Sudan, Libia, Tunisia: criminali e autocrati prosperano con i finanziamenti europei
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Sudan, Libia, Tunisia: criminali e autocrati prosperano con i finanziamenti europei

Italia e Ue pagano dei criminali psicopatici dediti a stupri, violenze di ogni genere, al servizio dei generali e autocrati che uccidono ogni principio di democrazia

Sudan, Libia, Tunisia: criminali e autocrati prosperano con i finanziamenti europei
Rifugiati al confine tra Sudan e Ciad
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Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

28 Aprile 2023 - 18.37


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In Sudan paghiamo dei criminali psicopatici dediti a stupri, violenze di ogni genere, al servizio di un generale amico dei criminali del Gruppo Wagner. In Tunisia, sosteniamo un autocrate che mette in galera ogni oppositore – Erdogan e al-Sisi fanno scuola – e scatena la caccia ai migranti. In Libia, beh, c’è una sterminata pubblicistica che dà conto del connubio tra trafficanti di esseri umani, criminali rivestiti da ufficiali della cosiddetta Guardia costiera libica, e signori della guerra, eterodiretti dall’esterno, spacciati per statisti. E’ l’Europa, signore e signori. Una vergogna infinita.

Il Sudangate

A tirarlo fuori, su Avvenire, è stato Nello Scavo. Globalist lo ha rilanciato come merita. Ora ci ritorna su, con un documentato report, Dario Prestigiacomo su Today: “Decine di milioni di euro dell’Ue versati al Sudan in cambio della “cooperazione” sui migranti avrebbero finanziato i paramilitari delle Rsf, le forze di intervento rapido guidate dal generale Mohamed Hamdan Dagalo che da giorni si stanno scontrando con l’esercito regolare del Paese africano. È una denuncia  – scrive Prestigiacomo – che ong per i diritti umani e media internazionali sollevano da anni, e che adesso torna alla ribalta nel pieno della nuova e sanguinosa guerra civile che sta sconvolgendo questo Stato, strategico, tra le altre cose, per i flussi di migranti verso l’Europa.

Il Processo di Karthoum

Tutto nasce nel 2014, quando Ue e Sudan si impegnano in quello che viene ribattezzato il Processo di Khartoum, un patto in cui lo Stato africano si impegna a combattere la migrazione illegale in direzione dell’Europa in cambio di finanziamenti per lo sviluppo. A spingere per questo accordo è soprattutto l’Italia, e non a caso l’iniziativa viene lanciata in pompa magna a Roma. L’interesse italiano è chiaro: per la sua posizione, il Sudan può fare da muro ai flussi che dal Corno d’Africa (Somalia, Etiopia, Eritrea), ma anche dallo Yemen, puntano dritti alla Libia e da qui alle nostre coste. 

I paramilitari delle Rsf

Nel quadro dell’accordo c’è l’European trust fund per l’Africa, il fondo creato dall’Ue allo scopo di ‘curare’ alla radice le cause che spingono le persone a migrare, ma che nelle more dei suoi progetti prevede una serie di azioni volte a contrastare il traffico dei migranti e a pagare le strutture di accoglienza (da alcuni attivisti definite prigioni) dove vengono stipati i clandestini. Per il Sudan, questo fondo prevede ben 217 milioni di euro, di cui 13 milioni dedicati specificatamente a vari progetti di gestione della migrazione.

Stando a diverse inchieste e testimonianze, parte di queste risorse sono andate proprio alle milizie delle Rsf, che avrebbero fatto della gestione della migrazione un business con cui finanziarsi e rafforzare la loro spesa militare. Diventando di fatto il secondo potere all’interno del Sudan al fianco di quello ufficialmente riconosciuto a livello internazionale. Nodo centrale di questa attività anti-migranti è il confine con la Libia: i soldati delle Rsf avrebbero avuto in questi anni il ruolo di riprendere i clandestini arrivati in Libia e riportarli in patria. Dei veri e propri respingimenti nel deserto.

L’accusa dell’Onu

A confermare il ruolo delle Rsf nella gestione dei flussi è stato anche il segretario dell’Onu Antonio Guterres, che in una lettera ha denunciato l’espulsione dalla Libia, avvenuta il 31 gennaio scorso, “di più di 400 migranti e richiedenti asilo, tra cui donne e bambini, principalmente provenienti dal Ciad e dal Sudan, la maggior parte dei quali espulsi verso il Sudan”. Le agenzie Onu, scrive Avvenire, avrebbero voluto visitare i migranti e intervistarli, ma “alle organizzazioni internazionali non è stato concesso l’accesso”. Tuttavia grazie a contatti locali e testimonianze raccolte dopo la deportazione è stato possibile accertare che prima dell’espulsione i migranti sono stati sottoposti “a traffico di esseri umani, torture, violenze sessuali e di genere, estorsioni”. Molti vengono ‘assunti’ direttamente dalle milizie come schiavi. 

Il ricatto dei migranti e la Russia

In altre parole, i fondi per la lotta ai trafficanti, quelli dell’Ue e dunque anche dell’Italia, sono finiti per finanziarie dei paramilitari, alcuni dei quali accusati di crimini contro l’umanità dai tempi della guerra del Darfur, che di fatto sono essi stessi dei trafficanti di esseri umani. E questo secondo il vertice dell’Onu. Bruxelles, finora, ha assicurato che i suoi fondi non sono andati alle Rsf, e non è chiaro se i flussi verso il Sudan siano proseguiti o meno. Avvenire segnala che il 7 febbraio scorso, sui social media dei paramilitari, è comparso un post che sembrava essere un messaggio diretto all’Ue e all’Italia: mostrando le immagini di alcune decine di migranti subsahariani catturati nel deserto, il post ricorda “che il Sudan è un Paese di transito per gli irregolari che vogliono raggiungere l’Europa attraverso il mar Mediterraneo, favoriti dalla mancanza di moderni sistemi di controllo lungo i confini con l’Egitto, la Libia e il Ciad”.

L’equipaggiamento per il controllo dei confini significa mezzi e armi. Il ricatto appare palese. Tanto più visto il recente incontro tra il ministro degli Esteri russo Lavrov e i vertici delle Rsf, seguiti, sempre secondo Avvenire, da contatti tra i paramilitari sudanesi e il gruppo Wagner. Ossia i mercenari russi che, secondo la nostra intelligence, starebbe lavorando in Africa per spingere sempre più migranti verso l’Europa”.

Intanto, in Sudan si continua a morire. Da un lancio dell’agenzia Dire:  “Mancanza di sicurezza e nuovi scontri a fuoco ostacolano in modo grave il diritto alle cure sia nella capitale Khartoum che nella regione del Darfur, nell’ovest del Sudan: lo riferiscono operatori dell’ong Medici senza frontiere (Msf), nonostante l’annuncio di un’intesa su un cessate il fuoco tra le fazioni militari in lotta. Secondo Mohammed Gibreel Adam, coordinatore dell’organizzazione presso l’Ospedale meridionale nella città di El Fasher, nel nord del Darfur, “l’accesso ai servizi sanitari continua a essere interrotto”. Il responsabile sottolinea: “Non c’è acqua, non c’è elettricità e manca la benzina; tante persone si affollano nelle corsie ma si riesce a fornire assistenza solo per i casi più gravi”. Secondo Gibreel Adam, uno dei problemi è la mancanza di garanzie di sicurezza, che impedisce gli spostamenti, i soccorsi e i trasferimenti di emergenza dei pazienti. Nella testimonianza, diffusa da Msf anche con un filmato, si vedono persone su barelle ferite da quelli che appaiono colpi di arma da fuoco.
L’emergenza riguarda anche altre aree del Darfur, in particolare il capoluogo meridionale El Geneina. Organizzazioni locali dei medici hanno riferito che due giorni di scontri in città hanno provocato oltre 70 morti.
El Geneina è uno degli epicentri del conflitto tra l’esercito guidato dal generale Abdel Fattah Al-Burhan e i paramilitari delle Forze di intervento rapido di Mohamed Hamdan Dagalo detto Hemeti, il “piccolo Maometto”.  Di una situazione ad alto rischio riferisce anche Ghazali Babiker, responsabile di Msf a Khartoum. “Ci sono stati scontri e bombardamenti anche presso un nostro magazzino e per questo abbiamo dovuto sospendere la consegna agli ospedali di alcune donazioni che avevamo ricevute” sottolinea il dottore. Secondo Babiker, uno dei poli di assistenza che continua a funzionare in città è l’Ospedale turco. “Si trova nel quadrante centro-meridionale” spiega il dottore. “Resta aperto ed Msf continua a supportarlo con le donazioni di farmaci nonostante conservi una capacità di assistenza minima”.
Oggi l’esercito di Al-Burhan ha accusato le Forze di intervento rapido di Hemeti di aver aperto il fuoco su un aereo turco fermo sulla pista dell’aeroporto di Wadi Seyidna, alle porte di Khartoum. Secondo il ministero degli Esteri di Ankara, il C-130 è stato raggiunto da alcune raffiche e ora ha bisogno di riparazioni. Gli spari non avrebbero però causato feriti”.

Figuraccia a Tunisi

L’ha ben raccontata Il Foglio in un redazionale: “La commissaria europea per gli Affari interni Yiva Johansson è volata in Tunisia. Ma la missione europea per cercare di risolvere la questione tunisina è già fallita. Johansson è partita senza i ministri degli interni di Italia, Francia e Germania, che un mese fa avevano annunciato la missione e però hanno deciso di annullare la partenza viste le scarse rassicurazioni ottenute dal presidente tunisino Saied. Situazione che ha convinto le istituzioni europee a bloccare la tranche di aiuti in attesa che il governo tunisino accetti le condizioni poste dal Fondo monetario internazionale.

La commissaria europea cercherà di persuadere il leader tunisino a varare quanto prima le riforme chieste dal Fmi, in modo da poter accedere al finanziamento da 1,9 miliardi di dollari. Eppure il quadro non è di certo semplificato dal recente arresto del leader dell’opposizione Ghannouchi. Così come dal fatto che Saied sarebbe poco propenso a far accettare alla popolazione, già particolarmente stremata dalla crisi in cui è piombato il paese, un programma cosiddetto “lacrime e sangue”.

La questione sta molto a cuore all’Italia, tanto che la delegazione italiana è stata l’ultima ad aver annullato il viaggio (seppur dal Viminale abbiano smentito che fosse davvero in programma). L’obiettivo del governo italiano, che ha cercato una sponda negli Stati Uniti, è quello di cercare di bloccare le partenze dalla Tunisia: nelle ultime ore la situazione a Lampedusa è diventata critica, con lo sbarco di altri 700 migranti provenienti per lo più dal porto tunisino di Sfax.

E’ da mesi che il governo ha individuato nella causa tunisina uno dei punti chiave della propria politica estera. Il ministro degli Interni Matteo Piantedosi si era recato, insieme al ministro degli Esteri Antonio Tajani, a Tunisi a gennaio e a fine marzo ha avuto un colloquio con il corrispettivo tunisino Kamel Fekih. 

Il capo della Farnesina nelle scorse settimane ha detto di considerare necessario e centrale il ruolo di Tunisi, seppur non sbilanciandosi troppo per la scarsa affidabilità e il rischio di sostenere il regime. Ieri sera, quando s’era capito che la missione era tramontata (almeno per ora) in tv ha confessato che la “situazione in Tunisia rimane molto indietro”. E’ il segno che dalla giornata di oggi a Roma ci si aspetti davvero poco di concreto”.

Previsione azzeccata. 

Dal nulla politico, alle stragi in mare

Di fronte alle coste della Tunisia, nell’arco di 10 giorni, sono stati recuperati i corpi di 210 migranti. Lo rende noto il portavoce della Guardia nazionale di Tunisi, spiegando che si tratta di vittime di naufragi avvenuti al largo di Sfax, Kerkennah e Mahdia. Stando a screening preliminari, le vittime sarebbero tutte originarie di Paesi dell’Africa subsahariana.

Libia, caos armato

“E’ sfociata nella disobbedienza civile la situazione a Zawiya, importante città costiera della Libia occidentale tra i punti principali delle partenze dei migranti e snodo cruciale delle esportazioni di prodotti petroliferi. Testimoni oculari riferiscono ad “Agenzia Nova” di blocchi stradali e assalti alle sedi della sicurezza da parte della popolazione, nonché della chiusura delle valvole della raffineria locale, con possibili ripercussioni sulla produzione di petrolio e la fornitura di energia elettrica. Un’altra fonte della sicurezza libica ha riferito ad “Agenzia Nova” che gruppi di manifestanti, spalleggiati da milizie locali, “hanno fatto irruzione in diversi nascondigli criminali e arrestato oppure ucciso un numero non ancora identificato di africani subsahariani, sebbene alcuni siano riusciti a fuggire”. Tutto questo segue la diffusione sui social media libici di filmati di torture perpetrate da persone definite come “africani” ai danni di altre persone identificate come “giovani libici”, anche se dalle immagini non sembra possibile alcuna identificazione. La diffusione del video, corredato da commenti in cui si punta il dito contro presunti migranti sub-sahariani assoldati per torturare gli arabi, ha suscitato la rabbia della popolazione di Zawiya, che da ieri è scesa in strada per manifestare la propria indignazione. Intanto tutti gli ingressi della città sono chiusi, tranne la strada verso i monti Nafusa che si trova a sud: la città è quindi isolata dalla capitale Tripoli.

 “Chiediamo a tutte le città della Libia di unirsi a noi. Queste bande criminali devono essere espulse dalla nostra città. Non permetteremo più la tortura e il rapimento dei nostri giovani!”, ha detto ad “Agenzia Nova” Muhammad Khaled, un residente di Zawiya. Intanto i dimostranti hanno diffuso sui social media le loro richieste per porre fine alle manifestazioni: lo scioglimento del Consiglio municipale e lo svolgimento delle elezioni 

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