nazionalità britannica) viaggiavano insieme alla madre – tutte dell’insediamento ebraico di Efrat, vicino Betlemme – sulla stessa auto che è stata crivellata da colpi d’arma da fuoco da un altro veicolo, finendo poi fuori strada. L’attentatore palestinese si è dato alla fuga ed ora è ricercato dalle forze di sicurezza. “Le nostre forze sono adesso impegnate nella caccia ai terroristi. E’ solo questione di tempo, non molto tempo, e salderemo il conto”, ha detto Netanyahu in visita sul luogo dell’attentato per la prima volta pubblicamente con il ministro della Difesa Yoav Gallant, il cui licenziamento è stato congelato.
E’ un copione, un tragico copione, già visto e recitato innumerevoli volti in decenni di guerra, terrore e pugno di ferro. Una situazione d’emergenza che Netanyahu sa cogliere e gestire come nessun altro politico israeliano è stato ed è in grado di fare.
Bilancio di 100 giorni
I terroristi fanno il suo gioco. E stornano l’attenzione, interna e internazionale, dalla rivolta antigovernativa agli attacchi che colpiscono civili innocenti.
Scrive Alon Pinkas, storica firma di Haaretz: È una ‘bella’ Passover quella che ci ha portato il 2023. Una Pasqua avvelenata. Israele è coinvolto in una guerra civile sulla sua stessa identità, si sta dirigendo verso una colossale crisi costituzionale a maggio o giugno, sta soffrendo per la sicurezza con il Libano, Gaza e Gerusalemme Est, e il primo ministro non è stato invitato a Washington dal presidente Joe Biden dopo essere stato umiliato in quattro grandi capitali europee.
Questo straordinario risultato è stato raggiunto in soli 100 giorni. Questo è ciò che fanno i leader in una cosiddetta kakistocrazia, il governo delle persone peggiori. Il concetto dei primi 100 giorni affonda le sue radici in Francia, dove il cent jours si riferisce al periodo del 1815 tra il ritorno di Napoleone dall’esilio all’Elba e la sua sconfitta a Waterloo, con la dinastia dei Borbone che reclamò il trono sotto Luigi XVIII.
Il secondo riferimento, più popolare – almeno per gli americani – è il principio secondo cui ciò che non si riesce a realizzare nei primi 100 giorni probabilmente non si realizzerà mai. Si riferisce alla rapida azione di Franklin D. Roosevelt contro la Grande Depressione nel 1933. Al suono delle sue chiacchierate al caminetto, egli placò il panico finanziario con il suo Emergency Banking Act e altri programmi del New Deal, tra cui 15 importanti atti legislativi nei primi 100 giorni.
Benjamin Netanyahu potrebbe aver pensato che i 100 giorni di FDR si applicassero a lui. Invece è più un tipo da Napoleone.
In Israele, la convergenza di tutti i processi e gli eventi non poteva accadere a un governo più profondamente inetto, disfunzionale, antidemocratico, estremista e disorientato di quello che Netanyahu guida e incarna. Ma, come nel caso delle kakistocrazie, tutto questo era prevedibile, la scritta era evidente da mesi ma è stata convenientemente ignorata. Al di là dei danni economici, diplomatici e sociali che la legislazione antidemocratica a regime del governo sta causando, era questione di tempo prima che il fronte della sicurezza si deteriorasse.
In questo caso sono in gioco due fattori: Più la crisi interna è o viene percepita come divisiva, più la deterrenza viene erosa e si instaura una percezione generale di debolezza. In secondo luogo, più le vostre politiche in Cisgiordania sono incendiarie, più forti saranno le reazioni.
Per molti anni, Netanyahu si è vantato del suo acume geopolitico e della sua durezza in materia di sicurezza. Se lui, i suoi leccapiedi o i media abbiano esagerato la sua reputazione è irrilevante in questo momento. Ciò che è chiaro è che tutto si sta sgretolando.
In 100 giorni, la realtà strategica che Netanyahu ha causato è la seguente:
* Le relazioni con gli Stati Uniti si sono inasprite in modo significativo.
* L’Iran ha accumulato più materiale fissile e livelli quasi militari di uranio arricchito di quanto non abbia mai fatto, sicuramente dopo l’accordo nucleare del 2015 a cui Netanyahu si è opposto a gran voce, prima di incoraggiare la sua anima gemella Donald Trump a ritirarsi da esso nel 2018.
* L’Iran fornisce armi a un’altra anima gemella di Netanyahu, Vladimir Putin, e ha recentemente ristabilito relazioni diplomatiche con l’Arabia Saudita grazie alla mediazione cinese. Netanyahu considerava l’Arabia Saudita un’alta priorità per gli esteri e la difesa e proclamava che stringere legami con Riyadh era uno dei suoi tre obiettivi principali. Ma questo è avvenuto molto tempo fa, 100 giorni fa.
* L’Iran è anche dietro il nesso Hezbollah-Hamas, che impegna Israele su due fronti allo stesso tempo e potenzialmente in Cisgiordania su un terzo.
Non è certo tutta colpa di Netanyahu, ma non si può escludere che se non si fosse opposto all’accordo con l’Iran, esortando poi gli Stati Uniti a ritirarsi da esso senza alcun piano B, le cose sarebbero potute andare diversamente. Lo stesso si può dire delle sue bizze legislative antidemocratiche.
La nomina di piromani messianici come “ministro della sicurezza nazionale” (Itamar Ben-Gvir) e “ministro delle finanze e ministro della Difesa” (Bezalel Smotrich), prima di licenziare insensibilmente il ministro della Difesa Yoav Gallant, senza mai dare seguito al suo operato o revocare il licenziamento.
Una crisi politico-costituzionale in cui centinaia di migliaia di israeliani protestano ogni settimana contro la legislazione autoritaria di Netanyahu, un ambiente di sicurezza sempre più instabile in Libano, a Gaza e a Gerusalemme Est, un Iran rafforzato, un’America disillusa e risentita e le difficoltà legali di Netanyahu costituiscono una tempesta perfetta.
Nessuna forma di governo è meno attrezzata di una kakistocrazia per affrontare crisi multiple e nessun primo ministro è meno capace di Netanyahu di gestire una situazione del genere. Si tratta di ferite autoinflitte a Israele come nazione e marchio: diplomaticamente, politicamente, socialmente, economicamente e ora nel campo della sicurezza – un auto-sabotaggio su scala storica.
È reversibile e riparabile, ma per questo Netanyahu dovrà essere rimosso dall’equazione”.
L’articolo è precedente l’attentato che è costato la vita al nostro connazionale. Ma il quadro entro cui è avvenuto è quello ben descritto da Pinkas.
Israele, ha titolato nei giorni scorsi Globalist è guidato da un “piromane” – Benjamin Netanyahu – che pur di restare al potere è pronto a dare fuoco alla polveriera mediorientale. Ci conforta in questa lettura l’editoriale di Haaretz, un giornale dalla schiena dritta: “Mercoledì sera, mentre la maggior parte degli israeliani sedeva intorno al tavolo del seder, le forze di polizia hanno fatto nuovamente irruzione nella Moschea di Al-Aqsa e hanno usato granate stordenti, proiettili di schiuma e manganelli. Questa operazione, come quella che l’ha preceduta martedì sera, non solo ha interrotto la routine del Ramadan di centinaia di migliaia di palestinesi a Gerusalemme, ma ha anche diminuito immediatamente la sicurezza di tutti gli israeliani. In risposta a queste azioni, mercoledì sera sono stati lanciati due razzi dalla Striscia di Gaza e giovedì sono stati lanciati razzi dal Libano verso il nord di Israele. La catena di eventi che ha portato all’irruzione della polizia nella moschea è iniziata con la provocazione di un piccolo gruppo di attivisti di estrema destra che hanno cercato di sacrificare una capra per la Pasqua ebraica sul Monte del Tempio. La polizia sostiene di aver impedito agli attivisti di avvicinarsi al sito e che in ogni caso non sarà loro permesso di disturbare il culto musulmano durante il mese di Ramadan. Tuttavia, il timore dei palestinesi di subire danni al loro luogo sacro, soprattutto durante il Ramadan, è comprensibile: Negli ultimi anni, la polizia ha permesso agli ebrei di pregare sul Monte del Tempio nonostante lo status quo; inoltre, i più importanti attivisti del Monte del Tempio e del “Terzo Tempio” sono una componente chiave della coalizione di governo del Primo Ministro Benjamin Netanyahu.
Itamar Ben-Gvir, membro integrante dei movimenti più estremi e avvocato dei partecipanti ai sacrifici animali del passato, è ora responsabile della sicurezza sul Monte del Tempio. La linea di demarcazione tra gli attivisti del Tempio e il governo israeliano non è mai stata così labile. I funzionari di polizia sostengono che il raid di Al-Aqsa era inevitabile, dopo che centinaia di giovani si erano barricati all’interno della moschea con pietre e fuochi d’artificio. Questa affermazione, tuttavia, deve essere esaminata. La stragrande maggioranza dei musulmani che si recano ad Al-Aqsa lo fa per pregare, non per fare a botte. Se solo avessero la volontà necessaria, la polizia e il governo avrebbero trovato molti elementi moderati nel Waqf di Gerusalemme e in Giordania, e il dialogo con loro avrebbe permesso di evitare l’uso della forza. Continuare con l’attuale politica rischia di scatenare un’ondata di violenza e un’altra serie di scontri come quelli del maggio 2021. Gli eventi sul Monte del Tempio e le onde d’urto nel sud e nel nord sono parte del prezzo che paghiamo per la coalizione irresponsabile che Netanyahu ha creato. I piromani che compongono questa coalizione potrebbero trascinare Israele in un pericoloso conflitto su larga scala. Saranno loro a portare la responsabilità delle sue conseguenze”.
Quel conflitto è iniziato. E il terrorismo ne è una componente.
Ma questo il premier più longevo nella storia d’Israele lo sa bene.
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