Sudan, perché i riflettori non si spengano su una tragedia umanitaria che di giorno in giorno assume i tratti di una apocalisse che ricorda quelle che ancora segnano lo Yemen e la Siria.
Sudan, l’ennesima guerra “ignorata”.
La denuncia dell’Unhcr
A dare conto di una situazione devastante per la popolazione civile è Axel Bisshop, Rappresentante dell’Unhcr, l’Agenzia delle Nazioni Unite per i Rifugiati in Sudan Con l’aggravarsi delle ostilità in Sudan l’Unhcr – ha affermato Bisshop in conferenza stampa ieri al Palais des Nations di Ginevra – l’Agenzia Onu per i Rifugiati, mette in guardia sull’impatto devastante che il conflitto in corso sta avendo sulla popolazione civile, compresi i rifugiati e gli sfollati interni in tutto il paese.
Gli intensi combattimenti e le condizioni di insicurezza hanno spinto decine di migliaia di persone a fuggire in cerca di salvezza.
A causa delle mancate condizioni di sicurezza, l’Unhcr è costretto a sospendere temporaneamente la maggior parte delle attività di soccorso a Khartoum, nel Darfur e nel Kordofan settentrionale, dove è diventato troppo pericoloso operare. La sospensione di alcuni programmi umanitari probabilmente aumenterà i rischi per coloro che fanno affidamento sull’ assistenza umanitaria per la loro sussistenza. Tutti gli uffici sono riusciti a rimanere in contatto con alcuni leader delle comunità di rifugiati e membri dei comitati di rifugiati, e stiamo facendo del nostro meglio per dare a queste persone assistenza e supporto. I campi rifugiati a Gadaref, Kassala, White Nile e Blue Nile, così come gli insediamenti di rifugiati nel Kordofan meridionale e occidentale, restano finora in una condizione di relativa calma; i servizi essenziali, compresa l’acqua e l’assistenza sanitaria, continuano a funzionare. Abbiamo ricevuto informazioni che circa 33.000 rifugiati hanno lasciato Khartoum verso i campi rifugiati nello stato del Nilo Bianco, in cerca di protezione; in 2.000 si sono diretti nei campi a Gadaref, e 5.000 a Kassala per cercare di mettersi in salvo dal momento in cui è scoppiata la crisi, due settimane fa.
Lavoriamo a stretto contatto con il Wfp per capire come distribuire il cibo già presente nel Paese, e insieme alle altre agenzie Onu, quali l’Unicef, e alle Ong, per garantire le altre forme di assistenza di base. Il fatto che l’assistenza, così disperatamente necessaria soprattutto per le persone da poco sfollate, non possa essere garantita, è estremamente preoccupante. Civili innocenti, tra cui donne e bambini, continueranno solo a soffrire.
L’accesso e la condivisione delle informazioni con le comunità sfollate continuano a essere gravemente ostacolati in alcune località. La mancanza di elettricità, la scarsità di carburante e la scarsa connettività limitano per tutti le possibilità di comunicare efficacemente.
L’Unhcr è particolarmente preoccupato per la situazione nella regione del Darfur, dove, tra una miriade di immediate necessità di protezione, la situazione umanitaria rimane disastrosa. Numerosi siti che ospitano sfollati interni sono stati rasi al suolo, mentre le case dei civili e le sedi umanitarie vengono colpite durante gli scontri a fuoco.
Poiché il Darfur è una delle regioni più colpite dalla violenza e da alti livelli di criminalità, anche prima dell’attuale situazione, l’Unhcr teme che le ostilità in corso possano alimentare tensioni etniche e intercomunitarie preesistenti per i territori e l’accesso alle risorse ed essere ulteriore causa di sfollamento. Ciò avrebbe implicazioni disastrose per una regione che sta già affrontando questo fenomeno in larga misura.
L’Unhcr mantiene l’impegno a proteggere i rifugiati, le popolazioni sfollate e le comunità ospitanti in Sudan. Continuiamo a fare tutto il possibile collaborando con le comunità e aumentando il numero di interventi quando sarà possibile.
L’Unhcr invita le parti in conflitto a cessare immediatamente le ostilità per consentire al personale umanitario di raggiungere coloro che ne hanno maggiormente bisogno e per permettere alle persone che cercano di fuggire dai combattimenti di farlo in sicurezza. Tutte le parti in conflitto devono proteggere i civili, compresi i rifugiati e gli sfollati, nonché la sicurezza del personale umanitario e delle infrastrutture civili. Ci uniamo all’appello perché tutte le parti intraprendano significativi sforzi di pace.
La situazione rimane molto preoccupante anche ai confini del Sudan, dove l’Unhcr sta lavorando con i partner e i governi per dispiegare risorse dove è possibile e sicuro farlo. Data la vastità del Paese e la velocità con cui si evolve la situazione, nonché il costante mutamento dello scenario sul campo, è ancora difficile avere numeri precisi sugli arrivi di nuovi rifugiati, anche se si prevede un aumento.
In Ciad, insieme al governo abbiamo identificato 7.500 rifugiati su almeno 20.000 persone che hanno attraversato il confine nell’ultima settimana circa. Circa 14.000 persone sono fuggite in Sud Sudan, principalmente sud sudanesi di ritorno nel paese d’origine. L’Unhcr sta inviando ulteriori risorse al confine e sta lavorando con i partner per assisterli.
In Egitto, il governo ha segnalato 16.000 attraversamenti, di cui 14.000 sudanesi. L’Unhcr sta lavorando con le Nazioni Unite, il governo e i partner quali leader delle comunità sudanesi e la Mezzaluna Rossa egiziana (Erc) per sostenere le persone in fuga e bisognose di protezione internazionale. Un piano coordinato risponderà alle esigenze di coloro che stanno attraversando il confine. Gli aiuti salvavita dell’Onu sono stati pre-posizionati tramite l’Erc. L’Unhcr è pronto a raggiungere il confine non appena riceverà l’autorizzazione dalle autorità egiziane. Alcune famiglie sudanesi che hanno attraversato il confine si sono rivolte all’Unhcr al Cairo per la registrazione.
Nella Repubblica Centrafricana e in Etiopia abbiamo notato un numero inferiore di arrivi, ma non disponiamo ancora di cifre esatte”.
Tregua violata
Continuano i combattimenti a Khartoum e nel Darfur, nonostante l’accordo sulla nuova tregua raggiunta in Sudan tra esercito e paramilitari, impegnati negli scontri che ha provocato oltre 500 morti in due settimane. Nella notte tra giovedì e venerdì, l’esercito del generale Abdel Fattah al-Burhane e le Forze di supporto rapido (FSR) del generale Mohamed Hamdane Daglo avevano concordato di prorogare di 72 ore il cessate il fuoco, raggiunto sotto l’egida degli Stati Uniti, senza però rispettarlo. A Khartoum, attacchi aerei e fuoco antiaereo hanno risuonato vicino al quartier generale dell’esercito. L’Onu ha osservato che il conflitto sta riaccendendo scontri etnici nel Darfur occidentale e si è detto “preoccupato” per il “clima di impunità generalizzata”.
Le Nazioni Unite denunciano da giorni un aumento di violenze e attacchi a El Geneina, capoluogo dello Stato del Darfur occidentale, a fronte del conflitto in corso in Sudan tra esercito e forze paramilitari.
Tuttavia, responsabili degli scontri nella regione a prevalenza cristiana del Sudan, non sarebbero i due eserciti rivali, bensì secondo quanto riportato dal Sudan Tribune, la comunità Masalit e quella arabe, che avrebbe causato finora la morte di oltre 90 persone e la fuga di migliaia di persone nel vicino Ciad.
Un abitante della città ha raccontato al quotidiano di “tribù arabe armate” che hanno attaccato la città, sparando in modo indiscriminato e dando alle fiamme i campi per gli sfollati: “Quello che sta accadendo a El Geneina è un genocidio e una pulizia etnica in assenza dell’esercito, della polizia e delle agenzie regolari”, ha denunciato Mohamed Hasaballah. Una fonte sanitaria ha confermato che la sede del ministero della Salute è stata completamente distrutta, saccheggiata e data alle fiamme e che è stato attaccato anche il Geneina Teaching Hospital, aggiungendo che sarebbero stati uccisi anche diversi operatori sanitari. Alcune testimonianze di giovani parlano di nigeriani che usano studenti come scusi umani.
Due giorni fa, l’inviato speciale Onu per il Sudan, Volker Perthes, si è detto “profondamente preoccupato per la violenze a El Geneina che sembrano assumere sempre più dimensioni intercomunitarie con attacchi ai civili e saccheggi e distribuzione di armi tra le comunità locali”.
Uno dei generali del Sudan, che guida la forza paramilitare che combatte l’esercito del paese, ha detto alla Bbc che non negozierà fino alla fine dei combattimenti. Il generale Mohamed Hamdan Dagalo, meglio conosciuto come Hemedti, ha detto che i suoi combattenti sono stati bombardati “inesorabilmente” da quando è stata estesa una tregua di tre giorni. “Non vogliamo distruggere il Sudan”, ha detto, incolpando il capo dell’esercito, il generale Abdel Fattah al-Burhan, per le violenze. Il generale Burhan ha detto sì a colloqui da tenersi in Sud Sudan.
Scrive Paolo Lambruschi su Avvenire: “Nel caos che regna in queste ore nella grande città sui due Nilo contesa da due signori della guerra alimentati da grandi e medie potenze, i rifugiati vengono catturati, rapiti e addirittura rimpatriati, come è capitato a un migliaio di giovani eritrei fuggiti dal servizio militare a vita in vigore nello stato caserma africano. Notizia diramata da fonti dell’opposizione e confermata indirettamente da Tesfanews, agenzia che sostiene il regime eritreo, che ha definito «evacuazione» il rimpatrio forzato.
Il gruppo di opposizione Eritrea democratica ha confermato che uscire dalla capitale in cerca di scampo è molto difficile per i prezzi degli autobus schizzati alle stelle. E chi è riuscito a fuggire verso Kassala, nel sudest, dove ci sono i campi profughi per eritrei vecchi anche di 30 anni, è stato arrestato ai posti di blocco, poi malmenato e rapito dalle forze paramilitari sudanesi. Le quali, addestrate con fondi Ue dagli italiani (come ha rivelato nell’agosto 2022 Africa Express) per fermare i flussi migratori, li hanno rapiti e sottoposti a violenze per estorcere alle famiglie fino a 5mila dollari per la liberazione.
Ma, dopo averli liberati, li hanno caricati su una decina di grandi pullman e trasportati alla frontiera con l’Eritrea, dove li aspetta la galera o l’arruolamento. Attraverso le testimonianze di parenti di profughi in Sudan, sappiamo che i trafficanti di esseri umani sono già in azione nei quartieri abitati dagli eritrei nella capitale sudanese e nella città gemella di Omdurman e Barhi, da dove si organizzano i viaggi verso la Libia e che ricominceranno al più presto quando sarà possibile muoversi , magari in accordo con le milizie. Ieri l’Alto commissario Onu per i rifugiati ha lanciato un appello a tutti i Paesi confinanti con il Sudan «affinché mantengano aperti i propri confini aperti alle persone in cerca di sicurezza e protezione».
Se la violenza non si ferma, il rischio di una grave crisi di rifugiati è molto alto. «Migliaia sono già in movimento in cerca di sicurezza», ha annunciato su Twitter Filippo Grandi. Proprio quello di cui l’Europa – Roma in testa –, ha paura”.
Rischio spill-over
Ne dà conto un documentato report dell’Ispi (Istituto per gli studi di politica internazionale): “Khartoum è diventata una città fantasma”, dice Atiya Abdalla Atiya, segretario del sindacato dei medici sudanesi, ancora nella capitale, dove i civili che non riescono a fuggire e sono barricati in casa per paura di proiettili vaganti. Intanto negli scaffali dei supermercati, presi d’assalto, scarseggiano beni di prima necessità e molte persone – a causa dei danni alla rete idrica – lamentano mancanza di acqua potabile.
Tra i due generali che si contendono il controllo sul terzo paese più esteso del continente, ricco di risorse e minerali preziosi, che stava faticosamente tentando di uscire dal dominio militare dopo il rovesciamento dell’ex presidente-dittatore Omar Hassan al Bashir, la rottura sembra totale. In una intervista al Financial Times rilasciata dopo lo scoppio delle ostilità, Dagalo, vicepresidente sudanese e comandante delle Rsf, ha accusato le forze armate di prendere di mira ospedali e obiettivi civili, definendo il suo rivale “il leader di una banda di islamisti radicali” che vogliono instaurare una dittatura militare nel paese. In un’intervista separata, il suo oppositore Abdel Fattah al-Burhan ha accusato le Rsf di “violenza indiscriminata”. Entrambi – alleati nella rivolta contro al Bashir – sono “ugualmente complici del crimine politico più recente del paese: il colpo di stato del 2021” scrive su Twitter Amied Farid, ex consigliere di Hamdok, secondo cui il loro attuale conflitto “non è altro che una battaglia per spartirsi il bottino”.
Guerra per procura
Rimarca ancora il report Ispi: “A quasi una settimana dall’inizio degli scontri e senza prospettive di una tregua, il timore di molti osservatori è che alcuni attori regionali possano decidere di prendere le parti dell’uno o dell’altro schieramento, contribuendo ad alimentare un conflitto di lunga durata. È indubbio infatti che Il Cairo guardi con crescente apprensione a ciò che sta accadendo in Sudan, dove il governo di Abdel Fattah Al Sisi ritiene al Burhan un alleato affidabile (al contrario di Dagalo), anche a livello regionale, per contenere le mire dell’Etiopia sulle acque del Nilo. “C’è una profonda sfiducia nelle intenzioni di Hemedti”, osserva Wahid Hanna, “in gran parte perché è un capo milizia e quindi esterno alle gerarchie militari convenzionali, ma anche a causa dei suoi presunti legami commerciali con la Russia, che ha corteggiato con la prospettiva di un accesso militare a Port Sudan”. Un’ipotesi sgradita al Cairo che non vorrebbe vedere una presenza militare esterna in quello che da sempre l’Egitto considera come il proprio ‘cortile di casa’. Anche l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti sono attori importanti nel paese, considerato parte del Medio Oriente e come tale sfera di influenza per entrambi. Se negli anni Hemedti ha guadagnato consensi inviando migliaia di combattenti in Yemen con la coalizione guidata dai sauditi e dagli Emirati, anche Burhan è stato accolto con favore. Per questo, e per scongiurare un conflitto che divamperebbe di fronte alle coste saudite, mettendo a repentaglio il transito sul Mar Rosso, Riad è stata particolarmente attiva nel tentativo di far calmare le acque. Finora, a quanto pare, i suoi tentativi non hanno avuto successo”.