A Singapore un uomo di 46 anni, Tangaraju Suppiah, è stato prima condannato a morte e poi ucciso tramite impiccagione per «favoreggiamento nel traffico di più di un chilogrammo (per la precisione, 1.017,9 grammi) di cannabis».
La notizia della morte di Suppiah ha innescato una dura reazione da parte di diverse organizzazioni per i diritti civili che chiedevano da tempo un alleggerimento della sentenza a carico dell’uomo, in un frangente in cui altri Paesi asiatici hanno adottato un approccio meno drastico nei confronti dei reati legati alle droghe leggere. Le leggi in vigore a Singapore contro i reati di droga sono tra le più rigide al mondo. L’esecuzione di oggi è la prima a Singapore da circa sei mesi a questa parte.
Le organizzazioni a favore dei diritti umani definiscono come «scandalosa e inaccettabile» l’esecuzione. Phil Robertson, direttore per l’Asia di Human Rights Watch (HRW), ha espresso la sua preoccupazione: «l’uso continuo da parte di Singapore della pena di morte per il possesso di droga è un oltraggio ai diritti umani che fa sì che gran parte del mondo si chieda se l’immagine di Singapore moderna e civile sia solo un miraggio».
Il direttore regionale aggiunto di Amnesty International (AI), Ming Yu Hah, in un comunicato sottolinea che «questa esecuzione dimostra l’assoluto fallimento dell’ostinata adozione della pena di morte».