Non c’è pace per il martoriato Sudan. Da un colpo di Stato all’altro. Gli alleati di ieri sono i nemici di oggi. Una escalation con l’uso di armi pesanti, carri armati e raid aerei, nello scontro fra paramilitari ed esercito guidati rispettivamente dai due generali del colpo di Stato del 2021.
I paramilitari delle Forze di sostegno rapido (Rsf) del generale Mohamed Hamdane “Hemedti” Daglo hanno dichiarato che l’esercito regolare è entrato nei loro campi, nella parte sud di Khartoum, e hanno circondato i loro uomini. L’esercito ha “lanciato un attacco a tappeto con tutti i tipi di armi pesanti e leggere”. A metà giornata è stata udita un’enorme esplosione, con l’aviazione militare che sostiene di aver distrutto con aerei da guerra un campo dei paramilitari nella regione orientale del Nilo. D’altro canto i paramilitari affermano di aver preso il controllo dell’aeroporto di Khartoum.
Forti esplosioni sono state udite anche a Khartoum 2, la zona della capitale dove ha sede l’ambasciata d’Italia.
Il braccio di ferro tra i due generali al potere
Di grande interesse è il quadro tratteggiato da un report di Agenzia Nova: “Da settimane si stanno acuendo le rivalità tra le due fazioni al potere. Mercoledì scorso l’esercito aveva denunciato il dispiegamento di forze della Rsf nella città di Marawi (o Merowe), vicino a una base aerea dell’esercito nello Stato settentrionale (Northern State), senza un adeguato coordinamento con le forze armate regolari.
Il generale “Hemedti” Dagalo, comandante delle Rsf e vicepresidente del Consiglio sovrano, aveva pubblicamente respinto atti compiuti il 25 ottobre scorso dal presidente dello stesso Consiglio e comandante in capo dell’esercito, il tenente generale Abdel-Fattah al-Burhan, definendoli un “colpo di Stato”. Di recente erano emerse divergenze anche sul processo politico per una transizione alla democrazia basato sull’accordo-quadro firmato il 5 dicembre scorso, in particolare sulle questioni della sicurezza e della riforma militare. Dagalo sarebbe legato al deposto presidente al-Bashir, mentre al-Burhan godrebbe del favore della Cina, largamente presente nell’economia e nelle infrastrutture del Paese.
I leader dell’esercito sudanese vorrebbero infatti integrare rapidamente le Rsf nei propri ranghi, mentre Dagalo vorrebbe un calendario con scadenze fino a dieci anni. L’Rsf vorrebbe essere sottoposta a una guida civile, riforma che l’esercito rifiuta, e chiede la rimozione di tutti gli elementi dei Fratelli Musulmani dalle forze armate come prerequisito per la riforma.
Il Sudan avrebbe dovuto passare a un governo civile dopo la cacciata nel 2019 dell’autocrate Omar al-Bashir, ma il processo di transizione è stato fermato dal golpe del 25 ottobre 2021, organizzato dal generale al-Burhan. Un secondo tentativo di ripristino dell’esecutivo a guida civile è bloccato dalle tensioni tra Rsf e forze armate. La firma di un accordo finale per passare a un governo civile era prevista per il 1° aprile scorso.
Il segretario di Stato americano, Antony Blinken, ha detto che la situazione in Sudan è “fragile” anche perché attori esterni “potrebbero star ostacolando il progresso” verso un governo civile. Il riferimento potrebbe essere alla Cina, molto presente nel Paese economicamente e nella costruzione di infrastrutture.
L’ambasciatore americano in Sudan, John Godfrey, ha scritto sui social che insieme al personale dell’ambasciata “sono rimasti chiusi in casa” mentre si udivano pesanti colpi di armi da fuoco in diverse zone della capitale. Godfrey ha denunciato che l’escalation “è estremamente pericolosa” e ha invitato la leadership delle fazioni in lotta a fermare gli scontri.
Anche l’ambasciata russa ha espresso preoccupazione e invitato le parti a un cessate il fuoco.
L’uomo di Mosca
Di grande interesse è il report di agenzia Nova: “Dopo giorni di fortissime tensioni, sembra essere precipitata la situazione in Sudan. Le Forze di supporto rapido (Rsf), le milizie paramilitari guidate dal generale Mohamed Hamdan “Hemeti” Dagalo, hanno infatti rivendicato la presa del Palazzo presidenziale di Khartum, della sede della televisione nazionale e dei principali scali aeroportuali del Paese, tra cui quello della capitale. Proprio Dagalo, uomo vicino a sauditi e russi e considerato il vero “uomo forte” del Paese dopo la destituzione del presidente Omar al Bashir, è il principale artefice di quanto sta accadendo. Proveniente da un clan arabo ciadiano della tribù Rizeigat, originaria del Darfur, allo scoppio della guerra nel Darfur, nel 2003, Dagalo assunse il comando delle famigerate milizie Janjaweed (“demoni a cavallo”), che si resero responsabili di efferati crimini di guerra e contro l’umanità, e divenne capo delle Rsf dal 2013, anno in cui furono istituite nell’ambito di una ristrutturazione delle ex milizie Janjaweed. Inquadrate sotto il comando del Servizio nazionale di intelligence e sicurezza (Niss), le Rsf dispongono attualmente di oltre 100 mila uomini schierati nelle basi di tutto il Paese, impiegati ufficialmente per il contrasto delle attività di contrabbando e di traffico di esseri umani al confine con la Libia.
In realtà, i poteri delle milizie di Dagalo e dei suoi uomini vanno ben oltre tali mansioni. Nel novembre 2017, ad esempio, Dagalo ha utilizzato i suoi uomini per assumere il controllo delle miniere d’oro nella regione del Darfur, cosa che lo ha portato a diventare una delle persone più ricche del Sudan. Suo fratello Abdul Rahim, numero due delle Rsf, dirige la società Al Junaid (o Al Gunade), coinvolta nell’estrazione e nel commercio dell’oro in Sudan. Le milizie paramilitari fedeli a Dagalo sono inoltre responsabili della cruenta repressione delle proteste scoppiate prima della deposizione di Bashir, avvenuta nell’aprile 2019, e in seguito dopo il golpe dell’ottobre 2021 per chiedere il ripristino di un governo a guida civile.
Nel 2015 fu lo stesso Dagalo a inviare – d’accordo con l’esercito sudanese – i suoi uomini in Yemen per combattere al fianco della coalizione a guida saudita, scelta che gli consentì di stringere legami molto stretti con le potenze del Golfo. L’altro alleato di ferro di Dagalo è la Russia, in particolare il gruppo paramilitare Wagner. Nel marzo 2022 l’incaricato d’affari degli Stati Uniti a Khartum e gli inviati del Regno Unito e della Norvegia – componenti della cosiddetta Troika per il Sudan – hanno condannato duramente e apertamente la presenza e le operazioni del gruppo Wagner in Sudan, principalmente legate alla disinformazione e all’estrazione illegale di oro (direttamente controllata da Dagalo e dalla sua famiglia). Vale la pena di ricordare, ancora, che lo stesso “Hemeti” si trovava Mosca nel giorno dell’invasione russa dell’Ucraina, il 24 febbraio, per discutere con le autorità sudanesi del progetto di costruzione di una base militare russa che dovrebbe sorgere a Port Sudan, sul mar Rosso.
Pur avendo preso parte al colpo di Stato dell’ottobre 2021, che sancì la fine del governo di transizione a guida civile di Abdallah Hamdok, da allora ne ha preso le distanze e nel febbraio scorso lo ha definito un “errore”. Una dichiarazione che aveva evidenziato una crescente spaccatura tra lui e il capo del Consiglio sovrano di transizione, nonché capo dell’esercito, Abdel Fattah al Burhan. Le divergenze, ormai degenerate in scontro aperto, erano ben evidenti già da diverse settimane, soprattutto in relazione alla gestione della sicurezza nel Paese in vista della formazione di un governo civile. Il tasto dolente, in particolare, è quello relativo all’integrazione delle Rsf nell’esercito regolare. In base alla tempistica dettata nei precedenti accordi le parti avrebbero dovuto annunciare l’11 aprile un nuovo primo ministro ed altri membri del futuro governo civile, e prima ancora firmare un’intesa finale per la transizione fra l’1 e il 6 aprile. Ora la situazione sembra essere del tutto precipitata e l’ombra di un nuovo golpe – questa volta orchestrato in prima persona da Dagalo – si fa sempre più concreta, con prospettive estremamente incerte in un Paese strategico per lo scacchiere geopolitico internazionale”.
Annota Leonardo Sgura, corrispondente Rai dal Cairo: “Questo tentativo di golpe spezza un accordo raggiunto pochi giorni fa per costituire un esecutivo civile di transizione verso le elezioni e porre così fine al golpe dell’ottobre 2021, quando i militari rovesciarono il primo governo transitorio nato dopo la caduta di Bashir.
Lo scontro è sugli equilibri di potere che nasceranno con l’integrazione dei paramilitari nell’esercito regolare. Dagalo non accetta infatti ruoli di secondo piano. Ora vuole il controllo totale e dice: “assicureremo al bhuran alla giustizia”, promettendo che nel giro di alcuni giorni si decideranno le sorti del Sudan.
Le parti civili sudanesi chiedono di fermare subito i combattimenti. Onu, Europa, Russia e Stati uniti auspicano un immediato cessate il fuoco. Il ministro degli esteri Tajani chiede di porre fine alle violenze e invita gli italiani presenti nel paese alla massima prudenza.
Si stima che la Rsf di Dagalo conti su circa centomila uomini, e questo lascia prevedere tempi lunghi per la soluzione del conflitto, a meno che la diplomazia non riesca a trovare una strada per rimettere subito le due fazioni al tavolo del negoziato.
Il Sudan è uno degli Stati più poveri del mondo e fronteggia da anni una gravissima crisi economica, resa ancora più difficile dal fatto che il paese non riesce ad accedere ad aiuti internazionali per via di un sistema economico chiuso alle regole di mercato e controllato, in buona parte, proprio dai militari”.
Allarme internazionale
L’inviato delle Nazioni Unite in Sudan, Volker Perthes, ha invitato soldati e paramilitari a cessare “immediatamente” i combattimenti a Khartoum e altrove nel Paese. “Perthes ha contattato entrambe le parti per richiedere l’immediata cessazione delle ostilità per la sicurezza del popolo sudanese e per risparmiare al Paese ulteriori violenze”, si legge in una dichiarazione della missione delle Nazioni Unite in Sudan.
Da New York a Bruxelles. “Notizie allarmanti sui combattimenti in Sudan. L’Ue invita tutte le forze a fermare immediatamente la violenza. Un’escalation non farà che aggravare la situazione. La protezione dei cittadini è una priorità. Tutto il personale dell’Ue presente nel Paese è al sicuro”. Lo scrive su twitter l’Alto Rappresentante per la politica estera Ue Josep Borrell.
“Seguo con attenzione quanto sta succedendo a Khartoum. La nostra Ambasciata, pienamente operativa, ha avvisato i connazionali di restare in casa. L’Unità di Crisi monitora gli sviluppi. Appello al dialogo e a cessare le violenze”. Lo scrive su Twitter il ministro degli Esteri, Antonio Tajani, a proposito degli scontri registrati nella capitale sudanese. “In collegamento telefonico da Tokyo con il nostro ambasciatore in Sudan seguo gli sviluppi a Khartoum. La situazione resta tesa ma gli italiani presenti stanno bene e in stretto collegamento con la nostra ambasciata. Il nostro invito è quello di non abbandonare le proprie abitazioni”, ha poi scritto il ministro in un nuovo tweet.
La testimonianza di Emergency
“Questa mattina ci siamo svegliati con gli scontri tra militari e paramilitari. Nonostante il nostro ospedale di cardiochirurgia si trovi a una decina di chilometri dal luogo degli scontri a Khartoum, abbiamo sentito dei boati molto, molto forti, probabilmente di artiglieria pesante. Poi hanno iniziato a inseguirsi informazioni su cosa accade in città”. Lo racconta all’Adnkronos dalla capitale sudanese Muhameda Tulumovic, direttrice del programma di Emergency in Sudan, spiegando che a far scoppiare le violenze sarebbe stato un presunto attacco a un quartier generale dei paramilitari delle Forze di supporto rapido (Rsf).
Secondo la country manager di Emergency, la situazione a Khartoum è “molto tesa” dal momento che “si sta combattendo in quasi tutti i quartieri” e ciò ha costretto a “ridurre le attività dell’ospedale di cardiochirurgia” nella capitale, che ora si occupa solo dei casi gravi a causa delle difficoltà del personale a raggiungere il posto di lavoro. Le forze paramilitari – conferma – hanno preso il controllo dell’aeroporto e del palazzo presidenziale.
“Abbiamo anche informazioni sul fatto che il capo delle Rsf (il generale Mohamed Hamdan ‘Hemedti’ Dagalo, ndr) abbia dichiarato che non si fermerà finché non riuscirà a portare la democrazia nel Paese” e ad estromettere dal potere il comandante delle forze regolari, il generale Abdel Fattah al-Burhan, puntualizza.
Tulumovic evidenzia quindi che la situazione è “abbastanza difficile” anche in altri Stati del Sudan. “Noi abbiamo una clinica pediatrica a Nyala, nel Sud Darfur, che ha già ricevuto i primi due casi: si stanno sparando anche lì per il controllo dell’aeroporto – afferma – Più tranquilla è invece la situazione a Port Sudan, dove si trova un altro nostro ospedale”.
La direttrice di Emergency precisa ora di trovarsi al sicuro insieme ai nostri connazionali che lavorano per l’organizzazione proprio all’interno dell’ospedale di cardiochirurgia di Khartoum, che è situato in una zona “più tranquilla”. Emergency conta in Sudan una cinquantina di operatori, 40 dei quali italiani e la maggior parte concentrata nella capitale. “Per il momento non si parla di evacuazione anche perché l’aeroporto è chiuso e si presume lo abbiano colpito”, aggiunge Tulumovic, sottolineando che la situazione nel Paese si era ulteriormente “scaldata” dopo la mancata concretizzazione ai primi di aprile dell’accordo che avrebbe dovuto portare il Sudan sotto un governo di civili. “Lì si è capito che la situazione sarebbe montata – conclude – sapevamo sarebbe successo qualcosa ma non in questi termini”.