Apocalisse Sudan: testimonianze dall'inferno
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Apocalisse Sudan: testimonianze dall'inferno

Apocalisse Sudan. Dopo lo Yemen, dopo la Siria – tragedie umanitarie tuttora in corso – si è aperto un altro fronte devastante sul piano umanitario, oltre che geopolitico e militare.

Apocalisse Sudan: testimonianze dall'inferno
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Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

27 Aprile 2023 - 14.17


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Apocalisse Sudan. Dopo lo Yemen, dopo la Siria – tragedie umanitarie tuttora in corso – si è aperto un altro fronte devastante sul piano umanitario, oltre che geopolitico e militare.

L’allarme Onu

“L’Alto Commissario Onu per i Rifugiati, Filippo Grandi, è molto preoccupato per il fatto che il brutale conflitto in corso in Sudan sta costringendo decine di migliaia di persone ad abbandonare le proprie case in cerca di sicurezza sia all’interno del Paese che oltre i suoi confini. I bisogni umanitari in Sudan erano già enormi prima dell’attuale ondata di violenza, compresi quelli dei 3,7 milioni di sfollati interni. Il loro numero sta rapidamente aumentando, anche se non sono ancora disponibili statistiche.


Almeno 20.000 rifugiati sudanesi sono fuggiti in Ciad, un Paese con risorse limitate che ospitava già 600.000 rifugiati. I nuovi arrivati provengono dal Darfur, una delle regioni del Sudan più colpite dalle violenze e dove la crescente instabilità potrebbe causare spostamenti molto più consistenti nelle prossime settimane.
Altri hanno attraversato l’Egitto. L’Unhcr sta discutendo con il governo egiziano per garantire che le persone bisognose di protezione internazionale siano adeguatamente accolte e seguite.
Almeno 4.000 rifugiati sud sudanesi – parte degli 1,1 milioni di rifugiati provenienti dai Paesi limitrofi attualmente ospitati dal Sudan – sono stati costretti a tornare prematuramente a casa in condizioni di profonda incertezza. A loro probabilmente ne seguiranno altri.


L’Alto Commissario fa appello a tutti i Paesi confinanti con il Sudan affinché mantengano le frontiere aperte alle persone in cerca di sicurezza e protezione. L’Unhcr sta intensificando il suo sostegno ai governi di questi Paesi per prepararsi ad accogliere un numero maggiore di arrivi.


L’Alto Commissario desidera fare eco ai ripetuti appelli del Segretario generale delle Nazioni Unite affinché le ostilità cessino immediatamente e tutte le parti intraprendano significativi sforzi di pace. Questo è urgentemente necessario anche per prevenire un’altra grave crisi con esodi forzati che potrebbe destabilizzare ulteriormente una regione fragile.


Nel frattempo, l’Unhcr, insieme al resto delle Nazioni Unite, rimane in Sudan a sostegno della sua popolazione. Continua a operare ovunque abbia accesso sicuro appoggiandosi anche ad alcune delle reti comunitarie costituite durante la pandemia. L’Unhcr intende aumentare le operazioni ovunque in Sudan il prima possibile. Infine, ma non per questo meno importante, l’Alto Commissario invita la comunità internazionale a fornire urgentemente risorse adeguate per sostenere gli sforzi dell’Unhcr. Le risposte ai rifugiati nei Paesi della regione sono state a lungo estremamente sotto finanziate. Dobbiamo affrontare con urgenza i bisogni dei rifugiati, dei Paesi e delle comunità ospitanti, soprattutto perché sempre più persone cercano sicurezza. Una vera e propria catastrofe può essere evitata, ma il tempo stringe”.

L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha reso noto che i combattenti nel Sudan devastato dal conflitto hanno occupato un laboratorio pubblico centrale che contiene campioni di malattie, tra cui la polio e il morbillo, creando una situazione “estremamente, estremamente pericolosa”.

“C’è un enorme rischio biologico associato all’occupazione del laboratorio centrale di sanità pubblica…di una delle parti in guerra”, ha dichiarato Nima Saeed Abid, rappresentante dell’Oms in Sudan, ai giornalisti a Ginevra in collegamento video.

A causa del conflitto in Sudan, chiuso oltre il 60 per cento delle strutture sanitarie a Khartoum. E’ sempre l’Organizzazione mondiale della sanità a renderlo noto: “Nella capitale, Khartoum, il 61 per cento delle strutture sanitarie sono chiuse e soltanto il 16 per cento è operativo ai livelli normali” ha detto il capo dell’Oms, Tedros Adhanom Ghebreyesus, in una conferenza stampa.

“Il bilancio delle vittime, dall’inizio degli scontri” fra esercito e paramilitari in Sudan il 15 aprile, “è salito a 295 civili morti e a 1.790 casi di civili feriti”: lo riferisce su Facebook il Sindacato dei medici sudanesi (Ccsd) avvertendo che “ci sono moltissimi feriti e morti che non sono inclusi in questo bilancio” dato che non è stato possibile trasportare negli ospedali persone ferite e salme “a causa delle difficoltà di movimento e della situazione della sicurezza nel Paese”. Un tragico bilancio destinato a crescere.

La parola resta alle armi

“Non vi sono segnali che indichino che le forze militari che si combattono in Sudan siano disposte a negoziare tra loro”. A dichiararlo è stato l’inviato speciale delle  Nazioni Unite per il Sudan, Volker Perthes, mentre i combattimenti continuano nonostante un cessate il fuoco di tre giorni.      

Intervenendo da Port Sudan ad una riunione di emergenza del Consiglio di sicurezza dell’Onu Perthes ha osservato che le due parti in conflitto appaiono convinte di potersi “assicurare una vittoria militare sull’altra” e nessuna delle due sembra “pronta a negoziare seriamente”.       

L’inviato ha detto di essere in contatto regolare con i generali che si battono per il controllo del Paese ed ha spiegato che il cessate il fuoco di 72 ore entrato in vigore martedì è stato rispettato in “parti” del paese, mentre gli scontri si sono intensificati in altre.       

I combattimenti sono “in gran parte continuati o in alcuni casi si sono intensificati” intorno all’aeroporto internazionale di Khartoum,  la residenza ufficiale del presidente, i siti militari e altri luoghi  strategici. Sono continuati anche attacchi aerei e  pesanti bombardamenti, specialmente nelle città di Khartoum Bahri e Omdurman.

Testimonianze dall’inferno

A raccoglierle, con un prezioso lavoro di documentazione sul campo, è l’agenzia Dire.

“Sto tra la sessantesima strada, sulla linea del fronte presidiata dalle Forze di intervento rapido, e il quartier generale dell’esercito; sento gli spari e so che nessuna delle due parti è adatta a governare il nuovo Sudan”. La voce di Duaa Tariq, curatrice d’arte e attivista democratica, arriva al telefono dal cuore di Khartoum. Da casa sua, vicina al Nilo azzurro, questa giovane vede colonne di fumo e sente esplosioni. “Finora il cessate il fuoco si è rivelato un fallimento” riferisce Tariq, intervistata dall’agenzia Dire mentre si trova nel quartiere di Jeraif, nella parte orientale della capitale del Sudan. “La ‘tregua’ ha retto un’ora o poco più: ieri hanno bombardato una casa e un ospedale nell’area di Omdurman, con due morti e decine di persone ferite, mentre stamane hanno colpito qui accanto, a due condomini di distanza, per fortuna pare senza causare vittime”. Sembra che al momento delle esplosioni gli abitanti non si trovassero in casa. Una verifica è tuttora in corso, con telefonate e messaggi rilanciati dal “comitato di resistenza” del quartiere, un’associazione di base della quale Tariq fa parte.
“Sono membro di ‘Khartoum est’, che dall’inizio del 2019 in poi ha organizzato decine di manifestazioni contro il carovita e per la democrazia, prima e dopo la caduta dell’ex presidente Omar Al-Bashir, e poi si è impegnato a portare nei negoziati politici le richieste della rivoluzione”.  Il riferimento dell’attivista è ai cortei che determinarono la fine di un regime ultratrentennale, nato nel 1989 con il golpe di un generale. E proprio come Al-Bashir sono generali i due contendenti di oggi, Abdel Fattah Al-Burhan, comandante in capo dell’esercito, e Mohamed Hamdan Dagalo, detto Hemeti, “piccolo Maometto”, a capo delle Forze di intervento rapido. La caduta di Al-Bashir, arrestato da altri militari sulla scia dei cortei popolari, ha segnato l’avvio di una fase di transizione ricca di speranze. Oggi, dopo un nuovo golpe militare dell’ottobre 2021, i “rivoluzionari” come Tariq devono però fare i conti con una nuova emergenza.  “Molti giovani del comitato sono dovuti andar via da Khartoum, per accompagnare e proteggere le proprie famiglie” riferisce l’attivista. “Con il passare dei giorni ci si è però cominciati a organizzare, per aiutare chi è rimasto solo a casa, prendersi cura dei bambini abbandonati o di chi ha bisogno di medicine o magari deve spostarsi”. Tra le iniziative dei giovani di Jeraif c’è anche la campagna “No alla guerra”, con appelli a una tregua immediata e all’avvio, con la garanzia di un cessate il fuoco effettivo, di negoziati con la partecipazione delle parti sociali. Nel frattempo sui muri di Khartoum sono comparse nuove scritte, inneggianti alla pace e alla “rivoluzione”. Se, come e quando questa potrà riprendere il proprio corso resta tutt’altro che chiaro. Ad alimentare i timori e le incertezze è da ultimo la notizia dell’uscita dal carcere di Ahmad Haroun, ex capo dei “janjaweed”, i cosiddetti “diavoli a cavallo”, accusati di crimini contro l’umanità per il conflitto armato cominciato nella regione del Darfur nel 2003. Haroun è ricercato dalla Corte penale internazionale, così come l’ex presidente Al-Bashir, agli arresti dal 2019. Entrambi sono stati detenuti nella prigione di Kober, dalla quale sarebbero usciti non solo l’ex capo dei “janjaweed” ma anche altri dirigenti del Partito del congresso nazionale, quello di Al-Bashir. Oggi i “diavoli a cavallo” sono inquadrati nelle Forze di intervento rapido, anche se non è chiaro quali possano essere le nuove posizioni e le alleanze di Haroun. Sul piano politico, Tariq condivide le richieste dei “comitati di resistenza”. “Questa lotta per il potere non ha nulla a che vedere con le richieste della gente” sottolinea l’attivista. “Vogliamo che i militari tornino nelle caserme e che le Forze di intervento rapido siano integrate nell’esercito o sciolte del tutto”. Se c’è una cosa emersa con chiarezza in Sudan, questo il senso delle parole di Tariq e delle scritte sui muri di Khartoum, è “che né l’una né l’altra parte sono adatte per il nuovo Sudan democratico e sociale”.

I rifugiati siriani a Khartoum: non ci aiuta neanche l’Onu
testimonianza: da 5 giorni niente pane, ma a damasco non torniamo 
“Quattro persone del nostro gruppo sono già morte, tra loro c’erano un bambino e poi Oman, che lavorava con me, e lascia moglie e figli. Sono rimasti uccisi nei combattimenti a Khartoum. Vogliamo andarcene dal Sudan, è troppo pericoloso, ma non possiamo tornare in Siria perché anche laggiù c’è la guerra. E l’Onu non vuole aiutarci. Vorremmo solo una vita normale. Come potevamo immaginare tutto questo?” Ahmad – un nome di fantasia – è un rifugiato siriano di 26 anni, e da cinque vive e lavora a Khartoum, dove è riuscito a completare le scuole superiori, interrotte a causa del conflitto civile nel suo Paese di origine, e a trovare un impiego in un’azienda. Scontri e raid aerei però lo hanno nuovamente raggiunto, da quando il 15 aprile la rivalità tra l’esercito del Sudan e i paramilitari delle Forze di supporto rapido (Rsf) è deflagrata, provocando centinaia di vittime e costringendo migliaia di persone a fuggire. Ma per Ahmad e i suoi compagni lasciare il Paese ora è impossibile: i combattimenti continuano nelle strade, nonostante le speranze di cessate il fuoco, e questo rende troppo pericoloso il viaggio verso città più sicure come Port Sudan. Così, riferisce Ahmad alla Dire, il gruppo si è rivolto all’Alto commissariato dell’Onu per i rifugiati (Unhcr), che in queste ore sta aiutando gli sfollati sudanesi, in particolare i 20mila che hanno già raggiunto il vicino Ciad. “Ci hanno risposto”, dice Ahmad, “di non poter fare niente e di rivolgerci alla nostra ambasciata, come se non sapessero che non possiamo”.
 Il Sudan è firmatario della Convenzione di Ginevra sui rifugiati e infatti ha accolto almeno 90mila persone in fuga dalla Siria, secondo stime Onu del 2021. Nel Paese mediorientale la guerra cominciata nel 2011 ha spinto milioni di persone a lasciare il Paese per il rischio di violenze e persecuzioni delle quali sono accusate sia i gruppi armati che il governo di Damasco. “Non possiamo tornare e ben pochi Paesi concedono visti d’ingresso ai siriani” dice Ahmad. “L’Alto commissariato lo sa ma non sta facendo niente e quattro di noi sono già morti”.

 Secondo l’Osservatorio siriano per i diritti umani (Sohr), sarebbero invece 11 le vittime provocate dagli scontri in Sudan.
Contattati per un commento, i responsabili della sede dell’Unhcr in Sudan non hanno per ora risposto.
Ahmad continua a elencare le difficoltà: “Vorremo raggiungere Port Sudan in auto (dove si trova il più vicino aeroporto, dopo che quello di Khartoum è stato messo fuori uso, ndr), ma carburante e viveri scarseggiano per la paralisi dei commerci e i saccheggi mentre, con le banche chiuse, non possiamo ritirare denaro agli sportelli o ai bancomat. I contanti stanno finendo.
Ora viviamo in otto in un appartamento dove ci siamo spostati dopo lo scoppio delle violenze. In casa abbiamo circa 30 litri d’acqua. Ce la procuriamo grazie a persone che vanno a riempire le taniche nel Nilo. Usciamo solo per procurarci cibo ma da cinque giorni il pane non si trova. Ci muoviamo solo quando vediamo un buon movimento di civili, perché abbiamo paura di soldati e miliziani nonché dei ladri. Voglio andarmene da qui. E’ mio diritto di essere umane vivere in un posto sicuro”.
   Molti cittadini stranieri residenti hanno ottenuto supporto dalle loro ambasciate e vari aerei militari sono già decollati.
Una fonte interna al ministero degli Esteri siriano, così come riporta l’agenzia di stampa Suna, il 23 aprile ha invitato i connazionali che vogliono lasciare il Paese a recarsi in ambasciata per registrare nelle liste. Ahmad, che ha lasciato Homs, città roccaforte dell’opposizione al regime siriano e per questo vittima tra le altre cose di un assedio da parte dell’esercito durato oltre tre anni, sottolinea però che per lui e i suoi compagni questa opzione non è praticabile.

 Criminali in libertà

Ahmad Haroun, l’ex capo delle milizie dei “janjaweed” accusato dalla Corte penale internazionale (Cpi) di crimini contro l’umanità nella regione sudanese del Darfur, ha comunicato di essere uscito dalla prigione di Khartoum dove era detenuto dal 2019.
Nei giorni scorsi, dopo l’inizio dei combattimenti nella capitale tra l’esercito e i paramilitari delle Forze di intervento rapido (Rsf), era stata diffusa la notizia di un’evasione dal carcere di Kober.
Haroun ha riferito di aver lasciato la prigione in una dichiarazione trasmessa dall’emittente Tayba Tv.
L’ex capo milizia era stato incriminato in qualità di fondatore e comandante dei “janjaweed”, i cosiddetti “diavoli a cavallo”, responsabili di violenze e uccisioni nei villaggi delle comunità nere del Darfur durante il conflitto cominciato nella regione nel 2003.
Nel carcere di Kober, insieme con Haroun, si trovava anche l’ex presidente sudanese Omar Al-Bashir, pure incriminato dalla Cpi per i crimini in Darfur. Il deposto presidente sudanese “si trova al sicuro” in mano all’Esercito in un luogo che “non può essere divulgato per timore che possa essere attaccato dalle  Forze di supporto rapido (Rsf)”, che accusano i capi delle Forze armate di voler reinstallare il vecchio regime islamista. Lo afferma Shieck al-Nazir, avvocato dell’ex presidente, in una dichiarazione rilasciata ad Al-Jazeera, sostenendo che “il carcere di Kober non è più sicuro alla luce dei continui scontri nella capitale e nei suoi sobborghi”.

Secondo diversi analisti, la milizia dei “janjaweed” è sostanzialmente la stessa che opera oggi con il nome di Forze di intervento rapido. A guidarle è il generale Mohamed Hamdan Dagalo, detto Hemeti, “piccolo Maometto”, in lotta contro l’esercito al comando di un altro generale, Abdel Fattah Al-Burhan.

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